N. 42 - Giugno 2011
(LXXIII)
L’ultimo dei “trawniki”
Quando la giustizia fa male alla storia
di Lawrence M.F. Sudbury
Alcuni
affermano
che
esistono
porte
del
passato
che
non
dovrebbero
più
essere
aperte.
È
un’affermazione
discutibile.
Forse
più
sensato
sarebbe,
piuttosto,
dire
che
aprendo
qualsiasi
porta
bisogna
essere
ben
consci
del
significato
di
ciò
che
si
sta
facendo
e
del
senso,
anche
simbolico,
delle
proprie
azioni.
È
esattamente
questa
coscienza
che
sembra
essere
recentemente
mancata
in
un
tribunale
di
Monaco
di
Baviera,
in
quello
che
avrebbe
dovuto
essere
uno
degli
ultimi
processi
a
criminali
nazisti
e
che
si
è,
invece,
trasformato
in
una
vergognosa
attenuazione
delle
responsabilità
storiche
e
morali
delle
efferatezze
compiute
durante
la
Shoà.
I
fatti
sono
semplici,
terribilmente
semplici
nella
loro
tragicità,
così
semplici
da
non
aver
meritato
più
di
un
trafiletto
sui
giornali
italiani.
In
sostanza,
il
13
maggio
2011,
John
Demjanjuk,
91enne
ex
guardiano
del
campo
di
concentramento
di
Sobibor,
in
Polonia,
già
erroneamente
condannato
in
contumacia
in
Israele
nel
1988
perché
scambiato
per
il
famigerato
kapò
di
Treblinka
“Ivan
il
terribile”,
è
stato
condannato
a
cinque
anni
di
reclusione
ma è
stato
subito
rimesso
in
libertà
per
l’età
avanzata
in
atteso
dell’appello
in
Corte
di
Cassazione,
subito
annunciato
dalla
difesa.
Demjanjuk
era,
secondo
l’accusa,
un “trawniki”,
una
sorta
di
“mercenario”
straniero
al
soldo
della
follia
nazista,
così
come
provato
dal
suo
tesserino
personale
fornito
dalle
SS
in
cui
si
legge
chiaramente
«inviato
il
27.3.43
a
Sobibor».
O
meglio,
Demjanjuk
era,
all’interno
della
già
famigerata
categoria
di
cui
faceva
parte,
una
specie
di
mito
negativo
per
la
sua
ferocia
e
per
la
sua
violenza,
tanto
da
guadagnarsi
l’appellativo
di
“boia
di
Sobibor”.
Per
questo
la
Germania
aveva
chiesto
e
ottenuto,
il
12
maggio
2009,
la
sua
estradizione
dagli
Stati
Uniti,
per
questo
era
stato
aperto,
il
30
maggio
successivo,
un
processo
contro
lui
solo
tra
i
150
“trawniki”
che
operavano
nel
campo
del
Voivodato
di
Lublino.
Certo,
l’avvocato
difensore
Ulrich
Busch
aveva
chiesto
l’assoluzione
parlando
di
un
processo
indiziario
basato
sull’unica
prova
di
quel
tesserino
che
poteva
esser
stato
falsificato
a
suo
tempo
dal
Kgb
(ma
perché
il
Kgb
avrebbe
dovuto
prendersi
la
briga
di
costruire
prove
false
contro
uno
tra
le
centinaia
di
“operai
della
morte”
che
collaborarono
con
le
SS?),
certo,
nessuno
dei
sopravvissuti
del
campo,
dopo
65
anni,
ha
potuto
riconoscere
in
Demjanjuk
il
“boia
di
Sobibor”,
ma,
dopo
un
anno
e
mezzo
di
processo,
dopo
93
udienze,
nessuno
si
sarebbe
potuto
aspettare
una
conclusione
che,
storicamente
parlando,
è
molto
peggio
di
un’assoluzione.
Perché
i
simboli
esistono,
anche
nella
retribuzione
delle
colpe
e
perché
esiste
un
concetto
di
“responsabilità
personale
all’interno
della
responsabilità
collettiva”
che
risulta
valido
fin
dai
tempi
di
Norimberga.
Ebbene,
a
conti
fatti,
condannare
Demjanjuk
a
cinque
anni
di
reclusione
per
i
suoi
crimini
significa,
dal
punto
di
vista
simbolico,
condannarlo
a 1
ora
e 56
minuti
di
reclusione
per
ognuno
dei
27.900
ebrei
morti
a
Sobibor.
Proprio
così:
1
ora
e 56
minuti
per
ogni
vita
distrutta
dopo
atroci
sofferenze.
È
questo
che
vale
la
vita
di
un
uomo?
John
Demjanjuk
ha
91
anni
e
probabilmente
nessun
sistema
giuridico
al
mondo
avrebbe
mai
potuto
vederlo
morire
in
un
carcere.
Ma
non
è
questo
il
punto.
Questo
ucraino
inizialmente
parte
dell’Armata
Rossa,
catturato
dai
nazisti
nel
1942
durante
l’operazione
Barbarossa,
reclutato
dai
nazisti
come
guardia
di
campi
di
concentramento,
infine
arruolatosi
nel
1945
nella
delirante
armata
nazionalista
anti-comunista
di
Andrej
Andreevič
Vlasov
che
combatté
gli
ultimi
mesi
di
guerra
in
favore
del
Terzo
Reich,
certamente
non
è
più
la
stessa
persona
di
quel
tempo
di
barbarie:
dal
1951
è
stato
un
operaio
emigrato
negli
Stati
Uniti,
dal
1958
è
diventato
cittadino
americano,
un
buon
cittadino,
rispettoso
delle
leggi,
un
buon
padre,
un
buon
nonno,
un
buon
pensionato
della
Ford
di
Detroit.
Ma
non
è
questo
il
punto.
Il
punto
è
che
è
stato
un
“trawniki”
di
Sobibor,
anzi
il
più
famigerato,
temuto,
odiato
“trawniki”
di
Sobibor,
macchiandosi
di
delitti
la
cui
crudeltà,
la
cui
infamità
non
si
potrà
mai
cancellare.
“Trawniki
di
Sobibor”:
forse
a
gran
parte
di
noi
questo
non
dice
niente.
Cosa
è
stato
Sobibor?
Conosciamo
alcuni
nomi
di
campi:
Auschwitz,
Mauthaousen,
Dachau,
Bergen-Belsen
sono
nomi
famosi.
Non
così
Sobibor.
Rinfreschiamoci,
allora,
la
memoria,
seppur
procedendo,
anche
in
questo
caso,
per
sommi
capi.
Il
campo
di
Sobibor
fu
uno
dei
tre
campi,
insieme
a
Treblinka
e
Belzec,
della
“Aktion
Reinhard”,
cioè
del
piano
di
attuazione
della
“soluzione
finale”
per
gli
ebrei
del
Governatorato
Generale.
Il
campo
venne
ultimato
sotto
la
direzione
dell’Obersturmführer
Richard
Thomalla
nell’aprile
1942:
si
trattava
di
un
campo
di
modeste
dimensioni,
400
metri
per
600,
per
il
quale
erano
sufficienti
pochi
SS
“specialisti”,
provenienti
dal
programma
di
eutanasia
e
dunque
già
esperti
nell’uso
delle
camere
a
gas,
coadiuvati
da
ucraini
comandati
da
“tedeschi
etnici”
cioè
uomini
di
lingua
tedesca
nati
all’estero.
Sobibor
venne
affidato
al
comandante
Franz
Stangl,
uno
degli
uomini
di
punta
del
“progetto
eutanasia”
e
venne
diviso
in
tre
aree
separate
da
filo
spinato:
un’area
amministrativa,
prossima
allo
scalo
ferroviario
in
cui
venivano
scaricati
i
prigionieri
in
arrivo,
che
ospitava
le
abitazioni
destinate
ai
tedeschi
ed
alle
guardie
ucraine;
un’area
di
“accoglienza”
in
cui
i
prigionieri
subivano
il
sequestro
degli
abiti,
il
taglio
dei
capelli
per
le
donne
e la
confisca
dei
beni
prima
di
essere
inviati
alle
camere
a
gas;
infine,
l’area
di
sterminio
vera
e
propria,
che
conteneva
le
camere
a
gas,
le
fosse
comuni
e le
abitazioni
per
gli
ebrei
che
venivano
impiegati
nelle
operazioni
di
massacro.
Normalmente
alcune
centinaia
di
prigionieri
venivano
scelti
per
lavorare
nel
campo.
Erano
sarti,
artigiani,
orafi,
ma,
soprattutto,
erano
coloro
che
dovevano
svolgere
tutte
le
attività
legate
al
processo
di
sterminio:
una
squadra
lavorava
alla
stazione
per
rimuovere
i
corpi
dei
deceduti
durante
i
trasporti,
pulire
i
vagoni
e
raccogliere
gli
oggetti
abbandonati,
un’altra
si
occupava
dei
bagagli
e
dei
vestiti,
alla
ricerca
di
preziosi
e
denaro
e
per
riciclare
gli
indumenti,
una
squadra
di
barbieri
tagliava
i
capelli
delle
donne
e
preparava
i
pacchi
da
spedire
in
Germania,
infine,
circa
200
prigionieri
lavoravano
nell’area
di
sterminio
vero
e
proprio,
per
rimuovere
i
corpi
dalle
camere
a
gas,
estrarne
i
denti
d’oro,
portare
i
cadaveri
alle
fosse
e
ripulire
le
camere
dopo
le
esecuzioni.
La
vita
media
dei
“lavoratori”
era
di
pochi
mesi,
poi
venivano
rimpiazzati.
Sobibor
era
abbastanza
particolare
per
la
tecnica
utilizzata
per
evitare
sommosse
e
tafferugli:
fino
all’ultimo
momento
le
vittime
non
conoscevano
il
destino
che
li
attendeva.
All’arrivo
veniva
detto
loro
che
si
trovavano
in
un
campo
di
sosta
e
che
avrebbero
proseguito
verso
est
per
finire
il
viaggio
in
aree
di
lavoro
forzato
e
che,
essendo
necessaria
per
le
loro
nuove
mansioni
una
estrema
pulizia,
dovevano
sottoporsi
a
una
doccia
e
alla
disinfestazione
degli
abiti.
Negli
impianti
di
gasaggio
venivano
fatti
entrare
a
gruppi
di
450-500
persone
e
per
diminuire
le
possibilità
di
resistenza
tutto
veniva
fatto
con
la
massima
velocità,
correndo.
Di
solito
tutta
l’operazione
di
avvelenamento
non
durava
più
di
mezz’ora
e
dall’entrata
al
campo
al
gettare
i
corpi
nelle
fosse
non
passavano
più
di
tre
ore,
cosicché
era
possibile
procedere
ad
un
vero
e
proprio
processo
da
“catena
di
montaggio”
fino
all’ultimo
convoglio
della
giornata.
Naturalmente
il
distretto
di
Lublino,
in
cui
Sobibor
sorgeva,
fu
quello
che
fornì
il
maggior
numero
di
ebrei,
ma
al
campo
arrivarono
anche
prigionieri
provenienti
dalla
Cecoslovacchia,
dalla
Germania
e
dall’Austria:
nel
primo
periodo
di
vita
della
“fabbrica
della
morte”
vennero
eliminati
tra
i
90.000
e i
100.000
ebrei,
poi
i
trasporti
furono
interrotti
tra
l’agosto
ed
il
settembre
1942
per
la
costruzione
di
tre
nuove
camere
a
gas
più
capienti
e
Franz
Stangl,
“promosso”
a
capo
del
campo
di
Treblinka
venne
sostituito
da
Franz
Reichsleitner,
che
supervisionò
allo
sterminio,
in
ordine
di
tempo,
di
70-80.000
ebrei
della
Galizia
orientale,
di
25.000
ebrei
slovacchi.
di
4.000
ebrei
francesi,
di
35.000
ebrei
olandesi
(fatti
arrivare
su
carrozze
passeggeri
e
rassicurati
dall’ordine
di
scrivere
ai
famigliari
prima
di
essere
condotti
alle
camere
a
gas)
e di
14.000
ebrei
provenienti
dai
ghetti
di
Minsk,
Vilna
e
Lida.
Il 5
luglio
1943
Himmler
ordinò
la
trasformazione
di
Sobibor
in
campo
di
concentramento:
il
campo
venne
ampliato
con
l’aggiunta
di
una
quarta
sezione
e
vennero
costruiti
dei
magazzini
per
le
munizioni
sovietiche
catturate.
È in
questo
periodo
che
arrivò
come
prigioniero
Leon
Feldhendler,
ex-capo
del
Consiglio
Ebraico
della
città
polacca
di
Zolkiew,
l’uomo
che
organizzò
l’unica
ragione
per
la
quale
Sobibor
viene
menzionato
da
alcuni
libri
di
storia:
la
rivolta
dei
prigionieri,
un
atto
disperato
a
cui
parteciparono,
tra
gli
altri,
80
soldati
russi
di
fede
israelita
appena
catturati.
Il
14
ottobre
1943,
circa
500
internati
riuscirono
ad
uccidere
undici
SS e
alcune
guardie
ucraine,
attraversarono
il
campo
minato
intorno
alle
recinzioni
e in
300
raggiunsero
i
boschi:
250
vennero
eliminati
nella
caccia
all’uomo
organizzata
subito
dai
tedeschi,
ma
50
sopravvissero
alla
guerra.
Scioccati
dall’accaduto,
i
nazisti
decisero
di
chiudere
Sobibor
anziché
trasformarlo
in
un
campo
di
concentramento:
tutti
gli
ebrei
che
non
avevano
partecipato
alla
fuga
vennero
gasati
e,
alla
fine
del
1943,
il
campo
venne
distrutto,
l’area
spianata,
vennero
piantati
alberi
e
costruita
una
fattoria
nella
quale
venne
lasciata
solo
una
guardia
ucraina
travestita
da
agricoltore.
Questo
trovarono
nell’estate
del
1944
i
sovietici
che
liberarono
la
zona.
Nel
1965-66
11
SS
del
campo
vennero
processati
a
Hagen,
in
Germania:
uno
si
suicidò
in
cella,
uno
fu
condannato
all’ergastolo,
cinque
a
pene
detentive
e
quattro
vennero
assolti.
Solo
undici
accusati,
più
undici
uccisi
nella
rivolta:
come
mai?
Tutti
gli
altri
SS
riuscirono
a
scappare?
No:
semplicemente,
a
Sobibor
prestavano
servizio
solo
22 “Totenkopf”.
Tutti
gli
altri
150
persecutori
erano
“trawniki”.
Ebbene,
chi
erano
i “trawniki”,
dei
quali
John
Demjanjuk
faceva
parte?
La
storia,
quella
che
si
insegna
a
scuola,
li
ha
dimenticati:
di
loro
non
si
parla,
ma
erano
loro
quelli
che
facevano
il
“lavoro
sporco”.
Il
loro
nome
deriva
dalla
creazione,
meno
di
due
settimane
dopo
l’invasione
nazista
dell’Unione
Sovietica
il
22
giugno
1941,
di
un
campo
di
internamento
per
profughi
e
prigionieri
di
guerra
sovietici
in
una
raffineria
di
zucchero
abbandonato
al
di
fuori
di
Trawniki
(una
città
situata
a
est
di
Chełm)
da
parte
delle
SS
tedesche
e
delle
autorità
di
polizia
del
distretto
di
Lublino.
Il
campo,
diretto
da
Hermann
Höfle,
un
aiutante
del
famigerato
SS-und
Polizeiführer
di
Lublino
Odilo
Globocnik,
aveva
lo
scopo
di
istruire
coloro
che
la
polizia
di
sicurezza
e la
SD
avevano
designato
come
potenziali
collaboratori:
in
sostanza
si
trattava
di
un
campo
di
addestramento
per
il
personale
ausiliario
di
polizia
incaricato
di
mantenere
la
sicurezza
negli
insediamenti
occupati
dai
tedeschi
nei
territori
dell’Unione
Sovietica.
I
primi
soldati
sovietici
reclutati
tra
i
prigionieri
dei
campi
di
guerra
arrivarono
a
Trawniki
ai
primi
di
settembre
1941
e la
struttura
fu
attiva
fino
al
luglio
1944.
I
funzionari
delle
SS e
della
polizia,
tra
il
settembre
1941
e
settembre
1942,
addestrarono
al
campo
2.500
guardie
di
polizia
ausiliaria
(“Wachmänner”,
meglio
conosciuti
semplicemente
come
“trawniki”):
tutti
erano
stati
prigionieri
di
guerra
sovietici
e
tutti
erano
volontari.
La
maggior
parte
dei
“trawniki”
erano
ucraini
o
Volksdeutche,
ma
vi
erano
anche
russi,
polacchi,
lettoni,
lituani,
tartari,
georgiani,
armeni
e
azeri.
Per
la
fine
della
guerra
il
loro
numero
era
salito
a
5.082
uomini,
organizzati
in
due
battaglioni
al
comando
del
sottotenente
SS
Willi
Franz
e
del
tenente
delle
SS
Johann
Schwarzenbacher.
Le
reclute
venivano
sottoposte
a
corsi
di
tedesco
per
capire
i
comandi
militari
di
base,
venivano
addestrate
alla
marcia
e
all’uso
di
armi
leggere
armi
leggere
e,
soprattutto,
venivano
istruite
su
come
custodire
e
brutalizzare
gli
ebrei
nei
ghetti
e
nei
campi
di
sterminio.
La
maggior
parte
dei
trawniki
si
offrivano
volontari
per
lasciare
i
campi
di
prigionia
e
per
interesse
personale,
senza
alcuna
adesione
ideologica
al
nazismo,
ma,
nella
stragrande
maggioranza,
tolti
alcuni
problemi
di
disciplina,
non
delusero
le
aspettative
delle
SS:
tutti
i
testimoni
concordano
sul
fatto
che
il
loro
maltrattamento
degli
ebrei
era
sistematico
e
senza
alcuna
ragione
particolare.
D’altra
parte,
le
guardie
dei
campi,
a
cui
venivano
dati
solo
10
Reichmarks
alla
settimana
per
il
tabacco,
aveva
molte
altre
fonti
di
reddito,
compresi
i
magazzini
che
contenevano
la
proprietà
delle
vittime
ebree,
continuamente
saccheggiati
per
barattare
oggetti
preziosi
con
la
popolazione
locale,
la
vendita
di
cibo
supplementare
agli
internati
e
l’invio
di
messaggi
dall’interno
all’esterno
dei
campi.
Le
SS,
pragmaticamente,
chiudevano
un
occhio
su
furti
e
corruzione
e,
ovviamente,
più
erano
le
vittime
ebree
e
maggiori
erano
le
possibilità
del
trawniki
di
lucrare,
cosa
che
spiegherebbe
la
loro
ferocia.
Quando
il
programma
“Reinhardt”
fu
bloccato,
in
ogni
caso,
la
maggioranza
delle
guardie
ucraine
decise,
mostrando
anche
qualche
motivazione
ideologica
anti-sovietica,
di
offrirsi
volontaria
nei
reparti
delle
SS “Galizien”,
poi
sconfitti
e
distrutti
dai
sovietici
a
Brody
nel
1944.
Ideologizzati
o
meno
che
fossero,
in
ogni
caso,
i
trawniki
divennero
una
parte
integrante
e
terribile
dell’ingranaggio
di
morte
hitleriano,
ma
ben
pochi
di
loro
pagarono
per
i
loro
misfatti.
Quasi
tutti
i
sopravvissuti
sparirono
nel
grande
caos
della
fine
della
guerra,
normalmente
finendo
per
trasferirsi
in
USA,
Canada,
Australia,
o in
qualche
Paese
arabo
compiacente:
allo
stato
attuale,
fatti
salvi
coloro
che
ebbero
la
follia
di
tornare
in
Unione
Sovietica
(dove
vennero
condannati
a
morte
dopo
processi
sommari),
Demjanjuk
é il
ventunesimo
trawniki
a
essere
processato
in
occidente.
E,
forse,
visto
l’esito
del
processo,
sarebbe
stato
meglio
se
non
fosse
mai
stato
individuato:
un’ora
e 56
minuti
di
reclusione
per
ogni
ebreo
ucciso
a
Sobibor,
in
un
campo
degli
orrori
nel
quale,
qualunque
fosse
la
ragione
che
lo
spingeva,
Demjanjuk
ha
volontariamente
chiesto
di
servire,
é il
peggior
messaggio
che
quello
che
resta
della
vita
di
questo
novantunenne
può
lasciare
alle
generazioni
future.
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bibliografici:
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