IL TRATTATO DI UCCIALLI
STORIA DI UN INGANNO COLONIALE
di Federico Manghesi
«Taluni hanno creduto che le
colonie fossero un lusso: non hanno
capito che sono una necessità per la
madre patria […] Quando i mari ci
saranno chiusi ed avremo bisogno dei
marcati stranieri, dovremo ricorrere
alle armi per poterceli aprire […]
L’Africa vi sfugge!” e ancora: “le
colonie sono una necessità della
vita moderna».
Queste parole, pronunciate da
Francesco Crispi in un celebre
discorso nel parlamento del Regno
d’Italia, rendono bene l’idea
dell’allora leader della Sinistra
Storica in fatto di politica estera.
Crispi, eletto Presidente del
Consiglio nel 1887 e nel 1893,
ritiene l’imperialismo coloniale un
elemento indispensabile per una
nazione che ambisca al titolo di
potenza mondiale. Nel 1882 il
governo italiano prende possesso
della città portuale di Assab, in
Eritrea. L’occupazione di Massaua
(1885) e quella di Asmara (1889)
sanciscono l’espansione
dell’esercito d’Italia
nell’entroterra eritreo. Nel 1890
l’Eritrea viene dichiarata colonia
italiana.
Ma il progetto espansionistico di
Crispi non si ferma qui. L’Eritrea,
infatti, confina a Sud con l’Etiopia
ed è proprio su questo paese che si
concentra l’attenzione del Regno
italiano. Il 2 maggio 1889 la città
di Uccialli (nel nord dell’Etiopia)
fa da palcoscenico per la firma
dell’omonimo trattato. Un trattato
che – sulla carta – dovrebbe sancire
l’alleanza tra Italia ed Etiopia. La
firma viene posta dal negus neghesti
(re dei re) Menelik per l’Etiopia e,
per l’Italia, dall’ambasciatore
Pietro Antonelli.
«Sua maestà Umberto I Re d’Italia
e Sua Maestà Menelik II Re dei Re
d’Etiopia» recita il trattato: «allo
scopo di rendere proficua e durevole
la pace fra i due Regni d’Italia e
di Etiopia, hanno stabilito di
concludere un trattato di amicizia e
di commercio».
Appare evidente la volontà italiana
di ottenere dal governo etiope il
riconoscimento dell’acquisizione
territoriale dell’Eritrea. In tal
senso, si muovono gli articoli 3, e
6 del trattato. Il primo che
stabilisce i confini e il punto
d’inizio dei possedimenti coloniali
italiani; e il secondo che impone un
controllo sul commercio di armi
dirette in Etiopia. I carichi che
passano per Massaua devono essere
scortati dai militari italiani fino
al confine etiope.
«La linea dell’altipiano segnerà
il confine etiopico-italiano;Partendo
dalla regione di Arafali: Halai,
Saganeiti ed Asmara saranno villaggi
nel confine italiano;Adi Nefas e Adi
Joannes saranno dalla parte dei
Bogos nel confine italiano; Da Adi
Joannes una linea retta prolungata
da est a ovest segnerà il confine
italo-etiopico».
Se già i primi dubbi sull’equilibrio
del trattato sorgono con l’articolo
10, che lascia dirimere le
controversie tra italiani ed etiopi
alle sole autorità italiane; e con
il 18, che assegna agli italiani una
predilezione obbligata nei privilegi
commerciali, la parte più iniqua, e
addirittura ingannevole,del Trattato
di Uccialli risiede nell’articolo
17.
Prima di procedere è opportuno fare
un passo indietro: la lingua parlata
nell’Etiopia del tempo è l’amarico.
Il trattato viene per questo redatto
in due versioni, una in lingua
italiana e una, per l’appunto, in
amarico. L’articolo 19, che chiude
il trattato, assicura che le due
versioni sono identiche e che hanno
il medesimo valore. Nonostante la
storiografia non abbia una posizione
univoca sulle ragioni di questo
fatto, una cosa è certa:
l’affermazione contenuta
nell’articolo 19 è falsa.
L’articolo 17 cambia drasticamente
da una versione all’altra del
trattato. La versione italiana
infatti recita: «Sua Maestà il Re
dei Re d’Etiopia consente di
servirsi del Governo di Sua Maestà
il Re d’Italia per tutte le
trattazioni di affari che avesse con
altre potenze o governi».
Mentre quella amarica dice: «Sua
Maestà il Re dei Re d’Etiopia può
trattare tutti gli affari che
desidera con altre potenze o governi
mediante l’aiuto del governo di Sua
Maestà il Re d’Italia».
Questa differenza, che a prima vista
può sembrare una sfumatura, è in
realtà cruciale. Nel testo italiano
infatti, diviene obbligatoria la
delegazione dell’intera politica
estera etiope al regno d’Italia;
cosa che nel testo amarico è solo
un’opzione di cui l’Etiopia può
avvalersi. In pratica, la versione
italiana del trattato rende
l’Etiopia un protettorato italiano.
L’operazione diventa quindi un modo
per espandere il controllo italiano
sull’Africa.
Sebbene la storiografia non si sia
unanime nel dirlo, il fatto sembra
tutt’altro che un errore di
traduzione. Ha l’aria invece di un
espediente ingannevole,
perfettamente in linea con le
politiche coloniali di Crispi e con
le sue idee riguardo le popolazioni
africane. «Nell’Africa noi
esercitiamo una missione di civiltà:
questa missione appartiene
all’Italia e non possiamo
abbandonarla» aveva detto al
Parlamento.
Il tentativo di Menelik di
allacciare rapporti con l’impero
Russo porta alla luce la discrepanza
tra i due trattati. Un protettorato
infatti, secondo quando stabilito
nella Conferenza di Berlino del
1884, non poteva rivolgersi a una
potenza straniera in maniera
autonoma.
L’Etiopia chiede di rivedere il
trattato e di lì in poi si assiste a
un crescendo di tensione che sfocia
nella Guerra dell’Abissinia, che
porterà alla disfatta italiana e al
conseguente Trattato di Addis Abeba.
Ma questa, è un’altra storia.