N. 81 - Settembre 2014
(CXII)
le
transizioni
politiche
latinoamericane
PARTE IV - Il caso cileno
di Laura Ballerini
11
settembre.
Per
la
maggior
parte
delle
persone
questa
è la
data
dell’attacco
terroristico
alle
torri
gemelle
del
2001,
ma,
in
realtà,
è
anche
la
data
del
golpe
militare
allo
stato
democratico
cileno,
nel
1973.
Dopo
anni
di
propaganda
politica,
nel
1970,
il
socialista
Salvador
Allende
era
riuscito
ad
andare
alla
presidenza
del
Cile,
ma,
tre
anni
dopo,
venne
deposto
da
un
violento
golpe
ad
opera
delle
forze
militari,
guidate
dal
generale
Augusto
Pinochet.
All’epoca,
una
parte
della
popolazione
accolse
questo
colpo
di
stato
come
una
presa
di
responsabilità
da
parte
dei
militari
nei
confronti
del
caos
che
imperversava
in
Cile.
Questo
paese,
infatti,
si
era
sempre
caratterizzato
per
la
stabilità
politica
ed
economica
(il
motto
era
Ordine
e
Libertà),
ma
nel
corso
degli
anni
Sessanta
si
erano
acuiti
i
contrasti
sociali,
che
consentirono
poi
l’ascesa
al
governo
della
Unidad
Popolar
di
Allende.
Mentre
i
carri
armati
occupavano
le
strade
della
città,
nel
compimento
del
piano
Condor,
Allende
si
suicidò
per
non
cadere
nelle
mani
dei
golpisti.
Augusto
Pinochet
diede
allora
inizio
a
una
sanguinosa
dittatura
durata
quasi
vent’anni.
Nei
mesi
che
seguirono
il
golpe,
lo
stadio
di
Santiago
del
Cile
venne
utilizzato
dai
militari
come
campo
di
detenzione
dei
dissidenti
politici;
oltre
40
mila
persone
vi
transitarono
e li
furono
torturate:
un
teatro
degli
orrori
che
fece
il
giro
del
mondo.
Mentre
gli
orrori
argentini,
come
visto,
avvennero
nel
silenzio,
la
tragedia
cilena
ebbe
come
spettatore
il
mondo
intero.
Un’altra
differenza
con
l’Argentina
fu
la
selezione
delle
vittime:
nel
caso
cileno
vennero
risparmiate
le
élite
e le
persone
di
grande
rilievo,
mentre
in
Argentina
la
repressione
fu
cieca.
Come
in
Argentina
tutti
coloro
che
venivano
ritenuti
oppositori
politici
vennero
rapiti
e
fatti
sparire.
La
caccia
al
“nemico
interno”
fu
implacabile
e le
persone
vennero
deportate
e
torturate.
Nel
1978
Pinochet
ritenne
chiusa
quella
che
lui
definì
la
fase
di
“guerra
civile”
e
inaugurò
politiche
neoliberiste.
Nel
1980
varò
la
Nuova
Costituzione
cilena,
che
concentrava
tutti
i
poteri
nelle
mani
del
Presidente.
La
crisi
economica,
tuttavia,
non
abbandonò
il
paese
e
così
nemmeno
la
speranza
di
poter
tornare
alla
democrazia:
nasce
nel
1986
la
Concentracion
por
la
Democracia,
ossia
l’insieme
di
tutte
le
forze
di
destra
e
sinistra
rese
clandestine
dalla
dittatura.
Dopo
anni
di
regime
e di
crisi,
Pinochet
decise
di
passare
il
testimone,
concedendo
le
libere
elezioni.
Come
detto,
la
maggior
parte
delle
transizioni
latinoamericane
furono
negoziate
e la
parte
uscente
spesso
mantenne
un
importante
ruolo
istituzionale.
Proprio
così
avvenne
in
Cile,
dove
Pinochet,
nel
1990,
presenziò
alla
cerimonia
di
insediamento
del
neo
eletto
Aylwin,
a
capo
della
Concentracion,
e
gli
passò
lui
stesso
i
simboli
del
potere.
Il
Paese
che
Aylwin
ereditava
covava
la
più
forte
necessità
di
verità
e
giustizia,
ma
lo
Stato
che
egli
riceveva
dall’ex
dittatore
era
vincolato
alle
clausole
della
Costituzione
del
1980.
Per
prima
cosa,
Aylwin
istituì
la
commissione
Retting,
per
la
verità
e la
riconciliazione.
Viene
chiarito,
però,
che
il
compito
della
commissione
era
quello
di
raccogliere
informazioni
e
documentazione
su
quanto
avvenuto
nel
periodo
1973-90,
non
doveva
individuare
responsabilità
personali.
Nel
rapporto
finale
venne
esaltato
il
valore
catartico
della
verità,
per
sostituire
quello
assente
della
giustizia.
Vennero
ripercorsi
i 17
anni
di
dittatura,
le
modalità
di
repressione
e
venne
fatta
un’analisi
delle
vittime,
ma
non
si
parlò
del
golpe
del
1973
o
dei
crimini
di
Pinochet.
Nonostante
questo,
Pinochet
attaccò
duramente
la
commissione
Retting
e le
Forze
Armate
non
si
assunsero
nessuna
responsabilità.
Nel
1992
venne
istituita
la
Corporacion
Nacional
de
Verdad
y
Reconciliacion,
ma
tutto
quello
che
si
ottenne
furono
alcuni
risarcimenti
per
le
vittime.
L’interesse
su
questo
tema
si
affievolì
e il
paese
venne
distratto
dal
nuovo
ruolo
del
Cile
nel
panorama
internazionale.
Molto
tempo
dopo,
nel
1998,
Pinochet
venne
arrestato
a
Londra
su
mandato
di
due
giudici
spagnoli.
L’allora
presidente
cileno
Eduardo
Frei
chiese
il
rimpatrio,
preoccupato
per
le
reazioni
dei
militari.
Nel
1999
si
iniziarono
dialoghi
tra
il
governo
e le
forze
militari
per
raggiungere
un
compromesso
e
ottenere
il
rimpatrio
di
Pinochet,
ma i
risultati
furono
quasi
nulli.
Nel
2000,
per
ragioni
umanitarie,
Pinochet
venne
liberato
e
questi
morì
poi
nel
2006.
A
far
ripartire
il
processo
di
riconciliazione
in
Cile
fu
il
caso
di
Menses:
un
professore,
vittima
di
torture
sotto
la
dittatura,
riconobbe
in
un
collega
il
suo
torturatore.
Il
caso
ebbe
larga
eco
e si
convenne
che
il
problema
delle
vittime
sopravvissute
doveva
essere
affrontato.
Nel
2001
venne
costituita
la
Commision
Etica
Contra
la
Tortura
e
nel
2003
il
presidente
Ricardo
Lagos
pronunciò,
in
un
suo
discorso,
le
famose
parole
“No
hay
mañana
sin
ayer”,
non
c’è
domani
senza
ieri,
mostrando
la
sua
volontà
di
non
dimenticare
e di
riconciliarsi
con
il
passato
del
paese.
Venne
istituita
nel
2003
la
commissione
Valech,
per
indagare
sui
sopravvissuti
a
detenzioni
o
torture
da
parte
di
agenti
dello
Stato
dal
1973
al
1990.
Non
si
parlò
più
di
verità
e
riconciliazione
ma
di
memoria
collettiva
e
riparazioni.
A
seguito
del
rapporto
finale
della
commissione,
l’esercito
ammise
le
sue
responsabilità
(le
altre
forze
armate
fecero
ammissioni
di
responsabilità
personale,
ma
non
istituzionale)
e
così
anche
la
Corte
Suprema
ammise
le
sue
negligenze.
Nel
2004
Lagos
pronunciò
in
un
suo
discorso
“Para
nunca
mas
vivirlo,
nunca
mas
negarlo”,
“per
non
riviverlo,
non
negarlo”,
rendendo
il
documento
finale
della
commissione
la
“verità
ufficiale”
cilena.
In
seguito,
le
vittime
di
detenzioni
e
torture
stilarono
un
rapporto
di
circa
40
pagine
chiamato
“Nosotros,
los
sobrevivientes,
accusamos”,
“noi,
i
sopravvissuti,
accusiamo”,
dove
vennero
fatti
nomi
e
cognomi
dei
torturatori.
Il
processo
di
transizione
cilena
e la
riconciliazione
con
il
suo
passato
posso
ritenersi
simbolicamente
concluse
con
l’elezione
di
Michelle
Brachelet,
una
vittima
delle
torture,
alla
presidenza
del
Paese.