[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

175 / LUGLIO 2022 (CCVI)


attualità

CLIMA E POLITICA

COME LA QUESTIONE CLIMATICA INFLUENZA LA NATURA DEI GOVERNI

di Gian Marco Boellisi

 

Forse più di qualsiasi altra vicenda di politica internazionale, la costante e indefessa ondata di caldo che sta attanagliando l’Europa intera sta piano piano monopolizzando l’attenzione dell’opinione pubblica. Ciò a ragion veduta, visto che l’aumento delle temperature sta portando a svariate difficoltà che impattano direttamente sul vissuto quotidiano: siccità, problemi di salute di alcune categorie specifiche di popolazione, incendi diffusi sul territorio, ecc…

 

Per quanto il problema del caldo eccessivo possa sembrare una mera questione climatica, esso ha un enorme impatto sulle politiche degli Stati e su come essi svolgono le proprie funzioni di governo. Tale e tanta è l’influenza che ha il clima sulle dinamiche interne di uno stato che la tenuta delle nazioni, e in particolar modo quelle a statuto democratico, potrà subire pressioni endogene non indifferenti a seguito di queste problematiche. È interessante quindi analizzare come il clima possa esercitare un effetto politico e sociale tanto forte da cambiare in futuro le relazioni tra lo Stato e i cittadini e anche, ovviamente, tra i vari Stati nel concerto internazionale.

 

Ormai si sa, il cambiamento climatico è un dato di fatto difficile da negare a livello scientifico. Al di là delle trattazioni in cui si attribuisce parte delle attuali variazioni di temperature a fenomeni naturali, gran parte del cambiamento a cui stiamo assistendo al giorno d’oggi è frutto dell’azione umana sull’ambiente circostante.

 

Sin dall’inizio della Prima Rivoluzione Industriale, l’uomo ha aumentato in maniera esponenziale sia le emissioni dovute a fenomeni di combustione delle fonti fossili sia i fenomeni di sfruttamento intensivo di risorse minerarie, fossili e forestali, tanto da compromettere in maniera incontrovertibile intere porzioni del nostro pianeta. Il risultato di questo sfruttamento è stato sicuramente un avanzamento tecnologico e scientifico senza pari nella storia dell’umanità, tuttavia nessun grande successo è mai stato ottenuto dall’essere umano se non pagando un prezzo altrettanto alto.

 

Con il passare dei decenni e l’assenza quasi totale di politiche ambientali adeguate, si è arrivati a un punto in cui il cambiamento climatico ha iniziato a essere sotto gli occhi di tutti, governi e cittadini indistantamente. La paura di ritrovarsi con un pianeta pressocché inabitabile nell’arco di un secolo o poco più ha portato da un lato alla nascita dei movimenti ambientalisti internazionali, i quali hanno sempre più esercitato pressioni sui governi per agire concretamente sul clima, e dall’altro alla creazione e attuazione di politiche climatiche sempre più stringenti per poter tamponare gli evidenti effetti delle attività umane sull’ecosistema terrestre. Che queste misure siano state prese in tempo o che siano effettivamente efficaci in questo senso non è ancora dato saperlo.

 

Un effetto del cambiamento climatico da sempre sottovalutato è quello sulla natura degli Stati e su come esso posa portare i governi, specie quelli di natura democratica, a crisi profonde, sia interne che esterne. Partiamo con un esempio per rendere meglio l’idea. Uno degli effetti più gravi del cambiamento climatico globale è l’aumento delle temperature dei mari e degli oceani, il quale provoca variazioni irreversibili sulla flora e sulla fauna di certe aree costiere. Storicamente gli insediamenti umani sulle coste sono sempre stati legati alle attività di pesca e allevamento della fauna ittica locale, e ciò non ha fatto che accentuarsi con il crescere della popolazione mondiale (soprattutto in alcune aree del Terzo Mondo come in Africa ma non solo). Qualora vi sia un aumento anche di pochi gradi centigradi delle acque di certe regioni costiere, intere specie di pesci potrebbero migrare verso mari più freddi o ancora più semplicemente estinguersi a seguito della presenza di un habitat non più favorevole alla propria vita. Mancando la fonte primaria di sostentamento, la totalità di un popolo si ritroverebbe senza cibo e questo porterebbe a conseguenze devastanti.

 

In primis verrebbe meno la tenuta dello Stato all’interno del quale questa regione si trova e nel medio-lungo termine si assisterebbe a fenomeni migratori di massa verso quei paesi con maggior disponibilità di cibo e in generale di benessere. All’inizio le migrazioni interesserebbero gli stati immediatamente confinanti per poi ovviamente toccare i paesi più sviluppati al globo, leggasi Europa. Contando le migliaia e migliaia di chilometri di coste che ha l’Africa a disposizione e quindi le decine di milioni di persone che sarebbero interessate da simili fenomeni, si può capire bene quanto il cambiamento climatico potrebbe influenzare concretamente la vita umana con i suoi effetti.

 

Nonostante quanto descritto sopra, si può comunque pensare che tali fenomeni influenzino parzialmente i sistemi politici e democratici occidentali in sé. Infatti si è parlato finora di migrazioni di popolazioni provenienti da paesi sottosviluppati, il che non è molto diverso da ciò a cui si assiste purtroppo tutte le estati reiteratamente. Tuttavia è bene specificare che nel caso in cui il cambiamento climatico portasse alle modifiche sull’ambiente marino di cui sopra, non si tratterebbe di qualche decina di barconi ogni estate, ma di interi popoli che intraprenderebbero una diaspora pur di non morire di fame.

 

Fenomeni talmente massivi provocherebbero nei paesi occidentali (i quali sono sempre stati storicamente causa della maggior parte delle emissioni di anidride carbonica in percentuale) l’innalzamento di vere e proprie barricate ai propri confini e politiche estremamente anti-migratorie da parte delle proprie forze politiche nazionali. Ovviamente qui si sta estremizzando, ma basti pensare a come si è assistito negli ultimi anni all’aumento del consenso in tutta Europa delle forze populiste che hanno fatto della chiusura dei confini un proprio slogan. Un aumento dei fenomeni migratori di pochi punti percentuali nell’arco di un decennio potrebbe seriamente vedere un incremento dei consensi in questa direzione.

 

Questo è sicuramente un primo aspetto se vogliamo capire di come i cambiamenti climatici potrebbero e in parte stanno già influenzando il mondo politico come oggi lo conosciamo. Tuttavia non è sicuramente l’unico. Si è fatta menzione prima delle politiche ambientali attuate dai vari governi nel mondo facenti parte di quella che oggi viene chiamata Transizione Green o Transizione Energetica. Questa punta come primo obiettivo a sostituire gradualmente tutte le fonti di energia fossili o non rinnovabili con fonti ecosostenibili o rinnovabili nel breve-medio termine.

 

Sebbene si sia fatto molto poco dal punto di vista tecnologico per molti decenni, in questi ultimi anni gli investimenti stanno sempre più portando allo sviluppo di nuove tecnologie e all’aumento dell’efficienza energetica delle stesse. Vi è tuttavia un anello debole all’interno di tutto questo meccanismo. Infatti le cosiddette “New Energies” si basano più o meno tutte sull’utilizzo in massicce quantità di alcuni materiali e alcuni elementi chimici, come litio, cobalto e in generale quelli che vengono chiamati Elementi delle Terre Rare.

 

Come suggerisce il nome stesso, questi elementi chimici sono molto difficili da trovare e richiedono ancora più denaro ed emissioni per essere estratti, raffinati e semilavorati per poi essere trasformati in prodotti finiti. Le Terre Rare sono essenziali per creare tutto ciò che è alla base della moderna società globalizzata, dai chip presenti negli smartphone ai televisori, dalle parti dei satelliti ai sistemi di guida dei missili intercontinentali, dalle batterie al litio per le macchine elettriche ai componenti di pale eoliche e pannelli solari. Tutto questo passa attraverso le Terre Rare e per una strana ironia della sorte la maggior parte di questi metalli si trova in un solo paese: la Cina.

 

Ad oggi è la Republica Popolare Cinese ad avere il monopolio assoluto sulla grande maggioranza di questi minerali, decidendone prezzo, quantità immessa sul mercato e tempistiche di consegna. Nel corso dei decenni, riuscendo a prevedere la criticità di questi elementi, le compagnie di stato cinesi si sono assicurate i diritti di estrazione di molte miniere dei suddetti minerali anche al di fuori dei propri confini, in particolar modo nel continente africano. Sebbene da anni Stati Uniti e l’Occidente tutto abbiano cercato di differenziare le proprie forniture di Terre Rare, ad oggi tutti i tentativi rilevanti sono stati fallimentari. A confronto, la crisi di approvigionamento di gas e petrolio russo di cui tanto si parla in questi mesi non è che un granello di sabbia in un vasto, arido deserto.

 

Ritornando alla questione iniziale, con questo sistema di approvigionamento di minerali vitali per mettere in atto la Transizione Green tutti i paesi del globo altro non fanno che quotidianamente donare i propri capitali economici, direttamente o indirettamente, alla Republica Popolare Cinese. E questo al costo di una vulnerabilità intrinseca della propria catena di approvigionamento tecnologica e della propria indipendenza geopolitica. Basti pensare che, se questa catena si interrompesse per una qualsiasi ragione, in brevissimo tempo non si avrebbero materiali per fabbricare telefoni cellulari o computer. In pratica, il crollo completo e totale della società come la conosciamo oggi. In questo modo le potenze occidentali “favoriscono” un sistema politico anti-democratico come quello cinese, dandogli in mano un potere che un domani potrebbe essere sfruttato contro loro stesse e contro la loro visione ultima di Stato.

 

A corollario di quanto detto sopra, gli investimenti per arginare il cambiamento climatico potrebbero creare dei dislivelli produttivi tra le varie aree del mondo. Basti pensare alla recente notizia in cui l’Unione Europea ha deciso di bandire a partire dal 2035 le auto a combustione interna. Per quanto effettivamente questa potrebbe essere una misura efficace contro l’aumento delle temperature, essa porterà sicuramente a importanti conseguenze politiche. Infatti in questa maniera il settore manufatturiero europeo delle auto dovrà essere completamente convertito, mentre in altre parti del globo questa forza indutriale verrà ancora sfruttata. Ancora, non avendo più auto con motori a combustione interna si farà massivo utilizzo delle auto elettriche, le quali hanno alla base delle loro batterie il litio. Proprio questo materiale è uno di quei metalli la cui distribuzione è iniqua sul nostro pianeta ed è concentrato solo in alcuni Paesi, i quali acquisiranno da qui a dieci anni un enorme potere contrattuale all’interno del concerto degli Stati. Ed è proprio qui che si può vedere come la lotta per il cambiamento climatico passa dal conferire potere economico e soprattutto geopolitico a certi attori internazionali, i quali non sempre hanno un sistema democratico di governo e non condividono sempre il sistema di valori tipicamente occidentale.

 

Un aspetto interessante proprio in funzione del rapporto tra democrazie occidentali e regimi non democratici è emerso all’indomani del conflitto tra Russia e Ucraina. Vista la montante preoccupazione per l’approvvigionamento delle fonti fossili dalla Russia verso l’Europa, i vari governi dell’Unione si sono mossi (tardissimo) per cercare di diversificare le proprie fonti di approvigionamento. Tanto è stato l’allarme e la paura di ritrovarsi senza scorte di gas che si è assistito a due trend principali.

 

Uno è stato quello di virare verso altre fonti energetiche, come quelle green, ma anche quelle più tradizionali, come nucleare e carbone. Il ritorno a quest’ultimo in particolare ha destato particolare sorpresa tra l’opinione pubblica mondiale, soprattutto quando si è parlato di allentare le restrizioni sulle emissioni su questa tecnologia. Si è addirittura iniziati a categorizzare il nucleare come fonte green, dimenticando l’enorme problematica derivante dallo smaltimento di scorie radioattive derivanti da questi processi. Ciò a testimonianza che, forse, l’interesse ultimo per le tecnologie green non è così profondo come è sembrato finora.

 

Il secondo trend è stato quello di cercare fornitori alternativi di gas alla Russia. Prendendo l’esempio dell’Italia, questa ricerca ha coinvolto sia partner storici come l’Algeria sia nuovi key players come Mozambico e Azerbaigian. Per quanto il processo di ricerca coinvolga per sua stessa natura anche Stati con modelli di governo molto diversi dai propri, è interessante notare come si chiuda un occhio se non due in questo momento storico da chi ci si sta andando a rifornire.

 

Riprendendo gli esempi citati poco fa, in Mozambico vi è una guerra civile da anni nella regione di Cabo del Gado contro una falange locale dell’ISIS dove le forze governative hanno compiuto indicibili atrocità contro la popolazione civile, mentre in Azerbaigian vi è un governo sotto forte influenza di Ankara non troppo rispettoso dei diritti umani e reduce dalla recente vittoria militare contro l’Armenia. Questo a testimonianza di come le democrazie occidentali, nel momento del bisogno, sanno perfettamente distinguere le dittature “buone” da quelle “cattive”, o forse più semplicemente quelle utili da quelle inutili.

 

Analizzando i governi al potere oggi in Europa, notiamo come essi stiano attraversando uno dei periodi storici più complessi dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Si è infatti passati da una pandemia, alla guerra in Ucraina e infine ora a una crisi energetica. Tutti questi eventi fanno vacillare costantemente il consenso popolare dei governi, rendendo ogni elezione politica un tiro di dadi in cui può cambiare tutto, specie se vi sono in gioco forze populiste che cercano di acquisire spazio nella scena politica.

 

L’Unione Europea dal canto suo non riesce a conferire ai propri cittadini un’immagine di unità e coerenza direzionale, che sia essa su tematiche politiche, come le sanzioni contro la Russia, o che sia essa sulle tematiche ambientali. In particolar modo su questo punto negli ultimi anni si sono susseguite una serie di normative non chiare e in parte contraddittorie, le quali altro non hanno fatto che creare difficoltà agli Stati che devono rispettarle. Per quanto l’obiettivo di ridurre le emissioni sia ben chiaro a tutti gli stati membri, il modo in cui farlo è a quasi totale discrezione degli Stati. Avendo i 27 membri strutture economiche, produttive e di approvvigionamento completamente diverse tra loro, si può capire bene quanti vuoti normativi si possano produrre, a discapito dell’obiettivo finale ovviamente.

 

In conclusione, il cambiamento climatico è sotto gli occhi di tutti e ciò che gli Stati del mondo stanno facendo per cercare di arginarlo ci influenzerà nel quotidiano da qui ai prossimi trenta anni. Per cercare di raggiungere un obiettivo tanto importante come la Transizione Green i governi dovranno attuare tutta una serie di misure che non sempre risulteranno semplici, a livello politico, economico e sociale.

 

Molte di queste misure favoriranno direttamente o indirettamente altri Stati, i quali hanno una serie di principi fondanti molto diversi da quelli occidentali in senso lato. Ed è proprio da qui che nasce il dibattitto che si domanda se una Transizione Ecologica non farà altro che spostare gli equilibri mondiali in nuove aree del globo e verso nuovi attori. Questo tuttavia sarà solo il tempo a dirlo. Allo stato attuale possiamo solo notare come gli Stati debbano muoversi più velocemente sul tema ambientale, visto che per raggiungere gli ambiziosi obiettivi che ci si è preposti bisogna investire ancora miliardi e miliardi di euro e ottenere un’efficienza energetica ancora ben lontana.

 

Tutto questo è messo in dubbio dall’attuale situazione geopolitica globale, visto il probabile arrivo di una recessione a livello mondiale a seguito dalla quale gli stati preferiranno investire sul welfare anziché sulle misure green. Questo potrebbe costituire un problema insormontabile e di fatto questo momento storico forse sarà l’ultima occasione che abbiamo, visto che, come recitava uno slogan di recente memoria, “There is no Planet B”.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]