CLIMA E POLITICA
COME LA QUESTIONE CLIMATICA
INFLUENZA LA NATURA DEI GOVERNI
di Gian Marco Boellisi
Forse più di qualsiasi altra vicenda
di politica internazionale, la
costante e indefessa ondata di caldo
che sta attanagliando l’Europa
intera sta piano piano
monopolizzando l’attenzione
dell’opinione pubblica. Ciò a ragion
veduta, visto che l’aumento delle
temperature sta portando a svariate
difficoltà che impattano
direttamente sul vissuto quotidiano:
siccità, problemi di salute di
alcune categorie specifiche di
popolazione, incendi diffusi sul
territorio, ecc…
Per quanto il problema del caldo
eccessivo possa sembrare una mera
questione climatica, esso ha un
enorme impatto sulle politiche degli
Stati e su come essi svolgono le
proprie funzioni di governo. Tale e
tanta è l’influenza che ha il clima
sulle dinamiche interne di uno stato
che la tenuta delle nazioni, e in
particolar modo quelle a statuto
democratico, potrà subire pressioni
endogene non indifferenti a seguito
di queste problematiche. È
interessante quindi analizzare come
il clima possa esercitare un effetto
politico e sociale tanto forte da
cambiare in futuro le relazioni tra
lo Stato e i cittadini e anche,
ovviamente, tra i vari Stati nel
concerto internazionale.
Ormai si sa, il cambiamento
climatico è un dato di fatto
difficile da negare a livello
scientifico. Al di là delle
trattazioni in cui si attribuisce
parte delle attuali variazioni di
temperature a fenomeni naturali,
gran parte del cambiamento a cui
stiamo assistendo al giorno d’oggi è
frutto dell’azione umana
sull’ambiente circostante.
Sin dall’inizio della Prima
Rivoluzione Industriale, l’uomo ha
aumentato in maniera esponenziale
sia le emissioni dovute a fenomeni
di combustione delle fonti fossili
sia i fenomeni di sfruttamento
intensivo di risorse minerarie,
fossili e forestali, tanto da
compromettere in maniera
incontrovertibile intere porzioni
del nostro pianeta. Il risultato di
questo sfruttamento è stato
sicuramente un avanzamento
tecnologico e scientifico senza pari
nella storia dell’umanità, tuttavia
nessun grande successo è mai stato
ottenuto dall’essere umano se non
pagando un prezzo altrettanto alto.
Con il passare dei decenni e
l’assenza quasi totale di politiche
ambientali adeguate, si è arrivati a
un punto in cui il cambiamento
climatico ha iniziato a essere sotto
gli occhi di tutti, governi e
cittadini indistantamente. La paura
di ritrovarsi con un pianeta
pressocché inabitabile nell’arco di
un secolo o poco più ha portato da
un lato alla nascita dei movimenti
ambientalisti internazionali, i
quali hanno sempre più esercitato
pressioni sui governi per agire
concretamente sul clima, e
dall’altro alla creazione e
attuazione di politiche climatiche
sempre più stringenti per poter
tamponare gli evidenti effetti delle
attività umane sull’ecosistema
terrestre. Che queste misure siano
state prese in tempo o che siano
effettivamente efficaci in questo
senso non è ancora dato saperlo.
Un effetto del cambiamento climatico
da sempre sottovalutato è quello
sulla natura degli Stati e su come
esso posa portare i governi, specie
quelli di natura democratica, a
crisi profonde, sia interne che
esterne. Partiamo con un esempio per
rendere meglio l’idea. Uno degli
effetti più gravi del cambiamento
climatico globale è l’aumento delle
temperature dei mari e degli oceani,
il quale provoca variazioni
irreversibili sulla flora e sulla
fauna di certe aree costiere.
Storicamente gli insediamenti umani
sulle coste sono sempre stati legati
alle attività di pesca e allevamento
della fauna ittica locale, e ciò non
ha fatto che accentuarsi con il
crescere della popolazione mondiale
(soprattutto in alcune aree del
Terzo Mondo come in Africa ma non
solo). Qualora vi sia un aumento
anche di pochi gradi centigradi
delle acque di certe regioni
costiere, intere specie di pesci
potrebbero migrare verso mari più
freddi o ancora più semplicemente
estinguersi a seguito della presenza
di un habitat non più favorevole
alla propria vita. Mancando la fonte
primaria di sostentamento, la
totalità di un popolo si
ritroverebbe senza cibo e questo
porterebbe a conseguenze devastanti.
In primis verrebbe meno la tenuta
dello Stato all’interno del quale
questa regione si trova e nel
medio-lungo termine si assisterebbe
a fenomeni migratori di massa verso
quei paesi con maggior disponibilità
di cibo e in generale di benessere.
All’inizio le migrazioni
interesserebbero gli stati
immediatamente confinanti per poi
ovviamente toccare i paesi più
sviluppati al globo, leggasi Europa.
Contando le migliaia e migliaia di
chilometri di coste che ha l’Africa
a disposizione e quindi le decine di
milioni di persone che sarebbero
interessate da simili fenomeni, si
può capire bene quanto il
cambiamento climatico potrebbe
influenzare concretamente la vita
umana con i suoi effetti.
Nonostante quanto descritto sopra,
si può comunque pensare che tali
fenomeni influenzino parzialmente i
sistemi politici e democratici
occidentali in sé. Infatti si è
parlato finora di migrazioni di
popolazioni provenienti da paesi
sottosviluppati, il che non è molto
diverso da ciò a cui si assiste
purtroppo tutte le estati
reiteratamente. Tuttavia è bene
specificare che nel caso in cui il
cambiamento climatico portasse alle
modifiche sull’ambiente marino di
cui sopra, non si tratterebbe di
qualche decina di barconi ogni
estate, ma di interi popoli che
intraprenderebbero una diaspora pur
di non morire di fame.
Fenomeni talmente massivi
provocherebbero nei paesi
occidentali (i quali sono sempre
stati storicamente causa della
maggior parte delle emissioni di
anidride carbonica in percentuale)
l’innalzamento di vere e proprie
barricate ai propri confini e
politiche estremamente
anti-migratorie da parte delle
proprie forze politiche nazionali.
Ovviamente qui si sta estremizzando,
ma basti pensare a come si è
assistito negli ultimi anni
all’aumento del consenso in tutta
Europa delle forze populiste che
hanno fatto della chiusura dei
confini un proprio slogan. Un
aumento dei fenomeni migratori di
pochi punti percentuali nell’arco di
un decennio potrebbe seriamente
vedere un incremento dei consensi in
questa direzione.
Questo è sicuramente un primo
aspetto se vogliamo capire di come i
cambiamenti climatici potrebbero e
in parte stanno già influenzando il
mondo politico come oggi lo
conosciamo. Tuttavia non è
sicuramente l’unico. Si è fatta
menzione prima delle politiche
ambientali attuate dai vari governi
nel mondo facenti parte di quella
che oggi viene chiamata
Transizione Green o Transizione
Energetica. Questa punta come primo
obiettivo a sostituire gradualmente
tutte le fonti di energia fossili o
non rinnovabili con fonti
ecosostenibili o rinnovabili nel
breve-medio termine.
Sebbene si sia fatto molto poco dal
punto di vista tecnologico per molti
decenni, in questi ultimi anni gli
investimenti stanno sempre più
portando allo sviluppo di nuove
tecnologie e all’aumento
dell’efficienza energetica delle
stesse. Vi è tuttavia un anello
debole all’interno di tutto questo
meccanismo. Infatti le cosiddette
“New Energies” si basano più o meno
tutte sull’utilizzo in massicce
quantità di alcuni materiali e
alcuni elementi chimici, come litio,
cobalto e in generale quelli che
vengono chiamati Elementi delle
Terre Rare.
Come suggerisce il nome stesso,
questi elementi chimici sono molto
difficili da trovare e richiedono
ancora più denaro ed emissioni per
essere estratti, raffinati e
semilavorati per poi essere
trasformati in prodotti finiti. Le
Terre Rare sono essenziali per
creare tutto ciò che è alla base
della moderna società globalizzata,
dai chip presenti negli smartphone
ai televisori, dalle parti dei
satelliti ai sistemi di guida dei
missili intercontinentali, dalle
batterie al litio per le macchine
elettriche ai componenti di pale
eoliche e pannelli solari. Tutto
questo passa attraverso le Terre
Rare e per una strana ironia della
sorte la maggior parte di questi
metalli si trova in un solo paese:
la Cina.
Ad oggi è la Republica Popolare
Cinese ad avere il monopolio
assoluto sulla grande maggioranza di
questi minerali, decidendone prezzo,
quantità immessa sul mercato e
tempistiche di consegna. Nel corso
dei decenni, riuscendo a prevedere
la criticità di questi elementi, le
compagnie di stato cinesi si sono
assicurate i diritti di estrazione
di molte miniere dei suddetti
minerali anche al di fuori dei
propri confini, in particolar modo
nel continente africano. Sebbene da
anni Stati Uniti e l’Occidente tutto
abbiano cercato di differenziare le
proprie forniture di Terre Rare, ad
oggi tutti i tentativi rilevanti
sono stati fallimentari. A
confronto, la crisi di
approvigionamento di gas e petrolio
russo di cui tanto si parla in
questi mesi non è che un granello di
sabbia in un vasto, arido deserto.
Ritornando alla questione iniziale,
con questo sistema di
approvigionamento di minerali vitali
per mettere in atto la
Transizione Green tutti i paesi
del globo altro non fanno che
quotidianamente donare i propri
capitali economici, direttamente o
indirettamente, alla Republica
Popolare Cinese. E questo al costo
di una vulnerabilità intrinseca
della propria catena di
approvigionamento tecnologica e
della propria indipendenza
geopolitica. Basti pensare che, se
questa catena si interrompesse per
una qualsiasi ragione, in brevissimo
tempo non si avrebbero materiali per
fabbricare telefoni cellulari o
computer. In pratica, il crollo
completo e totale della società come
la conosciamo oggi. In questo modo
le potenze occidentali “favoriscono”
un sistema politico anti-democratico
come quello cinese, dandogli in mano
un potere che un domani potrebbe
essere sfruttato contro loro stesse
e contro la loro visione ultima di
Stato.
A corollario di quanto detto sopra,
gli investimenti per arginare il
cambiamento climatico potrebbero
creare dei dislivelli produttivi tra
le varie aree del mondo. Basti
pensare alla recente notizia in cui
l’Unione Europea ha deciso di
bandire a partire dal 2035 le auto a
combustione interna. Per quanto
effettivamente questa potrebbe
essere una misura efficace contro
l’aumento delle temperature, essa
porterà sicuramente a importanti
conseguenze politiche. Infatti in
questa maniera il settore
manufatturiero europeo delle auto
dovrà essere completamente
convertito, mentre in altre parti
del globo questa forza indutriale
verrà ancora sfruttata. Ancora, non
avendo più auto con motori a
combustione interna si farà massivo
utilizzo delle auto elettriche, le
quali hanno alla base delle loro
batterie il litio. Proprio questo
materiale è uno di quei metalli la
cui distribuzione è iniqua sul
nostro pianeta ed è concentrato solo
in alcuni Paesi, i quali
acquisiranno da qui a dieci anni un
enorme potere contrattuale
all’interno del concerto degli
Stati. Ed è proprio qui che si può
vedere come la lotta per il
cambiamento climatico passa dal
conferire potere economico e
soprattutto geopolitico a certi
attori internazionali, i quali non
sempre hanno un sistema democratico
di governo e non condividono sempre
il sistema di valori tipicamente
occidentale.
Un aspetto interessante proprio in
funzione del rapporto tra democrazie
occidentali e regimi non democratici
è emerso all’indomani del conflitto
tra Russia e Ucraina. Vista la
montante preoccupazione per
l’approvvigionamento delle fonti
fossili dalla Russia verso l’Europa,
i vari governi dell’Unione si sono
mossi (tardissimo) per cercare di
diversificare le proprie fonti di
approvigionamento. Tanto è stato
l’allarme e la paura di ritrovarsi
senza scorte di gas che si è
assistito a due trend
principali.
Uno è stato quello di virare verso
altre fonti energetiche, come quelle
green, ma anche quelle più
tradizionali, come nucleare e
carbone. Il ritorno a quest’ultimo
in particolare ha destato
particolare sorpresa tra l’opinione
pubblica mondiale, soprattutto
quando si è parlato di allentare le
restrizioni sulle emissioni su
questa tecnologia. Si è addirittura
iniziati a categorizzare il nucleare
come fonte green, dimenticando
l’enorme problematica derivante
dallo smaltimento di scorie
radioattive derivanti da questi
processi. Ciò a testimonianza che,
forse, l’interesse ultimo per le
tecnologie green non è così
profondo come è sembrato finora.
Il secondo trend è stato quello di
cercare fornitori alternativi di gas
alla Russia. Prendendo l’esempio
dell’Italia, questa ricerca ha
coinvolto sia partner storici come
l’Algeria sia nuovi key players
come Mozambico e Azerbaigian. Per
quanto il processo di ricerca
coinvolga per sua stessa natura
anche Stati con modelli di governo
molto diversi dai propri, è
interessante notare come si chiuda
un occhio se non due in questo
momento storico da chi ci si sta
andando a rifornire.
Riprendendo gli esempi citati poco
fa, in Mozambico vi è una guerra
civile da anni nella regione di Cabo
del Gado contro una falange locale
dell’ISIS dove le forze governative
hanno compiuto indicibili atrocità
contro la popolazione civile, mentre
in Azerbaigian vi è un governo sotto
forte influenza di Ankara non troppo
rispettoso dei diritti umani e
reduce dalla recente vittoria
militare contro l’Armenia. Questo a
testimonianza di come le democrazie
occidentali, nel momento del
bisogno, sanno perfettamente
distinguere le dittature “buone” da
quelle “cattive”, o forse più
semplicemente quelle utili da quelle
inutili.
Analizzando i governi al potere oggi
in Europa, notiamo come essi stiano
attraversando uno dei periodi
storici più complessi dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale. Si è
infatti passati da una pandemia,
alla guerra in Ucraina e infine ora
a una crisi energetica. Tutti questi
eventi fanno vacillare costantemente
il consenso popolare dei governi,
rendendo ogni elezione politica un
tiro di dadi in cui può cambiare
tutto, specie se vi sono in gioco
forze populiste che cercano di
acquisire spazio nella scena
politica.
L’Unione Europea dal canto suo non
riesce a conferire ai propri
cittadini un’immagine di unità e
coerenza direzionale, che sia essa
su tematiche politiche, come le
sanzioni contro la Russia, o che sia
essa sulle tematiche ambientali. In
particolar modo su questo punto
negli ultimi anni si sono susseguite
una serie di normative non chiare e
in parte contraddittorie, le quali
altro non hanno fatto che creare
difficoltà agli Stati che devono
rispettarle. Per quanto l’obiettivo
di ridurre le emissioni sia ben
chiaro a tutti gli stati membri, il
modo in cui farlo è a quasi totale
discrezione degli Stati. Avendo i 27
membri strutture economiche,
produttive e di approvvigionamento
completamente diverse tra loro, si
può capire bene quanti vuoti
normativi si possano produrre, a
discapito dell’obiettivo finale
ovviamente.
In conclusione, il cambiamento
climatico è sotto gli occhi di tutti
e ciò che gli Stati del mondo stanno
facendo per cercare di arginarlo ci
influenzerà nel quotidiano da qui ai
prossimi trenta anni. Per cercare di
raggiungere un obiettivo tanto
importante come la Transizione Green
i governi dovranno attuare tutta una
serie di misure che non sempre
risulteranno semplici, a livello
politico, economico e sociale.
Molte di queste misure favoriranno
direttamente o indirettamente altri
Stati, i quali hanno una serie di
principi fondanti molto diversi da
quelli occidentali in senso lato. Ed
è proprio da qui che nasce il
dibattitto che si domanda se una
Transizione Ecologica non farà altro
che spostare gli equilibri mondiali
in nuove aree del globo e verso
nuovi attori. Questo tuttavia sarà
solo il tempo a dirlo. Allo stato
attuale possiamo solo notare come
gli Stati debbano muoversi più
velocemente sul tema ambientale,
visto che per raggiungere gli
ambiziosi obiettivi che ci si è
preposti bisogna investire ancora
miliardi e miliardi di euro e
ottenere un’efficienza energetica
ancora ben lontana.
Tutto questo è messo in dubbio
dall’attuale situazione geopolitica
globale, visto il probabile arrivo
di una recessione a livello mondiale
a seguito dalla quale gli stati
preferiranno investire sul
welfare anziché sulle misure
green. Questo potrebbe costituire un
problema insormontabile e di fatto
questo momento storico forse sarà
l’ultima occasione che abbiamo,
visto che, come recitava uno slogan
di recente memoria, “There is no
Planet B”.