N. 126 - Giugno 2018
(CLVII)
quando la speranza fece naufragio
la saint-louis e il su “carico” disperato
di Stefano Coletta
In
seguito
alla
promulgazione
delle
leggi
razziali,
la
vita
degli
ebrei
nei
paesi
governati
dal
regime
nazista
divenne
difficile,
e
tale
situazione
raggiunse
il
suo
acme
nel
1939,
anno
in
cui
la
comunità
ebraica
tedesca
si
rese
conto
che
esisteva
un
piano
finalizzato
alla
sua
eliminazione.
Molti
ebrei
decisero
quindi di
emigrare,
ma
non
era
facile,
dal
momento
che
nessun
paese
europeo
li
accettava
senza
fare
storie,
per
paura
di
vedersi
piombare
in
casa
una
marea
di
profughi
difficilmente
gestibile.
Nonostante
questo
gli
ebrei
si
precipitarono
presso
le
Ambasciate
delle
varie
nazioni
per
chiedere
il
visto,
ricevendo
un
numero
di
attesa
e la
promessa
che
sarebbero
stati
contattati,
non
appena
fosse
giunto
il
loro
turno.
Più
le
settimane
passavano,
più
la
sensazione
di
disperazione
assaliva
gli
animi
degli
Ebrei,
che
si
vedevano
in
trappola
destinati
a
non
poter
sfuggire
alla
decimazione
voluta
da
Hitler.
A
sfruttare
questa
situazione
fu
Manuel
Benitez
Gonzalez,
direttore
dell’immigrazione
di
Cuba,
il
quale
“autorizzò,
dietro
lauto
pagamento,
nell’aprile
del
1939,
dei
visti
d’ingresso.
La
notizia
fece
sì
che
tutti
che
avevano
presentato
domanda
presso
quell’Ambasciata,
corsero
ad
acquistare
un
biglietto,
di
sola
andata,
per
Cuba.
La
nave
che
li
avrebbe
condotti
alla
salvezza
era
il
transatlantico
St.
Louis,
costruito
presso
i
cantieri
navali
Bremer
Vulkan,
di
Brema,
su
ordinazione
della
società
di
navigazione
Hamburg-America
Line.
La
nave,
che
doveva
il
suo
nome
al
re
di
Francia
Luigi
IX,
noto
con
l’appellativo
“Il
Santo”,
aveva
una
lunghezza
di
175
metri,
pari
a
due
campi
da
calcio
e
una
capacità
d’imbarco
di
973
passeggeri
e
poteva
contare
su
un
potente
motore
diesel.
Subito
dopo
il
suo
varo,
avvenuto
nel
1929,
era
stata
adibita
a
nave
da
crociera
nelle
Indie
Occidentali,
in
seguito,
era
stata
adibita
a
servire
lungo
la
rotta
Amburgo-Halifax-New
York,
conosciuta
come
la
Luxury
Liner
Row.
Il
13
maggio
1939,
il
fischio
impetuoso
del
transatlantico
annunciò
la
partenza
dal
porto
d’Amburgo,
e
tutti
i
passeggeri
tirarono
un
sospiro
di
sollievo,
certi
che
l’incubo
delle
persecuzioni
fosse
giunto
al
termine.
Mentre
la
banchina
diventava
un
puntino
e la
musica
della
banda
s’affievoliva,
le
varie
famiglie
si
ritirarono
nelle
cabine,
consapevoli
che
quell’avventura
aveva
richiesto
un
enorme
impegno
economico,
basti
pensare
che
il
costo
del
biglietto
di
prima
classe
ascendeva
a
320
$,
mentre
quello
della
turistica
era
di
240
$,
inoltre,
l’armatore
aveva
aggiunto
una
“tassa
d’emergenza”,
per
salvaguardarsi
qualora
la
nave
fosse
tornata
alla
meta
senza
compiere
la
sua
missione.
Nessuno
ci
fece
caso,
ma
forse
avrebbero
dovuto.
L’armatore
aveva
scoperto
che
i
permessi
recanti
la
firma
di
Manuel
Benitez
Gonzalez,
direttore
dell’immigrazione
di
Cuba,
non
avevano
alcun
valore,
perché
i
150
$ a
permesso
versati,
non
erano
finiti
nelle
casse
dell’erario
cubano,
come
stabilito
dal
Decreto
n.
55,
del
novembre
1938,
a
garanzia
delle
condizioni
economiche
degli
immigrati.
Ben
724
passeggeri,
erano
muniti
anche
di
visti
d’ingresso
per
gli
Stati
Uniti,
ma
questi
erano
vincolati
dal
numero
progressivo,
dal
momento
che
gli
ingressi
erano,
annualmente,
limitati,
per
cui
avrebbero
dovuto
attendere
l’autorizzazione
in
terra
cubana.
A
comandare
la
nave
era
il
tedesco
di
origini
danesi
Gustav
Schröder,
il
quale
aveva
iniziato
la
sua
carriera
di
marinaio,
all’età
di
16
anni,
ovvero
nel
1902,
a
bordo
della
nave
d’addestramento
Großherzogin
Elisabeth.
Conseguito
il
brevetto
di
ufficiale
di
marina,
prestò
servizio
prima
su
navi
a
vela,
poi
sulla
SS
Deutschland
dell’Hamburg
America
Line,
una
delle
navi
più
veloci
dell’epoca,
detentrice
del
Blue
Riband
(Nastro
Azzurro),
il
riconoscimento
per
le
navi
passeggeri
che
avevano
il
primato
di
velocità
media
di
attraversamento
dell’Atlantico.
All’età
di
24
anni
gli
venne
conferito
il
titolo
di
capitano;
nel
1913,
venne
inviato
a
Calcutta,
dove,
due
anni
dopo,
venne
fatto
prigioniero
dagli
inglesi
e
internato,
per
tutta
la
durata
della
Prima
Guerra
Mondiale.
Tornò
in
Germania,
nel
1919,
e si
ritrovò
senza
lavoro,
a
causa
della
demilitarizzazione
forzata
imposta
dal
Trattato
di
Versailles.
Nel
1921,
venne
ingaggiato
dalla
compagnia
di
spedizioni
HAPAG
(Hamburg-Amerikanische
Paketfahrt-Aktiengesellschaft),
nel
1935
venne
promosso
primo
ufficiale
della
nave
Hansa.
Nell’agosto
del
1936
divenne
quindi
comandante
della
MS
Ozeana
e,
nel
1939,
prese
il
comando,
grazie
alla
sua
pluri-esperienza
nella
Hamburg
America
Line,
del
transatlantico
Saint-Louis.
Prima
di
abbassare
le
passerelle
e
far
accedere
i
passeggeri,
si
rivolse
ai
231
membri
dell’equipaggio
e
ordinò
che
tutti
tenessero
un
comportamento
adeguato
nei
confronti
di
costoro,
non
solo
perché
avevano
pagato
il
biglietto,
ma
anche
perché
erano
delle
persone.
Proprio
per
far
sentire
a
loro
aggio
gli
ebrei,
Schroder
rimosse
un
grande
ritratto
di
Adolf
Hitler
dalla
sala
ballo
della
nave,
autorizzandone
l’utilizzo
come
Sinagoga.
Nel
suo
diario,
Schröder,
al
secondo
giorno
di
navigazione
annotò:
«Numerosi
passeggeri
sono
molto
nervosi.
Nonostante
ciò,
tutti
sembrano
convinti
che
non
rivedranno
mai
più
la
Germania.
Prima
di
partire
ho
assistito
a
dei
saluti,
alquanto,
commoventi,
per
non
dire
strazianti,
frutto
della
consapevolezza
che
stavano
lasciando
non
solo
gli
oggetti,
ma
anche
gli
affetti
più
cari
e
che
non
li
avrebbero
mai
più
rivisti.
Ma
sono
convinto
che
grazie
al
bel
tempo,
al
mare
tranquillo,
al
buon
cibo
e al
servizio
adeguato,
ben
presto
gli
animi
si
rassereneranno
e
regnerà
la
solita
atmosfera
dei
lunghi
viaggi
oceanici.
Il
mare
ha
il
potere
di
lenire
i
dolori
e di
far
dimenticare
tutte
le
angosce
e le
ansie
che
ci
ammorbano
sulla
terra
ferma».
Alcuni
giorni
prima
della
partenza,
l’armatore
dell’Hamburg-America
Line
gli
aveva
fatto
pervenire
il
seguente
ordine:
«La
maggior
parte
dei
passeggeri
non
è
autorizzata
a
sbarcare
a
Cuba,
secondo
le
nuove
disposizioni
giunte
dall’Avana.
Per
questo
motivo
manterrai
velocità
e
rotta
ridotti,
nella
speranza
che
la
situazione,
non
del
tutto
chiara,
si
risolva
prima
del
vostro
arrivo».
Speranza
condivisa
dal
Capitano.
Le
nuove
disposizioni
a
cui
si
riferiva
l’armatore
erano
il
Decreto
55
del
gennaio
1939,
con
il
quale
si
disponeva
che
coloro
che
volevano
emigrare
a
Cuba,
dovevano
versare
una
cauzione
di
500
$,
in
modo
d’assicurare
allo
stato
cubano
che
non
sarebbero
divenuti
un
onere
per
lo
stato.
Mentre
non
c’era
alcun
onere
finanziario
per
i
turisti
che
volevano
visitare
Cuba.
Benitez
Gonzalez,
il
Direttore
dell’Ufficio
Immigrazione,
aveva
venduto
dei
permessi
turistici,
spacciandoli
per
permessi
di
soggiorno,
inoltre,
si
era
intascato
la
somma,
con
la
conseguenza
che
il
governo
cubano
non
aveva
la
caparra
necessaria
per
permettere
l’accesso
agli
Ebrei.
Non
appena
informato,
il
presidente
cubano
Federico
Laredo
Brúissed,
una
settimana
prima
della
partenza
della
nave,
dichiarò
illegali
i
certificati
dei
passeggeri
del
Saint-Louis
e,
dietro
le
pressioni
della
popolazione
che
aveva
manifestato
l’8
maggio
contro
lo
sbarco
di
altri
ebrei
in
territorio
cubano,
dispose
la
chiusura
dei
porti.
Mentre
nuvole
di
tempesta
si
addensavano
sul
futuro
dei
passeggeri,
il
capitano
s’attenne
alle
indicazioni
e
compì
uno
scalo
passeggeri
a
Cherbourg,
in
Francia,
per
caricare
altri
38
passeggeri,
in
questo
modo
il
numero
totale
degli
ebrei
ascendeva
a
937,
c’erano
solo
sei
passeggeri
non
ebrei:
un
coppia
cubana
e
quattro
spagnoli.
Quindi
riprese
la
navigazione
che
si
svolse
senza
problemi,
i
passeggeri
si
rasserenarono
e
vissero
l’avvicinamento
a
Cuba,
con
animo
sereno
e
allegro.
Il
27
maggio
il
transatlantico
attraccò
nel
porto
dell’Avana
e,
mentre
i
passeggeri
si
preparavano
a
scendere
convinti
di
essere
arrivati
a
destinazione,
il
governo
di
Cuba
comunicò
che
solo
28
passeggeri
erano
autorizzati
a
scendere
dalla
nave:
di
questi
22
erano
ebrei,
detentori
di
visti
americani
validi
e
prossimi
alla
chiamata,
gli
altri
6
erano
i
cittadini
cubani
e
gli
spagnoli.
Il
resto
dei
passeggeri,
poiché
detenevano
i
certificati
“Benitez”,
senza
alcun
valore,
non
vennero
autorizzati
a
scendere.
Dinanzi
alle
proteste
e
alle
scene
di
panico
si
scelse
di
rassicurare
i
passeggeri
di
voler
vagliare
un’eventuale
soluzione.
Sol,
all’epoca
un
ragazzino
di
dodici
anni,
ricordò,
anni
dopo:
«Tutti
erano
spaventati
a
morte,
alcuni
passeggeri
tentarono
di
raggiungere
la
riva
a
nuoto.
Un
passeggero,
di
nome
Max
Loewe,
veterano
della
Prima
Guerra
Mondiale,
rimase
talmente
sconvolto
dalla
notizia
che
scese
nella
sua
cabina
e si
tagliò
le
vene,
quindi
si
gettò
in
acqua».
Prontamente,
ripescato
da
un
membro
dell’equipaggio,
venne
condotto
presso
l’ospedale
dell’Avana.
La
notizia
del
tentato
suicidio,
nel
giro
di
poche
ore,
fece
il
giro
del
mondo,
accendendo
i
riflettori
dei
media
sulle
traversie
dei
passeggeri
della
Saint-Louis.
Il 9
giugno
1939,
il
New
York
Times
pubblicò
un
editoriale
intitolato
“La
St.
Louis
la
nave
più
triste
sul
mare”
e,
quotidianamente,
pubblicò
notizie
sulle
condizioni
dei
rifugiati.
«Forse
Cuba,
come
ha
dichiarato
un
rappresentante
del
Governo,
ha
accolto
troppi
rifugiati
tedeschi.
Eppure
–
continuava
il
giornalista
–
queste
900
persone
chiedono
un
rifugio
temporaneo.
Alcune
delle
barche
ruotanti
intorno
alla
nave,
sono
piene
di
parenti
dei
profughi,
giunti
mesi
prima
su
queste
sponde.
Costoro
cercano
d’intravedere
i
volti
dei
loro
congiunti,
di
mandare
un
saluto
e,
soprattutto,
d’infondere
il
necessario
coraggio
per
affrontare
questi
momenti
difficili».
Al
termine
della
settimana,
il
governo
confermò
la
decisione
di
chiudere
il
porto
ai
chiedenti
asilo,
con
la
conseguenza
che
il
capitano
Schröder
dovette
comunicare
che
avrebbe
ripreso
il
viaggio
di
ritorno
con
destinazione
Amburgo.
Inutili,
i
tentativi
di
risanare
la
situazione
dei
raggirati,
non
per
impossibilità
politica,
ma
per
paura
che
l’isola
di
Cuba,
in
poco
tempo,
brulicasse
di
profughi
ebrei.
Il
capitano
Schröder,
prima
di
lasciare
il
porto,
inviò
un
cablogramma
al
Presidente
cubano
ricordandogli
che
il
destino
dei
suoi
passeggeri
era
frutto
della
sua
ostinata
decisione.
Nel
frattempo,
rilasciò
il
seguente
comunicato
stampa:
«Il
Governo
cubano
ci
sta
costringendo
a
lasciare
il
porto.
Ci
hanno
permesso
di
rimanere
qui
fino
all’alba
di
venerdì,
poi
dovremo
levare
le
ancora.
La
partenza
non
è
frutto
dell’interruzione
dei
negoziati,
ma
espressa
volontà
delle
autorità
cubane.
Io e
l’armatore
rimarremo
in
contatto
con
tutte
le
organizzazioni
ebraiche
e
con
qualunque
ufficio
governativo
che
sia
disposto
a
collaborare
per
giungere
a
una
soluzione
favorevole
per
i
passeggeri.
Per
il
momento
costeggeremo
le
coste
degli
Stati
Uniti».
Fu
così
che
due
giorni
dopo,
la
nave
lambiva
le
acque
internazionali
della
Florida,
situazione
che
motivò
i
rappresentanti
delle
comunità
ebraiche
americane
e,
anche,
molti
simpatizzanti
a
perorare
la
causa
dinanzi
al
Presidente
Franklin
Delano
Roosevelt.
I
cittadini
americani,
appassionati
a
leggere
le
vicende
di
quei
“dannati”,
iniziarono
a
tempestare
la
Casa
Bianca
di
lettere,
e
tra
questi
un’undicenne
di
Tacoma,
Dee
Nye,
scrisse
alla
First
Lady:
«Madre
del
nostro
paese,
sono
molto
triste
che
il
popolo
ebraico
debba
soffrire
in
questo
modo.
Per
favore,
lasciali
entrare
in
America
(…)
A
casa
mia
abbiamo
tre
camere
vuote,
mia
madre
sarebbe
felice
di
poter
accogliere
una
famiglia».
Roosevelt
ricevette
anche
una
serie
di
appelli
dal
capitano
della
Saint-Louis,
a
cui
non
rispose,
mentre
il 4
giugno,
A.M.
Warren,
Direttore
della
Sezione
visti
del
Dipartimento
di
Stato
chiuse,
formalmente,
i
porti
alla
nave,
giustificando
la
decisione
con
la
seguente
dichiarazione:
«I
rifugiati
tedeschi
sono
in
attesa
del
loro
turno
per
accedere
negli
Stati
Uniti.
Del
resto
la
quota
di
immigrati
ammessi
per
quest’anno
è
stata
raggiunta».
Il
Governatore
delle
Isole
Vergini,
si
rese
disponibile
ad
accogliere,
temporaneamente
gli
ebrei,
a
condizione
che
il
Presidente
Roosevelt
lo
approvasse,
ma
la
richiesta
venne
rigettata
sostenendo
che
si
apriva
un
canale
per
permettere
l’ingresso,
in
territorio
americano,
di
spie
naziste
travestite
da
rifugiati.
Ragion
per
cui,
il 7
giugno,
meno
di
un
mese
dopo
la
partenza
da
Amburgo,
la
Saint-Louis
rivolgeva
la
prua
verso
il
vicino
Canada,
ultima
nazione
presso
cui
perorare
aiuto,
prima
di
ritornare
indietro.
Mentre
la
nave
era
a
due
giorni
dal
porto
di
Halifax,
il
leader
della
comunità
ebraica
del
Canada,
sostenuto
anche
dalla
popolazione,
presentò
una
petizione
al
governo
federale
riguardante
la
possibilità
di
offrire
rifugio
ai
passeggeri
ebrei
della
Saint-Louis.
Il
New
York
Times
scrisse:
«Possiamo
solo
sperare
che
in
qualche
parte
del
mondo
i
cuori
si
addolciscano
e
offrano
rifugio.
Il
St.
Louis
grida
al
cielo
la
disumanità
dell’uomo
verso
l’altro
uomo».
I
primi
di
giugno,
George
Wrong,
autorevole
sacerdote
e
storico
dell’Università
di
Toronto,
inviò
un
telegramma
al
Primo
Ministro
Mackenzie
King
supplicandolo
di
mostrare
«la
vera
carità
cristiana»
e di
offrire
ai
passeggeri
ebrei
un
rifugio
sicuro
in
Canada.
La
petizione
era
firmata
da
37
donne
e
uomini
influenti
della
città
di
Toronto
tra
cui
B.K.
Sandwell
della
rivista
Saturday
Night;
Robert
Falconer,
ex
Preside
della
Università
di
Toronto,
e
Ellsworth
Flavelle,
un
ricco
uomo
d’affari.
Prima
di
rispondere
alla
petizione,
Oscar
Skelton,
Sottosegretario
di
Stato
per
gli
Affari
Esteri,
scrisse
al
Primo
Ministro,
osservando
che
dal
gennaio
1939,
un
centinaio
di
immigrati
erano
stati
ammessi
in
Canada
con
Ordini
speciali
del
Consiglio
dei
Ministri,
perché
non
si
adattavano
ai
criteri
stabiliti
dalle
leggi
sull’immigrazione.
Tra
costoro
il
60%
era
costituito
da
ebrei.
Quindi,
in
linea
teorica,
si
sarebbero
potuti
accogliere,
ma
Wrong
decise
di
rigettare
la
petizione
con
la
seguente
motivazione:
«I
viaggiatori
del
St.
Louis
non
avevano
presentato
alcuna
richiesta
formale
finalizzata
a
poter
immigrare
in
Canada,
inoltre,
le
leggi
sull’immigrazione
prevedevano
persone
con
capitale
d’investimento
o
con
perizia
tecnica
e
scientifica»
situazione
in
cui
non
rientravano
gli
ebrei
(…)
Il
governo
canadese
non
ha
adottato
il
sistema
di
quote
di
ammissione
come
hanno
fatto
gli
Stati
Uniti.
Non
ammette
gli
immigrati
per
scopi
temporanei
in
attesa
di
passar
in
altri
paesi,
com’è
avvenuto,
fino
a
poco
tempo
fa,
a
Cuba.
Né
ammette,
per
periodi
brevi,
la
presenza
di
immigrati
come
avviene
in
alcune
nazioni
europee».
In
effetti
la
situazione
degli
ebrei
tedeschi
era
del
tutto
particolare,
ed
era
stata
rappresentata,
alcuni
mesi
prima,
sempre,
da
George
Wrong
al
Governo
Canadese,
che
in
quell’occasione
aveva
messo
in
evidenza
che
la
nazione
canadese
era
«un
vasto
territorio
vuoto»
e
che
i
canadesi
non
avvertivano
il
pericolo
che
correvano
gli
ebrei
in
Germania.
Il
Primo
Ministro,
Mackenzie
King,
s’era
impegnato,
nella
sua
risposta,
a
operare
per
contribuire
a
risolvere
il
“più
sconcertante
dei
problemi
internazionali”,
affermando:
«Mi
chiedo
fino
a
che
punto
possiamo
arrivare,
senza
peggiorare
le
condizioni
di
coloro
che
vogliamo
aiutare».
La
risposta
vaga,
lasciava
intravedere
una
remota
possibilità
di
aiuto,
qualora
se
ne
fosse
presentata
l’occasione.
Un
ruolo
determinante,
in
questa
storia,
venne
giocato
da
Frederick
Blair,
il
direttore
dell’Ufficio
per
l’Immigrazione
Canadese,
manifesto
antisemita,
che
dichiarò:
«Il
Canada
ha
già
fatto
troppo
per
gli
ebrei,
del
resto
nessun
paese
sarebbe
in
grado
di
poter
accogliere
tutti
gli
ebrei
che
vogliono
lasciare
l’Europa,
bisogna
pur
fissare
un
limite».
Il
Canada
aveva
dovuto
affrontare
all’inizio
degli
anni
Trenta
una
grave
depressione,
per
cui
gli
ebrei
erano
visti
come
una
minaccia
economica
e
anche
linguistica,
dal
momento
che
i
francofoni
temevano
che
gli
ebrei
avrebbero
imparato
l’inglese
e
quindi
avrebbero
capovolto
gli
equilibri
di
potere.
A
fomentare
la
ventata
di
antisemitismo
furono
anche
i
sacerdoti
cattolici
del
Quebec
predicando
messaggi
antisemiti,
ricordando
che
gli
ebrei
avevano
ucciso
Gesù
Cristo
e
molti
canadesi
abitanti
nelle
zone
rurali
era
convinti
che
non
era
vero
che
i
nazisti
perseguitassero
gli
ebrei,
e
attribuivano
a
quest’ultimi
la
crisi
internazionale,
dal
momento
che
secondo
costoro
controllavano
le
borse.
King
era
ben
consapevole
di
questa
situazione
e
non
volle
rendersi
impopolare,
in
vista
dell’approssimarsi
delle
elezioni,
per
cui
assecondò
il
respingimento,
motivandolo
come
frutto
di
una
mancata
richiesta
dei
passeggeri.
Tale
atteggiamento
venne
condannato,
un
mese
dopo,
il
19
luglio,
dal
Winnipeg
Free
Press
che
concluse
l’articolo
nel
seguente
modo:
«Anche
il
Canada
ha
bisogno
delle
industrie
che
i
rifugiati
stanno
portando
negli
Stati
Uniti.
C’è
bisogno
di
talenti
e
mestieri
che
la
nostra
xenofobia
ha
finora
limitato».
Dinanzi
all’ennesimo
rifiuto,
il
capitano
Schröder
diede
l’ordine
di
puntare
verso
Amburgo,
anche
se
in
cuor
suo
aveva
deciso
di
arenare
la
nave
lungo
le
coste
inglesi,
pur
di
salvare
i
suoi
passeggeri.
Quindi,
riunì,
sul
ponte
della
prima
classe,
i
viaggiatori
e
comunicò:
«Nonostante
la
situazione
difficile
la
compagnia
di
navigazione
rimane
in
contatto
con
varie
organizzazioni
e
organismi
ufficiali
allo
scopo
di
tentare
uno
sbarco
fuori
dalle
coste
della
Germania.
Nel
frattempo,
ci
spingeremo
nei
mari
del
Sud-America,
in
attesa
di
ricevere
buone
notizie».
La
notizia
non
confortò
i
passeggeri,
che
si
resero
conto
che
era
impossibile,
per
la
nave,
fare
scali
non
autorizzati,
anche
perché
c’era
il
problema
del
carburante.
Il
capitano
Schröder
aveva
appena
terminato
il
suo
discorso
e
stava
rientrando
sul
ponte
di
comando
che
assistette
a
una
scena
che
lo
colpì
profondamente,
e
che
annotò
nel
suo
diario:
«Due
ragazzini
avevano
creato,
utilizzando
le
sedie
a
sdraio,
del
ponte
di
prima
classe,
un
muro,
con
un
unico
ingresso.
Loro
s’erano
posti
a
controllo
dell’ingresso,
quindi
si
presentavano
dei
bambini
che
chiedevano
di
poter
entrare
nel
loro
territorio.
Le
due
guardie
chiedevano:
“Sei
ebreo?”
–
“Sì”
rispondeva
un
bambino.
“Mi
dispiace
gli
ebrei
non
sono
ammessi!”
urlava
la
guardia”.
“Oh,
per
favore
fammi
entrare.
Sono
solo
un
piccolo
ebreo”.
Ma i
bambini-guardie
iniziavano
a
gridargli
contro
e a
spintonarlo
via.
Il
gioco
tragico
consisteva
nel
riuscire
nel
rimanere
vicino
all’ingresso
nonostante
tutto».
Il
morale
dei
viaggiatori
peggiorò
e
per
questo
venne
creato
un
gruppo
di
passeggeri
atto
a
prevenire
eventuali
colpi
di
testa
da
parte
dei
compagni
di
viaggio.
Il
13
giugno,
mentre
la
Saint-Louis
era
in
alto
mare,
all’incirca
a
metà
del
viaggio
di
ritorno,
Morris
Troer,
capo
delle
operazioni
europee
della
JDC
(Jewish
Joint
Distribution
Committee),
inviò
un
cablogramma
al
capitano
Schröder
che
annunciava:
«Disposizioni
finali
per
lo
sbarco
di
tutti
i
passeggeri.
Sono
felice
d’informarti
che
i
governi
del
Belgio,
dell’Olanda,
della
Francia
e
dell’Inghilterra
si
sono
resi
disponibili
ad
accogliere
gli
ebrei
a
bordo».
Per
la
precisione
la
Francia
era
disposta
ad
accoglierne
224;
il
Belgio,
214;
i
Paesi
Bassi
181
e la
Gran
Bretagna
287.
Non
appena
il
cablogramma
venne
reso
noto
ai
profughi,
questi
chiesero
al
capitano
di
rispondere
con
il
seguente
testo:
«I
907
passeggeri
del
Saint-Louis
che
da
tredici
giorni
oscillano
tra
due
sentimenti
contrastanti,
speranza
e
disperazione,
vogliono
porgervi
la
loro
immensa
gratitudine,
grande
come
l’oceano
su
cui
stiamo
fluttuando.
Accettate
i
nostri
ringraziamenti
più
profondi
ed
eterni
da
parte
di
uomini,
donne
e
bambini
uniti
dallo
stesso
destino
e
dal
medesimo
sogno:
la
libertà».
Oltre
a
questa,
il
capitano
Schröder
inviò
a
Morris
Troper
il
suo
ringraziamento:
«Prima
di
lasciare
Anversa
voglio
ringraziarti
per
la
disponibilità
e la
collaborazione
offerta.
Soprattutto
per
il
sostegno
e
l’operato
che
hai
svolto
a
favore
della
ridistribuzione
dei
miei
passeggeri.
Ti
comunico,
inoltre,
che
i
Rhuputis
sono
stati
destinati
al
contigente
francese,
mi
hanno
detto
che
cerceranno
di
passare
in
Inghilterra.
Mi
unisco
ai
passeggeri
nel
rinnovare
il
mio
personale
ringraziamento
e
apprezzamento
per
tutto
ciò
che
hai
fatto».
Il
17
giugno
la
nave
venne
ancorata
al
molo
di
Anversa,
in
Belgio,
e i
passeggeri,
appena
scesi,
si
resero
conto
che
dovevano
sbrigarsi,
perché
i
lampi
della
guerra
si
stavano
addensando
sull’Europa.
Dei
passeggeri
sbarcati,
solo
87
riuscirono
a
emigrare
prima
del
10
maggio
1940,
ovvero
quando
la
guerra
aveva
avvinghiato
l’intera
Europa.
254
vennero
fermati
poche
settimane
dopo
il
loro
sbarco,
finendo
deportati
nei
campi
di
sterminio
di
Auschwitz
e
Sobibór,
dove
morirono.
Dei
restanti
non
si
ebbero
più
notizie,
quasi
sicuramente,
alcuni
vennero
arrestati,
altri
riuscirono
a
fuggire
verso
la
Spagna,
altri
morirono
mentre
tentavano
di
sfuggire
al
loro
destino.
Il
capitano
Schröder,
riprese
il
mare
al
comando
del
Saint-Louis,
ma
senza
passeggeri,
a
causa
dello
scoppio
della
Seconda
Guerra
Mondiale.
Di
ritorno
dalle
Bermuda,
Schröder
evase
un
blocco
della
Royal
Navy
e
attraccò
nella
neutrale
Murmansk.
Con
un
equipaggio
minimo
a
bordo,
riuscì
a
superare
le
pattuglie
alleate
e
raggiunse
Amburgo
il
primo
dell’anno
del
1940.
Gli
fu
assegnato
un
incarico
e
mai
più
andò
al
mare.
Venne
riconosciuto
il
suo
operato
a
favore
dei
profughi
e,
per
questo
motivo,
non
fu
processato.
Ricevette
molti
elogi
e,
nel
1957,
fu
insignito
dell’Ordine
al
Merito
dalla
Repubblica
Federale
Tedesca:
«per
i
servizi
alle
persone
e
nel
soccorso
dei
rifugiati».
Morì,
nel
1959,
all’età
di
73
anni.
Nel
marzo
del
1993,
lo
Yad
Vashem
gli
rese
onore
con
la
menzione
di
«Giusto
tra
le
Nazioni».
Riferimenti
bibliografici:
Kacer
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and
Back:
The
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St.
Louis,
Second
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Lawlor
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The
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2006.