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N. 6 - Giugno 2008 (XXXVII)

Lucania 3 marzo 1944
La più grande tragedia ferroviaria italiana

di Michele Strazza

 

Il 3 marzo 1944, in territorio del Comune di Balvano, in Basilicata, si verificò la più grave tragedia ferroviaria della storia d’Italia che costò oltre 500 morti. Questo scritto tenta di ricostruirne la vicenda, pur nella consapevolezza che molti punti rimangono ancora oscuri per la mancanza di adeguata documentazione e perché la tragedia non fu mai del tutto chiarita.

E’ stato il giornalista Mario Restaino (Un treno, un’epoca: storia dell’8017, Arti Grafiche Vultur, Melfi 1994) a raccontare dettagliatamente l’episodio. Erano trascorsi circa 50 minuti dopo la mezzanotte quando il treno 8017 aveva lasciato la stazione di Balvano per dirigersi verso la successiva di Bella-Muro Lucano. Il convoglio, composto da 47 vagoni, era partito nelle prime ore pomeridiane del 2 marzo da Napoli per Potenza. Esso era formato da carri per trasporto merci, di cui solo 12 carichi e 2 riservati ai passeggeri, per essere utilizzati al ritorno dal capoluogo lucano per il trasferimento di materiale militare americano.

Senonchè, come di solito avveniva in un periodo di scarsi collegamenti ferroviari, vi erano stati vari tentativi di assalto del treno da parte di “viaggiatori abusivi” ma la polizia militare li aveva bloccati sul nascere sia nella stazione partenopea che in quelle di Pompei e Salerno. Anzi coloro che, nonostante tutto, erano riusciti a salire, erano poi stati fatti scendere nella stazione di Battipaglia dove era stata agganciata una seconda locomotiva.

Secondo un’altra versione (Luigi Luccioni, Frammenti di cronache e ricordi, Congedo Editore, Potenza 1993), invece, la seconda locomotiva venne agganciata alla stazione di Vietri. Il treno si trovò così “in doppia trazione”, trainato cioè da due locomotive: la “titolare”, direttamente agganciata ai vagoni, contraddistinta col numero 476.038, e quella aggiunta, portante il numero 480.016. La prima era di fabbricazione austriaca ed era stata ceduta all’Italia dall’Austria come “preda bellica” alla fine del primo conflitto mondiale, mentre la seconda era stata costruita in Italia. Ambedue le macchine erano adatte ai percorsi montani per l’alta capacità di trazione.

Comunque, una cosa è certa, prima di Balvano le forze dell’ordine non avevano potuto controllare accuratamente anche le altre soste. Per questo un centinaio di passeggeri erano riusciti ad eludere la sorveglianza nella fermata di Eboli e ben 400 erano saliti in quella successiva di Persano, cosicché quando il convoglio, alle ore 23,40, aveva lasciato lo scalo di Vietri contava oltre 600 viaggiatori ed era pronto ad avviarsi verso la successiva stazione di Balvano.

Il treno, dunque, arrivò in quest’ultima alle 0,12 del 3 marzo e vi sostò per 38 minuti. Si tenga presente cha la stazione di Balvano si trovava in una gola stretta, solcata dal fiume Platano, ed i binari erano situati tra due gallerie, per cui una buona metà del convoglio era rimasto proprio dentro la galleria in discesa “ove ristagnava il fumo lasciato dal passaggio delle due locomotive e che i passeggeri respirarono per tutti i 38 minuti che durò la sosta”(Luccioni).

L’8017 ripartiva alle 0,50 e si infilava nella seconda galleria, in salita, verso la stazione di Bella-Muro Lucano, distante solo 8 chilometri e che avrebbe dovuto raggiungere entro 20 minuti. Ma dopo varie gallerie una fu fatale al convoglio, quella denominata “delle Armi”, caratterizzata da una forte pendenza, rettilinea, lunga un chilometro e 966 metri. Il treno la imboccò dopo l’una di notte e fu l’inizio della fine. Cosa di preciso sia accaduto non fu mai chiarito del tutto ma vediamo innanzitutto gli elementi certi della vicenda.

Passata la metà della galleria le ruote della locomotiva iniziarono a slittare, costringendo un macchinista a scendere e spargere sabbia sulle rotaie. Ma l’iniziativa non portò alcun vantaggio ed il treno si fermò, arretrando, poi, di pochi metri e facendo fuoriuscire dalla galleria gli ultimi tre vagoni, A questo punto si fermò nuovamente per non muoversi più. E mentre la maggior parte dei viaggiatori stava dormendo il fumo continuava ad uscire dalle due locomotive, andando a saturare completamente l’intera galleria nella quale l’ossigeno rimasto veniva sostituito da monossido di carbonio.

Di fronte alla inattività dei macchinisti, forse già morti, il treno si riempì di monossido che uccise la maggior parte dei passeggeri in completo silenzio, mentre quelli degli ultimi vagoni poterono salvarsi grazie al fatto di trovarsi fuori della galleria. Anche altri riuscirono, pur se intossicati, a raggiungere gli ultimi vagoni, mettendosi così in salvo.

Verso le ore 2,40, intanto, il capostazione di Balvano e quello di Bella-Muro incominciarono a preoccuparsi ma non presero alcuna iniziativa poiché avrebbero dovuto percorrere la linea a piedi per verificare cosa poteva essere accaduto. Solo alle 5,10 il frenatore Giuseppe Venuto arrivò semintossicato nella stazione di Balvano, dando l’allarme, ma era già troppo tardi.

Così racconta l’episodio Luigi Luccioni: “… Ma alle 5,10 del mattino successivo un frenatore delle ferrovie, Giuseppe Venuto, che tra i pochi presenti sul treno maledetto si era subito reso conto di quanto stava accadendo e si era prontamente diretto verso la uscita della galleria, entrò barcollando nella stazione di Balvano ed agitando un braccio in direzione dei binari urlò: “Là, là, sono tutti morti, tutti morti” e cadde a terra svenuto. Egli aveva percorso quel tratto di ferrovia senza una lampadina, nel buio più assoluto, trascinandosi carponi nauseato dal fumo ristagnante ancora nelle gallerie e dal malessere della intossicazione, atterrito per quanto aveva constatato”.

Il telegrafo della stazione fu subito messo in moto per segnalare la tragedia alle autorità ed i soccorsi della Croce Rossa raggiunsero il convoglio che fu rimorchiato sino alla stazione di Balvano. Così ricordò quei drammatici momenti il medico condotto di Balvano: “Un silenzio irreale, la neve e tutti quei poveretti. Mostrai ai ferrovieri e ai contadini come si fa la respirazione bocca a bocca. Avevo solo cento fiale di adrenalina, non potevo permettermi di sbagliare. Saltavo da una vettura all’altra, cercavo un cenno di vita nei riflessi oculari, poi facevo l’iniezione al cuore. Nessun altro medico per tutta la mattinata. Poi arrivarono le autorità da Potenza con una dottoressa americana. Allontanarono tutti, anche me. Ne avevo salvati 51, mi restavano 49 fiale, avrei potuto salvarne altri. Protestai, Dio mio, fatemi salvare altre vite. Mi cacciarono. E questo è il tormento che mi accompagna da quel giorno”( Famiglia Cristiana del 4 marzo 1979).

Sul posto accorsero il Prefetto, il Governatore Alleato, il Procuratore ed il Sostituto Procuratore del Re, il Medico Provinciale e l’Ufficiale Sanitario (Il Gazzettino dell’8 marzo 1944). A tutti fu subito chiara la natura della morte dei numerosissimi passeggeri: le vittime non mostravano alcun segno di sofferenza in quanto la morte era intervenuta nel sonno e quasi tutti erano rimasti nella stessa posizione nella quale si trovavano da vivi, parecchi avevano attorno alle narici solo tracce di sangue vivo, tipico segno dell’avvelenamento da monossido di carbonio (cfr. anche La Gazzetta del Mezzogiorno del 7 marzo 1944).

Tra i deceduti venne anche riconosciuto il cadavere del Prof. Iura, di Baragiano, ordinario di patologia chirurgica presso l’Università di Bari e chirurgo dell’Ospedale Civile di Potenza. Le vittime vennero allineate sul marciapiede della stazione e poi trasferite al cimitero di Balvano, per essere seppellite in 4 fosse comuni. I superstiti, invece, vennero trasferiti, con automezzi militari alleati, nell’ospedale di Potenza.

Sul numero delle vittime non vi è ancora chiarezza. Nelle fosse comuni vennero sepolte 402 persone, di cui 324 uomini e 78 donne, ma le vittime furono più numerose, e comunque, secondo i dati forniti da Mario Restaino, non meno di 509. E quest’ultima cifra riporta anche la lapide del cimitero di Balvano con la precisazione che trattasi di 408 uomini e 101 donne.

Sempre Restaino riporta anche il sistema usato nell’inumazione: “… ad ogni cadavere fu applicato un cartellino numerato, che rimanda all’elenco delle vittime. A seconda della fossa nella quale veniva adagiata la salma, il numero veniva riportato su uno schema. Il numero più alto fra quelli inseriti negli schemi è 422…” Nella prima fossa, lunga 16 metri e larga quasi 3, vennero sepolti 86 uomini identificati, di cui 5 senza numero, essendosi smarrito il cartellini. Nella seconda fossa, lunga 21 metri e larga quasi 3, presero posto 159 corpi: 111 uomini identificati, 6 donne di cui solo 2 identificate, 42 uomini non identificati. Nella fossa numero 3, della stessa proporzione della precedente, vennero seppelliti 79 uomini non identificati ed 8 corpi senza numero perché smarrito nel trasporto. Nell’ultima fossa, lunga 18 metri e larga quasi 3, vennero sepolte 72 donne, di cui solo 16 identificate, oltre a 6 uomini non identificati.

La stessa Stampa pubblicò cifre diversissime tra loro. Per il “Corriere della sera”(6 marzo 1944) e per “La Stampa” (7 marzo 1944) i morti sarebbero stati 500, mentre 49 erano i ricoverati in ospedale. Le medesime cifre vennero riferite dal “Giornale d’Italia”del 7 marzo, mentre “La Gazzetta del Mezzogiorno” (7 marzo 1944) parlò di 509 vittime. Il quindicinale potentino “Il Gazzettino”, invece, l’8 marzo riferì di 549 morti, di cui 77 donne.

Ancora meno chiarezza regna sulle cause del disastro. Né servì molto il lavoro della “Commissione d’Inchiesta”, composta da esperti militari alleati per le ferrovie e da funzionari delle FF.SS. italiane, costituita “per investigare completamente e riferire sull’incidente”( Il Risorgimento del 7 marzo 1944), il quale arrivò alla seguente conclusione: la responsabilità del disastro era da attribuirsi alla cattiva qualità del carbone (6 tonnellate caricate sul carrello della locomotiva austriaca), anche se la pesante composizione del treno e la poco felice ubicazione delle due locomotive, entrambe in testa al treno, avevano contribuito alla sciagura.

Le conclusioni dell’inchiesta sono riferite da Nicola Raimo in un articolo pubblicato su Strade ferrate del novembre 1980 e riportato da Mario Restaino. L’autore riferisce anche che, in seguito all’incidente, la prestazione sulla linea delle locomotive 476 fu ridotta da 420 a 370 tonnellate, con tassativo divieto della doppia trazione e della spinta in coda. Venne stabilito, inoltre, un servizio di vigilanza ai due imbocchi della galleria, per la riconosciuta inefficienza della ventilazione naturale, fissando in 60 minuti l’intervallo minimo fra convogli con trazione a vapore. Secondo quanto riferito, invece, da Luigi Luccioni le due locomotive erano posizionate una in testa ed una in coda, per cui è molto probabile che i macchinisti tentarono iniziative opposte perché, dopo la tragedia, le locomotive furono trovate in questo modo: quella di testa, non frenata, con la leva di comando sulla retromarcia e quella di coda, frenata, con la leva di comando tutta spinta in avanti. Anche Gordon Gaskill (La misteriosa catastrofe del treno 8017 in “Le 33 storie che hanno commosso il mondo”, Selezione dal Reader’s Digest 1963) concorda con questa opposta posizione delle locomotive: “A quanto pare quando il treno si fermò, i due macchinisti la pensavano in modo fatalmente diverso sul da farsi”.

La cattiva qualità del carbone, dunque, oltre alla posizione delle due locomotive, sarebbero state causa e concausa della tragedia. Sulla qualità del carbone scrive il Luccioni: “Le caldaie delle due locomotive a vapore erano state caricate al massimo per fornire il più alto regime di potenza, il rifornimento di carbone era costituito da un tipo di combustibile, pare proveniente dalla Iugoslavia, di qualità scadente la cui imperfetta combustione faceva sprigionare elevate quantità di monossido di carbonio, un gas leggero ed inodoro ma estremamente tossico (è sufficiente un litro ogni duemila di aria per essere mortale) che legandosi in modo irreversibile alla emoglobina del sangue dà origine alla carbossiemoglobina, un composto che rende impossibile l’assorbimento dell’ossigeno e il suo utilizzo nell’organismo”.

Ma vi è un terzo elemento importante nella ricostruzione di tutta questa “strana” vicenda: i soccorritori trovarono i freni del treno completamente bloccati e fu necessario sbloccarli per trainare il convoglio nella stazione di Balvano (L’Europeo del 25 marzo 1956). Di questo particolare parla ampiamente Mario Restaino riportando le dichiarazioni di un testimone, Mario Motta, che era stato tra i primi a giungere sul luogo del disastro, il quale aveva parlato proprio di “sfrenamento” di 13 vagoni all’interno della galleria.

Poteva, dunque, delinearsi l’ipotesi di una rottura della condotta del freno continuo (quello direttamente azionato dalla locomotiva e costituito da una condotta che si componeva agganciando un veicolo all’altro) e ciò avrebbe anche spiegato il perché del blocco del treno che, nonostante la spinta delle locomotive, non riuscì a muoversi. Ma è Restaino stesso a scartare questa ipotesi poiché l’8017 non era munito di freno continuo ma, probabilmente, di un sistema “misto”, cioè in parte continuo ed in parte manuale. Il testimone riferì, inoltre, che le leve delle due locomotive erano nella posizione di retromarcia, mentre le ruote dei veicoli erano appiattite e sfaccettate, avendo perso la perfezione della circonferenza.

Ed ecco la conclusione del Restaino: “E’ facile fare due più due: le leve sono indietro, le due locomotive spingono per tornare fuori dalla galleria, ma i ceppi delle ruote sono serrate e la forza delle due macchine riesce solo a guastare le ruote, senza fare molti metri.” Il perché, poi, i ceppi fossero serrati è spiegato dal fatto che, molto probabilmente, i frenatori pensarono che il treno si fosse spezzato e, secondo il regolamento, azionarono i freni per non farlo scivolare indietro.

Ma, nonostante ogni tentativo di spiegazione, non sappiano con certezza come veramente si svolsero i fatti: chi sbagliò? I frenatori? O chi diede loro un ordine sbagliato? O quest’ultimo fu male interpretato? Oppure accadde qualcosa che nessuno ha mai ipotizzato? Nessuno può dare risposte sicure e quel disastro resta avvolto nel mistero.
 


Riferimenti bibliografici:
 

“CORRIERE DELLA SERA” del 6 marzo 1944.
“FAMIGLIA CRISTIANA” del 4 marzo 1979.
“LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO” del 7 marzo 1944.
“IL GAZZETTINO” dell’8 marzo 1944.
“IL GIORNALE D’ITALIA” del 7 marzo 1944.
“L’EUROPEO” del 25 marzo 1956.
“IL RISORGIMENTO” del 7 marzo 1944.
“LA STAMPA” del 7 marzo 1944.
GASKILL GORDON, La misteriosa catastrofe del treno 8017 in: “Le 33 storie che hanno commosso il mondo”, Selezione dal Reader’s Digest 1963.
LUCCIONI LUIGI, Frammenti di cronache e ricordi, Congedo Editore, Potenza 1993.
RESTAINO MARIO, Un treno, un’epoca: storia dell’8017, Arti Grafiche Vultur, Melfi 1994.

 

 

 

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