N. 91 - Luglio 2015
(CXXII)
Totila, re dei Goti
Istruttoria su una secolare demonizzazione - PARTE I
di Anna Bozzetto
«Noi
(storici)
siamo
dei
giudici
istruttori
incaricati
d’una
vasta
inchiesta
sul
passato.
Come
i
nostri
confratelli
del
Palazzo
di
Giustizia,
raccogliamo
testimonianze
con
l’aiuto
delle
quali
cerchiamo
di
ricostruire
la
realtà».
Con
queste
parole,
l’illustre
Marc
Bloch
ha
paragonato
il
lavoro
dello
storico
a
quello
del
giudice
istruttore.
Entrambi
devono
infatti
esaminare
resoconti
di
eventi
a
cui
non
hanno
assistito
e
valutarne
l’attendibilità.
Tendendo
presente
questa
efficace
similitudine,
possiamo
passare
a un
vaglio
critico
le
testimonianze
contraddittorie
su
Totila
re
dei
Goti,
il
perfidus
rex
dei
Dialoghi
gregoriani
e il
nefandissimus
della
Pragmatica
Sanctio
giustinianea.
Procopio
di
Cesarea:
“La
Guerra
Gotica”
Secondo
la
testimonianza
di
Procopio
di
Cesarea,
intellettuale
della
corte
bizantina
e
cronista
contemporaneo
alla
Guerra
Gotica,
Totila
si
affacciò
alla
Storia
nell’autunno
del
541.
Dopo
la
resa
di
Vitige
e
l’assassinio
di
Ildebado
(zio
paterno
di
Totila),
l’aristocrazia
guerriera
del
suo
popolo
lo
scelse
come
sovrano
sperando
in
una
riscossa.
Il
sovrano
ottenne
dei
successi
militari,
ma
preferiva
le
trattative
agli
scontri
in
campo
aperto.
Procopio
riporta
vari
atti
di
cavalleresca
magnanimità
compiuti
da
Totila.
Quando
nel
543
espugnò
la
piazzaforte
di
Cuma,
il
re
goto
ebbe
cura
che
il
suo
esercito
non
facesse
alcuna
violenza
alle
mogli
dei
senatori
che
si
trovavano
là.
Si
guadagnò
così
con
tale
comportamento
«fama
di
saggezza
e
umanità».
Nello
stesso
anno
conquistò
Napoli,
i
cui
abitanti
si
arresero
dopo
un
logorante
assedio.
Al
suo
ingresso
in
città,
sfamò
la
popolazione
stremata.
Si
curò
persino
di
far
nutrire
gradualmente
gli
affamati
perché
non
avessero
danni
da
eccesso
di
cibo
dopo
prolungati
digiuni.
Una
simile
empatia
verso
i
propri
nemici
è un
evento
così
eccezionale
a
quell’epoca
che
Procopio
di
Cesarea
rimase
allibito:
non
si
sarebbe
mai
aspettato
una
simile
generosità
da
un
barbaro.
In
quella
stessa
occasione,
Totila
consentì
ai
soldati
nemici
comandati
da
Conone
di
ritirarsi
via
mare,
ma
una
tempesta
li
bloccò
sul
porto.
Conone
e i
suoi
uomini
temettero
che
i
Goti
li
attaccassero
a
tradimento.
Il
re
lo
seppe
e
rinnovò
loro
le
sue
promesse.
Dopo
diversi
giorni,
il
vento
contrario
impediva
ancora
la
navigazione.
Allora,
il
contingente
nemico
dovette
ritirarsi
via
terra
e
Totila
lo
rifornì
addirittura
di
provviste
per
il
viaggio,
di
cavalli
e di
bestie
da
tiro.
Probabilmente
il
trattamento
generoso
riservato
alla
città
fu
dovuto
al
fatto
che
essa
resistette
alle
truppe
di
Belisario
nell’anno
535.
Totila
punì
senza
remore
un
suo
soldato
che
aveva
violentato
una
ragazza.
Il
padre
della
fanciulla,
un
cittadino
romano,
si
era
presentato
da
lui
per
denunciargli
il
fatto.
Il
re
ordinò
d’incarcerare
il
soldato.
I
suoi
comandanti
gli
chiesero
di
perdonare
il
misfatto
perché
si
trattava
di
un
guerriero
valoroso.
Totila
rispose:
«Non
è
possibile
che
un
uomo
che
si è
macchiato
compiendo
un
atto
di
violenza
acquisti
gloria
in
combattimento!».
E il
soldato
ricevette
un
castigo
esemplare:
il
re
lo
fece
giustiziare
e
assegnò
alla
ragazza
i
beni
del
colpevole
a
titolo
di
risarcimento.
Procopio
di
Cesarea
ci
racconta
anche
della
pietà
dimostrata
da
Totila
quando
conquistò
Roma,
nell’anno
546.
Innanzitutto,
proibì
ai
suoi
soldati
d’inseguire
i
Bizantini
fuggiaschi.
Disse
loro:
«Cosa
ci
può
essere
di
più
piacevole
per
un
uomo
che
un
nemico
in
fuga?».
Poi
andò
a
pregare
nella
basilica
di
San
Pietro,
come
già
aveva
fatto
nell’anno
500
il
suo
predecessore
Teodorico.
I
Goti
entrarono
nella
città
e si
rischiò
un
massacro.
Così,
il
diacono
Pelagio
andò
a
supplicare
Totila
nella
basilica
chiedendo
pietà
per
la
popolazione.
Il
re
lo
ascoltò.
Ordinò
ai
suoi
uomini
di
non
infierire
più
su
nessuno
e
protesse
anche
Rusticiana,
vedova
di
Boezio:
i
Goti
accusavano
la
donna
di
aver
finanziato
l’esercito
bizantino
e di
aver
distrutto
alcune
statue
di
Teodorico
per
vendicare
la
morte
del
coniuge.
Volevano
giustiziarla,
ma
Totila
non
permise
alcuna
vendetta
su
di
lei
né
alcun
oltraggio
nei
confronti
delle
altre
donne.
A
quel
punto,
Totila
voleva
concludere
la
guerra.
Inviò
un’ambasceria
a
Giustiniano
con
una
missiva
in
cui
proponeva
all’imperatore
la
stessa
pacifica
collaborazione
che
c’era
stata
un
tempo
fra
Teodorico
e
Anastasio.
Il
re
dei
Goti
concluse
la
lettera
con
questa
frase:
«Se
desideri
(la
pace),
sarai
considerato
da
me
come
un
padre
e
potrai
servirti
di
me
come
alleato
contro
chiunque
vorrai».
Giustiniano
respinse
l’ambasceria.
Non
considerava
Totila
un
leader
degno
di
trattare
con
lui,
ma
un
usurpatore
e un
eretico.
Così
rispose
ai
messaggeri
goti
di
andare
a
trattare
con
Belisario,
il
generale
a
cui
aveva
affidato
la
conduzione
della
guerra.
Umiliato
da
quella
risposta,
Totila
minacciò
di
radere
al
suolo
Roma.
Belisario
lo
dissuase.
Gli
scrisse
che
compiendo
un’azione
del
genere,
avrebbe
coperto
il
suo
nome
d’infamia
per
tutti
i
secoli
a
venire.
Diverse
città
italiane
caddero
in
mano
a
Totila
in
modo
incruento.
Procopio
ci
riferisce
che
Totila
prese
Fermo
e
Ascoli
per
capitolazione,
che
Erodiano,
comandante
della
guarnigione
di
Spoleto,
gli
consegnò
la
città
per
uno
screzio
con
Belisario
e
che
Assisi
gli
fu
ceduta
dagli
abitanti,
sfibrati
dall’assedio.
Anche
gli
assediati
nella
fortezza
di
Rossano
si
arresero
a
lui.
In
quel
caso,
solo
uno
dei
comandanti
nemici
fu
ucciso
perché
non
aveva
mantenuto
la
parola
data.
Quelli
che
non
passarono
dalla
parte
dei
Goti
furono
lasciati
liberi
di
andarsene
perché
Totila
«non
voleva
che
nessuno
al
mondo
si
mettesse
ai
suoi
ordini
contro
voglia».
La
popolazione,
pur
privata
dei
suoi
averi,
non
ricevette
alcuna
violenza
fisica.
Procopio
ci
racconta
infine
la
morte
di
Totila
nella
battaglia
di
Busta
Gallorum
(luglio
552)
che
vide
vincitore
il
generale
bizantino
Narsete.
Il
re
dei
Goti,
che
a
Roma
si
era
rifiutato
d’inseguire
i
nemici
in
fuga,
fu
inseguito
durante
la
sua
ritirata
da
un
drappello
di
mercenari
e
gravemente
ferito
da
uno
di
essi
con
un
colpo
di
lancia
alle
spalle.
Riuscì
a
cavalcare
fino
al
villaggio
di
Caprae,
dove
morì
poco
dopo.
I
suoi
uomini
lo
seppellirono
in
una
tomba
senza
nome,
in
seguito
profanata
dai
Bizantini
per
accertare
l’identità
del
defunto.
Procopio
si
rammarica
per
una
fine
così
tragica
e, a
suo
parere,
immeritata:
«La
fine
che
gli
toccò
non
fu
degna
delle
sue
passate
imprese
perché
prima
ogni
iniziativa
gli
era
andata
a
buon
fine
e la
morte
non
coronò
i
suoi
meriti.
Anche
questa
volta
il
destino
mostrò
chiaramente
di
volersi
divertire
beffandosi
dell’umanità
e
dando
una
dimostrazione
di
quanto
siamo
illogiche
e
imprevedibili
le
sue
decisioni».
Quindi,
nell’ottica
di
Procopio,
nessun
castigo
divino
per
il
male
commesso
si è
abbattuto
su
Totila,
come
è
sottinteso
nella
profezia
attribuita
da
Gregorio
Magno
al
monaco
Benedetto:
il
valoroso
nemico,
la
cui
morte
miserevole
è
indegna
dei
suoi
meriti,
è
solo
la
vittima
dell’irrazionalità
di
un
destino
che
gioca
con
le
vite
degli
esseri
umani.
Ora
bisogna
chiedersi
se
Procopio
sia
o no
un
testimone
attendibile
quando
riporta
le
azioni
magnanime
di
Totila,
tenuto
conto
che
in
quel
periodo
non
era
in
Italia
al
seguito
dell’esercito
bizantino.
Seguì
infatti
Belisario
solo
fino
alla
presa
di
Ravenna
e
alla
resa
di
Vitige
nell’anno
540.
Per
quanto
si
tenda
a
valutare
con
cautela
le
testimonianze
de
relato,
si
possono
evidenziare
alcuni
elementi
a
favore
di
una
buona
dose
di
attendibilità.
Innanzitutto,
Procopio
va
contro
i
suoi
interessi
a
mostrare
Totila
come
un
avversario
dotato
di
umanità
e
saggezza.
Avrebbe
potuto
assecondare
Giustiniano
e la
corte
imperiale
dipingendolo
a
tinte
fosche.
L’Imperatore,
infatti,
detestava
Totila:
il
re
goto
non
era
imparentato
con
la
dinastia
Amala
di
Teodorico,
quindi
reputava
la
sua
incoronazione
un
mero
atto
di
ribellione
dei
Goti.
E lo
vedeva
come
un
usurpatore
privo
di
ogni
legittimazione
a
regnare,
quindi
come
un
nemico
con
cui
non
venire
a
compromessi
e a
cui
muovere
una
guerra
di
annientamento.
Fu
per
questo
che
l’Imperatore
respinse
le
varie
ambascerie
di
pace
inviategli
da
Totila.
In
secondo
luogo,
nell’opera
di
Procopio
troviamo
anche
situazioni
in
cui
Totila
punì
con
mano
forte
e i
Goti
commisero
violenze.
Ad
esempio,
Totila
mise
a
morte
il
bizantino
Isace
che
gli
aveva
ucciso
l’amico
Roderico.
Perché
fece
questo?
Perché
la
sua
bontà
era
solo
una
facciata,
mentre
la
sua
vera
indole
era
malvagia,
come
si
potrebbe
sospettare?
Per
evitare
giudizi
antistorici,
bisogna
tener
presente
che
vendicare
un
amico
era
un
punto
d’onore
per
un
capo
barbarico
(riguardo
al
legame
tra
compagni
d’armi
nei
popoli
barbarici
si
veda
F.
Cardini,
Alle
radici
della
cavalleria
medievale,
Milano,Sansoni,
2004,
p.113:
vendicare
il
compagno
caduto
in
battaglia
era
un
dovere
del
sopravvissuto).
Procopio
ci
riferisce
che
i
Goti
mozzarono
la
lingua
e le
mani
al
governatore
romano
di
Napoli
che
aveva
pubblicamente
insultato
Totila.
Anche
questo
castigo
s’inquadra
nel
concetto
d’onore
dei
popoli
barbarici:
la
comunità
dei
guerrieri
aveva
il
dovere
di
punire
le
offese
al
proprio
capo.
L’ordine
di
mutilare
il
presule
Valentino
si
colloca
poi
in
un
contesto
particolare.
L’uomo
fu
catturato
in
una
nave
carica
di
provviste
per
l’esercito
nemico
e
accusato
di
mentire
nel
corso
di
un
interrogatorio
su
qualcosa
che
Totila
riteneva
di
vitale
importanza
(e
su
cui
Procopio
tace).
Procopio
riporta
infine
che
l’esercito
dei
Goti
irruppe
nottetempo
a
Tivoli
(le
cui
porte
furono
aperte
dagli
stessi
soldati
romani),
saccheggiò
la
città
e
uccise
chiunque
vi
trovò.
Ma
non
attribuisce
il
sacco
di
Tivoli
a un
ordine
di
Totila.
Infatti,
era
frequente
che
bande
di
mercenari
militanti
negli
eserciti
commettessero
violenze
a
prescindere
dagli
ordini
del
loro
condottiero.
Nel
536,
quando
Belisario
espugnò
Napoli,
i
mercenari
Massageti
gli
sfuggirono
di
mano
e
nella
smania
del
saccheggio
massacrarono
civili
persino
all’interno
delle
chiese.
E
Procopio
non
ne
fa
mistero.
Per
di
più,
nel
545
erano
presenti
nell’esercito
di
Totila
molti
soggetti
smaniosi
di
far
razzia:
schiavi
sfuggiti
ai
padroni
romani
e
disertori
passati
dalle
fila
di
Belisario
a
quelle
dei
Goti
perché
non
ricevevano
le
paghe.
È
improbabile
che
Totila
abbia
ordinato
il
massacro
di
Tivoli
a
scopo
intimidatorio
verso
Roma.
Spargere
il
terrore
non
era
infatti
nei
suoi
intenti
politici.
Nelle
lettere
che
cercò
di
far
recapitare
ai
senatori
romani
dopo
la
conquista
di
Napoli,
si
presentò
loro
come
un
liberatore
dall’esoso
governo
dei
Bizantini
e,
dopo
averli
rimproverati
per
l’ingratitudine
dimostrata
ai
Goti,
si
dichiarò
disposto
a
perdonarli
per
essere
passati
dalla
parte
di
Belisario,
qualora
gli
avessero
consegnato
Roma.
Promise
inoltre
che
non
avrebbe
mai
recato
offesa
ad
alcun
cittadino
romano.
Pertanto,
non
avrebbe
avuto
alcun
senso,
dal
punto
di
vista
politico,
mostrarsi
subito
dopo
come
un
nemico
spietato
a
cui
non
conveniva
aprire
le
porte
della
propria
città.
L’opera
di
Procopio
di
Cesarea
non
è
poi
l’unica
fonte
che
riporta
la
benevolenza
di
Totila.
Nel
Liber
Pontificalis
è
scritto
che,
durante
la
presa
di
Roma,
il
sovrano
consentì
la
fuga
degli
abitanti
facendo
suonare
le
trombe
per
tutta
la
notte
che
precedette
l’ingresso
dell’esercito
goto
in
città
(Vita
Vigili,
7,
107).
Nello
stesso
passo
si
legge
che
Totila
abitò
coi
Romani
come
un
padre
con
i
figli:
habitavit
cum
romanis
quasi
pater
cum
filiis.
La
clemenza
di
un
nemico,
per
di
più
eretico
e
barbaro,
dovette
essere
un
evento
così
straordinario
da
suscitare
un
certo
scalpore.
Quindi
è
plausibile
che
le
notizie
del
comportamento
umano
di
Totila
siano
giunte
a
Procopio
da
resoconti
di
ambasciatori
o
militari.
Infine,
Procopio
di
Cesarea
non
tace
i
saccheggi
e i
soprusi
compiuti
da
soldati
e
ufficiali
dell’esercito
bizantino
ai
danni
degli
Italiani,
i
quali
«venivano
depredati
dei
loro
beni
personali
e
inoltre,
capitava
loro
di
subire
violenze
e
persino
di
essere
uccisi
senza
alcun
motivo».
Quindi,
in
questo
contesto,
sembra
essere
una
fonte
imparziale.
Non
c’è
nella
sua
opera
un
vero
e
proprio
intento
celebrativo
di
Totila.
Il
re
dei
Goti
è
descritto
come
un
avversario
valoroso
e
magnanimo,
ma
non
c’è
niente
di
sospetto
in
questo:
anche
Cesare
nel
De
Bello
Gallico
riconosce
il
valore
e la
grandezza
d’animo
del
suo
nemico
Vercingetorige.
Se è
vero
che
il
giudizio
benevolo
di
Procopio
verso
Totila
può
essere
stato
influenzato
da
un’antipatia
dell’Autore
verso
Narsete,
rivale
del
suo
“eroe”
Belisario,
è
anche
vero
che
Narsete
intervenne
nella
campagna
militare
contro
Totila
solo
alla
fine
del
550
e
che
i
più
eclatanti
gesti
di
clemenza
del
re
goto
raccontati
da
Procopio
risalgono
a
quando
combatteva
contro
Belisario.
Totila
nei
Dialoghi
di
Gregorio
Magno
Nei
Dialoghi
di
Gregorio
Magno,
scritti
attorno
al
594,
Totila
compare
come
un
anticristo,
un
simbolo
del
Male,
contrapposto
a
vari
uomini
di
Chiesa,
personificazioni
del
Bene.
Dopo
il
plateale
turbamento
per
i
rimproveri
e la
profezia
di
morte
ricevuti
da
San
Benedetto
(Dialoghi
2,14),
il
sadismo
e la
crudeltà
di
Totila
si
placano
solo
per
poco.
Infatti,
subito
dopo,
il “perfidus
rex”
getta
a un
orso
il
vescovo
Cerbonio
che
però
ammansisce
la
belva
(Dialoghi
3,11)
e
lega
sotto
il
sole
il
vescovo
Fulgenzio,
ma
un
temporale
si
abbatte
sull’esercito
e
bagna
tutti
eccetto
il
religioso
(Dialoghi
3,12).
Pur
non
essendo
presente
all’assedio
di
Perugia,
ordina
a un
generale
di
scorticare
vivo
e
decapitare
Ercolano,
il
vescovo
della
città.
Il
generale
esegue
l’ordine,
ma
la
testa
e la
pelle
di
Ercolano
si
riattaccano
al
cadavere
rimasto
intatto
per
quaranta
giorni
(Dialoghi
3,13).
Il
dibattito
sull’attribuzione
o
meno
dei
Dialoghi
a
Gregorio
Magno
è
annoso.
Alcuni
storici
li
hanno
considerati
un’opera
spuria
per
la
sua
bassa
espressione
stilistica,
inadatta
a un
erudito
del
livello
di
Gregorio
Magno.
Vinay
considera
i
Dialoghi
un’opera
letteraria
di
Gregorio
Magno
e
rinunzia
pertanto
a
ogni
pretesa
di
attendibilità
storica.
Detto
questo
in
generale,
occorre
premettere
che
Gregorio
Magno
proveniva
da
una
famiglia
dell’aristocrazia
senatoria.
E
l’aristocrazia
senatoria
si
vide
espropriata
dei
suoi
latifondi
dalla
riforma
agraria
di
Totila.
Il
sovrano,
al
suo
ingresso
in
Roma
nel
dicembre
del
546,
accusò
poi
i
senatori
d’ingratitudine
per
le
loro
posizioni
filoimperiali
e li
spogliò
delle
loro
prerogative
con
dure
parole:
«Vi
siete
ridotti
al
rango
di
schiavi».
Non
meraviglia
quindi
l’avversione
di
Gregorio
Magno
verso
il
re
dei
Goti,
già
colpevole
di
essere
un
eretico.
Ma è
lo
stesso
impianto
affabulatorio
a
confinare
i
racconti
su
Totila
contenuti
nei
Dialoghi
nel
territorio
della
leggenda.
L’ammansirsi
della
belva
davanti
al
cristiano
condannato
a
essere
divorato
nell’arena
è un
topos
letterario
che
compare
in
numerosi
racconti
di
martiri
risalenti
all’età
romano-imperiale.