[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

194 / FEBBRAIO 2024 (CCXXV)


contemporanea

3 agosto 1944

SULLA Strage in toscana, della famiglia Einstein

di Francesco Cappellani


Uno degli ultimi e più brutali assassini compiuto dalle truppe naziste ormai in ritirata dall’Italia centrale, inutile e gratuito, fu quello compiuto la sera del 3 agosto 1944 da alcuni soldati della Wehrmacht, che uccisero con una raffica di mitra la moglie e le due figlie di Robert Einstein, cugino dello scienziato Albert, nella loro villa padronale “Il Focardo” in località Troghi a Rignano sull’Arno a circa 15 chilometri da Firenze.

 

Questa dimora, dotata di una vasta tenuta circostante, apparteneva, fin dal 1937, a Robert che vi trascorreva l’estate con la sua famiglia composta dalla moglie bergamasca Agar Cesarina (Nina) Mazzetti, sposata a Roma nel 1913 e le due figlie Luce Edith, nata a Monaco nel 1917 e Anna Maria nata a Roma nel 1926. A questo nucleo familiare si erano aggiunte due nipoti gemelle, Lorenza e Paola, nate nel 1927, figlie di un fratello di Nina, rimaste orfane.

 

Robert era cugino di primo grado di Albert Einstein in quanto figlio di un fratello, Jacob, di Hermann, padre dello scienziato. I due fratelli gestivano una ditta attiva nel campo dell’illuminazione a gas, che tentarono di estendere all’illuminazione elettrica, allora agli albori, ma senza successo. La ditta fallisce e i due fratelli con le rispettive famiglie, grazie a un amico torinese, l’ingegner Garrone, impegnato nell’elettrificazione di alcune città del Nord Italia, fondano nel 1895 a Pavia la “Einstein, Garrone & Co. Officine Elettrotecniche Nazionali” per la realizzazione di impianti elettrici.

 

Nuovo fallimento e successivo trasferimento nel 1896 a Milano per aprire una società per la realizzazione di dinamo e macchinari elettrici. La famiglia di Albert abita in via Bigli 21 nel palazzo Olivazzi poi Trivulzio; nello stesso anno Albert si iscrive al Politecnico di Zurigo. Robert frequenta la IV ginnasio al “Parini” nel 1897/1898 e si laurea poi in ingegneria elettrotecnica a Monaco dove apre una fabbrica per la costruzione di apparecchi radiofonici.

 

Nel 1933, all’avvento del nazismo, Albert Einstein lascia Berlino, dove dirigeva il Kaiser Wilhelm Institute, ed emigra negli Stati Uniti a Princeton; dopo qualche anno molti suoi parenti abbandonano la Germania ormai in preda alla crescente ondata di antisemitismo che stava dilagando nel Terzo Reich di Hitler. Robert è costretto a chiudere la sua attività in Germania; da sempre innamorato dell’Italia, si era già trasferito a Roma con la famiglia prima della nascita della figlia Anna Maria, e allora, dovendo forzosamente lasciare la sua Baviera, decide di stabilirsi nel Bel Paese.

 

Acquista una fattoria vicino a Perugia e poi prende casa a Firenze e compra nel 1937 la tenuta del “Focardo” a Rignano sull’Arno come fattoria e villa per trascorrervi l’estate. Dal 1943 diviene la sede definitiva di tutta la famiglia che aveva lasciato il capoluogo per sfuggire ai bombardamenti alleati sempre più frequenti dopo l’armistizio dell’8 settembre e l’occupazione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco. Nella villa, in quegli anni del conflitto, erano ospitate anche Seba, sorella di Nina, e Anna Maria, figlia di Ada, altra sorella di Nina.

 

Negli anni precedenti la guerra il Focardo era frequentato da molti intellettuali e amici, come i pittori Gino Severini e Giacomo Balla, la figlia di Thomas Mann e Maya, la sorella di Albert Einstein, che viveva dal 1922 a Sesto Fiorentino, vicino a Firenze, col marito, il pittore Paul Winteler la cui sorella aveva sposato Michele Besso, fraterno amico di una vita di Albert Einstein. Maya lascerà l’Italia nel 1939 a seguito delle leggi razziali per unirsi al fratello a Princeton.

 

Nella villa veniva sovente il precettore spirituale delle figlie di Robert, valdesi come la mamma, il pastore valdese Tullio Vinay e anche Don Giuseppe Angoloni, parroco della vicina chiesa di Santo Stefano, nonché molte altre persone della zona tra cui probabilmente anche alcune legate alla resistenza partigiana. Il parroco ricorda che «nonostante l’ingegner Robert fosse ebreo e gli altri valdesi tutte le domeniche celebravo l’ultima S. Messa nella bella cappella della fattoria, per comodità dei contadini di quella zona dato che, fin dall’inizio, il proprietario aveva chiesto che nulla cambiasse delle abitudini religiose» (Lembo 2012).

 

I primi anni di guerra erano trascorsi sereni per la famiglia Einstein malgrado le persecuzioni razziali e le restrizioni alimentari che però negli anni iniziali del conflitto erano ancora sopportabili; la situazione peggiorò drasticamente dopo l’armistizio dell’8 settembre quando la provincia di Firenze venne occupata dalle truppe del maresciallo Kesselring e la Toscana, con l’avanzata delle armate angloamericane dal Sud Italia, si andava trasformando in una zona di intensa attività bellica.

 

Nel novembre del 1943 una divisione della Wehrmacht si accampa nel Focardo e requisisce la villa installandovi il suo quartier generale relegando gli abitanti in una attigua fattoria del complesso colonico. Malgrado i tedeschi sapessero che Robert fosse ebreo, la famiglia non è infastidita, anzi, come racconterà Lorenza Mazzetti, una delle nipoti scampata alla strage, «si respirava un’aria stranamente gradevole. Ci sentivamo un’aristocrazia al riparo dalla tempesta. Gli ufficiali erano gentili. Le interminabili partite a scacchi. E la musica: Mozart e Beethoven. Poi, quando il comando cominciò a partire, qualcuno avvertì lo zio che i tedeschi lo avrebbero arrestato. Non voleva crederci né lasciarci. Ma alla fine decise di fuggire e di nascondersi nel bosco. La villa si era svuotata» (Gnoli 2014).

 

Alcuni partigiani attivi nella zona avevano convinto Robert a passare alla macchia dopo che alcune SS erano comparse nella tenuta per ricercarlo. La moglie e le figlie erano rimaste in villa convinte che, essendo cattoliche come gli altri parenti alloggiati, non correvano alcun rischio, e inoltre, presidiando la loro dimora, l’avrebbero protetta da una eventuale razzia da parte dei nazisti. I mesi quasi irreali di convivenza con gli ufficiali nazisti saranno raccontati mirabilmente da Lorenza nel libro Il cielo cade (Garzanti 1961) fino al tragico epilogo del 3 agosto 1944, l’ultimo giorno di permanenza a Rignano della Wehrmacht che abbandonerà in nottata il paese ripiegando definitivamente verso nord. Il libro, scritto da Lorenza per superare una profonda crisi depressiva dovuta al riemergere del ricordo della tragica mattanza della sua famiglia adottiva vissuto da ragazza, ottiene il Premio Viareggio nel 1962, nel 2000 è il soggetto di un film con Isabella Rossellini e nel 2002 viene ripubblicato da Sellerio.

 

Negli ultimi giorni del mese di luglio e i primi di agosto 1944 nei dintorni della villa vi fu un continuo movimento di truppe tedesche che si apprestavano a lasciare quella zona della toscana pressati dall’avanzata delle truppe alleate in Valdarno. Il 3 agosto giunsero alcuni militari che, come dimostrato dallo storico Carlo Gentile (Gentile 2005, Gentile 2022), appartenevano alla XV divisione del 104° Reggimento di Granatieri Corazzati “Panzergrenadier” della Wehrmacht al comando del generale Eberhart Rodt e non alle SS come si riteneva, una formazione già segnalata nell’area in quei giorni dopo essersi resa responsabile di altri episodi di violenza contro i civili.

 

Un reparto di soldati si reca verso le 19 nella fattoria dove le sette donne, la moglie e le due figlie di Robert, le gemelle Mazzetti e altre due parenti, si preparavano per la notte, chiedono a Cesarina del marito e, avuti i nomi di tutte le donne, conducono le prime tre nella villa che viene perquisita attentamente trovando, sembra, del materiale compromettente che testimonierebbe contatti con i partigiani e gli alleati.

 

Cesarina subisce un violento interrogatorio «dopo il quale fu accompagnata più volte al limite dei boschi circostanti per chiamare ripetutamente il marito che i tedeschi immaginavano nei dintorni. L’ingegnere era combattuto, ma si fece convincere dai partigiani che si trattava di un tranello e restò nascosto» (Lembo 2012). Alla fine del processo farsa, Cesarina e le due figlie, accusate di spionaggio col nemico e possesso di esplosivi, vengono condannate a morte: portate nel salone vengono uccise con una raffica di mitra. Sono invece rilasciate le altre donne oltre al fattore Orlando Fuschiotti con la sua famiglia e altri coloni rinchiusi precedentemente. Al tenente tedesco che le libera, Seba Mazzetti sente pronunciare la frase «giustizia è fatta e i traditori sono puniti».

 

I tedeschi, dopo la strage, appiccano il fuoco alla villa e si allontanano. Lasciano, nel cortile della villa, il seguente biglietto: «Il comando tedesco rende noto: la famiglia Einstein si è resa colpevole di spionaggio. Essa mantiene costantemente contatto con gli alleati nemici. La famiglia è stata passata alla fucilazione il giorno 3 agosto. Il comandante».

 

Robert, uditi gli spari e intravedendo l’incendio, si precipita verso la villa. «Apparve improvvisamente, allarmato dalle fiamme. Lo vedemmo correre mentre il camion dei tedeschi si allontanava. I contadini lo fermarono. Sembrava fuori di sé. Implorava che gli dessero una pistola. Piangeva. Voleva morire. Lo condussero in quel che restava della villa. Lo calmarono. Il medico prescrisse psicofarmaci» (Gnoli 2014).

 

Le testimonianze dell’accaduto, raccolte da persone che avevano assistito ai fatti e conoscevano i protagonisti della tragica vicenda, aggiungono altri particolari su un crudele massacro assurdo in quanto non connesso in alcun modo con le operazioni militari in corso da parte di truppe ormai in ritirata per una guerra irrimediabilmente perduta. Tutti i testimoni parlano di soldati delle SS come autori dell’assassinio ma, come già detto, sarà accertato molti anni dopo trattarsi di un reparto di Panzergrenadier.

 

Nello Dini, allora diciassettenne, nascosto nei boschi con Robert, vede l’arrivo dei soldati la sera nella villa e racconta: «Poi, verso le dieci, due SS uscirono dalla villa e vagarono per i campi, con la signora in mezzo a loro. “Roberto, Roberto, Roberto” le facevano gridare, e la sua voce nel silenzio della notte arrivava fino a noi come se fossero lì a pochi metri. “Vado, vado” diceva l’ingegnere. Il suo fattore, io e gli altri lo tenevamo fermo. “Non era d’accordo con la signora che non si sarebbe mosso, neppure se l’avessero costretta a chiamarlo?”, gli chiedevamo (…) Dalla finestra della villa si vedeva una piccola luce nel salone, poi anche in un’altra stanza. Dopo quasi un’ora le SS tornarono dentro con la signora. Trascorsero quindici minuti, quasi mezz’ora, poi il crepitio del mitra dentro la casa. Cinque minuti ancora e si alzarono alte le fiamme. Mentre la casa bruciava i Tedeschi, in cerchio, sparavano raffiche di mitra. Tra mezzanotte e mezzo e l’una partirono, sempre sparando. I contadini e il fattore cercarono invano di spegnere le fiamme e di farsi largo tra queste per raggiungere i cadaveri delle tre donne. La signora Nina Einstein Mazzetti di 56 anni e le sue due figliole, Luce di 27 e Cicì [Anna Maria] di 18, furono ritrovate tutte e tre insieme, come se prima di cadere... si fossero abbracciate // L’ingegner Einstein dopo i colpi di mitra, mentre i nazisti sparavano attorno al giardino della villa in fiamme, era riuscito a divincolarsi dalla stretta del suo fattore e si era messo a correre e a gridare: “Sono io Robert Einstein, quello che cercate per uccidere”. Tornò dopo quattro giorni. Disse di aver rincorso i Tedeschi, di averli trovati, di avere chiesto loro di ucciderlo. Era un uomo finito, impazzito per il dolore, senza alcuna volontà di vivere. Passava intere giornate nel piccolo cimitero fra i campi della Badiuzza dove la moglie e le figlie erano sepolte. Neppure un anno dopo, durante una delle interminabili visite e dei lunghi soliloqui con le sue donne, si uccise. Albert Einstein aveva fatto diversi tentativi perché lo raggiungesse in America: aveva sempre rifiutato dicendo che voleva restare vicino alla sua Nina, a Luce, a Cicì…».

 

Robert si suicidò il 13 luglio 1945, anniversario del suo matrimonio con Nina, nella stessa sala dove erano morte le sue donne, ingerendo una dose letale di sonniferi, disperato e stremato per il rimorso di essere sopravvissuto alla sua famiglia e profondamente deluso perché i responsabili dell’eccidio non erano stati trovati. Aveva annunciato la sua morte al fattore Fuschiotti in una lettera del 30 giugno 1945: «Caro Orlando, mi dispiace che con la mia morte devo recarti non soltanto un dolore, ma anche tanti fastidi. Ma preferisco morire anch’io al “Focardo”, dove hanno sofferto il martirio i miei, e desidero essere sepolto quanto più vicino possibile a loro. Ti prego di provvedere una cassa di zinco affinché senza troppe difficoltà sia poi possibile la traslazione di tutte quattro le salme al cimitero di Roma. Lascio il “Focardo” a Paola e Lori, certo che farai del tuo meglio per amministrare la proprietà nel loro interesse // Ti chiedo scusa se qualche rara volta sono stato un po’ rude, ti prego di salutare tutti i contadini che mi sono stati amici e ti abbraccio affettuosamente. Roberto Einstein».

 

Testimonianza di Elio Salmon sfollato all’epoca in una casa colonica della zona: «Pare che la ricerca [dei militari tedeschi] al “Focardo” fosse dovuta a qualche spiata e limitata alla sola persona dell’ingegner Einstein, che era rimasto sinora anche troppo sicuro a casa sua, nonostante il continuo passaggio di Tedeschi // L’ingegner Einstein, ebreo tedesco (…) aveva preso troppa confidenza con i Tedeschi (…) allontanandosi da casa solo quando le SS erano venute a cercarlo tempo fa, poco prima che arrivasse alla loro villa un grosso comando tedesco. La moglie e le figlie erano invece rimaste in casa e avevano ricevuto piena assicurazione dagli ufficiali del comando stesso, tanto più che erano considerate ariane. Invece, appena partito questo comando, giovedì della settimana scorsa, le SS erano tornate reclamando vivamente la consegna dell’ingegnere che era sempre nascosto nelle vicinanze; e poiché quello non arrivava, quei bruti hanno chiuso in una stanza la moglie e le figlie, e in un’altra gli altri famigliari e vari contadini, ai quali hanno consegnato un foglietto dattiloscritto in cui era dichiarato che la famiglia Einstein era stata riconosciuta rea di spionaggio e connivenza col nemico e quindi fucilata. Mentre leggevano hanno udito degli spari nella stanza vicina: la sentenza era stata eseguita, e quella era la scusa per giustificare il loro misfatto! L’ingegnere, quasi impazzito, appena saputa la cosa era scappato con l’intenzione di consegnarsi anche lui ai Tedeschi per farsi ammazzare».

 

Testimonianza di don Giuseppe Agnoloni, parroco di Santo Stefano alle Corti di Moriano, presso il “Focardo”: «Il 13 agosto 1944 alle undici [di sera] (…) vidi con grande stupore la villa del “Focardo” che bruciava con grandi fiamme (…) La vista dell’incendio mi procurò un grande sgomento. Ma non immaginavo l’eccidio orribile, che seppi la mattina seguente. Passai tutta la notte in campanile, solo, tremando e pregando. Da ogni parte si sentivano cannonate, scoppi, spari e rumori di truppe che passavano. La mattina, verso le cinque, sentii bussare violentemente alla porta, andai al piano superiore e mi affacciai alla finestra della mia camera. C’erano due contadini. Mi dissero: “Priore, venga subito alla fattoria: hanno ammazzato la signora e le due signorine”. Rimasi senza fiato. Corsi come un forsennato al “Focardo” // La villa bruciava ancora. Orlando Fuschiotti, mi accompagnò nella sala rossa, dove era avvenuta la strage. Aprii la porta: uno spettacolo spaventoso (…) Tre donne distese a terra (…) in mezzo a un lago di sangue, che arrivava alla parete opposta. Si vedeva che prima di essere mitragliate si erano abbracciate, ed erano così cadute quasi avvinghiate: la mamma, Nina, Luce, la figlia maggiore, sul braccio destro, e Cicì, quella minore, sul sinistro. Rimasi esterrefatto, senza fiato (…) Strinsi le mani alle nipoti, alla zia e poi scappai, quasi tramortito dall’orrore e dal dolore (…) Tre giorni prima della morte la signorina Luce era venuta da me con un gran mucchio di carte. Passammo due ore intere a conversare insieme. Mi diceva che, in base a quelle carte (…) esse erano discriminate e di razza ariana, e quindi almeno loro non avevano nulla da temere (…) La vedevo affannata (…) Le ripetevo (…) “Lasci stare, Signorina: andate via di qui. In campagna siamo alla mercé del primo mascalzone che capita, a Firenze non vi conosce nessuno. Non l’avete scritto sulla fronte che siete Einstein (…) Io ho l’obbligo di restare nella parrocchia con i miei popolani, ma se fossi libero come voi me ne sarei andato via da un pezzo” // Verso le 18 del 3 agosto (…) arrivò alla villa un camion carico di SS tedesche. Scese dal camion, radunarono tutto il personale in una stanza. Poi due ufficiali presero la signora Nina e la portarono nel bosco alla ricerca del marito. Avevano, dissero, l’ordine di arrestarlo e sapevano con sicurezza che si nascondeva nelle vicinanze (…) Vagarono per quasi due ore in lungo e in largo per la boscaglia (…) Come avevano convenuto, lui non rispose e non si fece vedere. Viste inutili le ricerche, verso le 20 i due ufficiali la riportarono alla villa e la rinchiusero nella sala rossa. In una stanza accanto chiusero i familiari, poi mandarono una sentinella a prendere le due figliole. Uscirono con la sentinella. A un certo punto, Luce tornò indietro, abbracciò la zia Seba e furtivamente le consegnò un involto con le sue gioie, dicendole che era meglio non portarlo con sé. Poi prese sottobraccio la sorella Ciccì e si avviò con la sentinella verso la sala, dove l’attendeva la mamma (…) Di lì a pochi istanti due raffiche di mitra rimbombarono in tutte le stanze (…) A quegli spari la zia e le nipoti capirono quello che era avvenuto. Urlando disperate (…) chiedevano: “Che cosa avete fatto a quelle donne?”. Una sentinella... sbarrò loro la porta della sala. Gli ufficiali ordinarono a tutti di andarsene perché avrebbero incendiato la villa (…) Versarono in terra un bidone di benzina e gli dettero fuoco (…) Poi, erano le 22, saltarono sui camion e fuggirono. Corse anche voce, non so con quale fondamento, che un soldato si era rifiutato di sparare a quelle povere creature, e al suo posto era stato chiamato un altro».

 

Lorenza Mazzetti, mancata a 92 anni nel 2020, ha sempre confermato la supposizione di Don Agnoloni: «Finalmente. Sono contenta che si cerchi quel soldato. Era giovanissimo, avrà avuto diciott’anni: secondo me, è ancora vivo. Si staccò dal gruppo dei nazisti. Ci chiuse nella stanza di sopra. Puntava il fucile e intanto tremava. Rimase con noi un’ora, mentre quegli altri interrogavano la zia e le cugine. Quando fecero il loro lavoro e bruciarono tutto, lui scoppiò a piangere. Era traumatizzato. Si era dissociato. Ho passato la vita a chiedermi come si chiamasse, e perché non ce la fece a eseguire quell’ordine. Ora faranno un appello alla TV tedesca: offriranno cinquemila euro a chiunque dia informazioni su di lui, sul suo comandante» (Battistini 2011).

 

La mattina del 4 agosto, quindi poche ore dopo l’eccidio, gli alleati arrivano al Focardo; da una jeep scende un ufficiale che chiede al fattore notizie degli Einstein. è il maggiore della 5ª armata Milton Wexler, un fisico americano che era stato allievo di Albert Einstein ed era stato incaricato di cercare la famiglia del cugino dello scienziato. Quando il fattore racconta la strage di poche ore prima e gli mostra i cadaveri, l’ufficiale non riesce a trattenere le lacrime. Il 17 settembre 1944 Wexler scrive una sofferta lettera a Einstein a Princeton per informarlo dell’accaduto: «Mio caro dottor Einstein, colgo l’occasione per comunicare con Lei tramite lettera personale su richiesta di Suo cugino, Robert Einstein, della villa del “Focardo”, Troghi, un paesino a circa 10 miglia a est della città di Firenze. Ho avuto l’opportunità di visitare questa comunità e di intervistare Robert Einstein in relazione a una terribile tragedia che ci ha colpito. Robert mi ha chiesto di informarla che sua moglie e le due figlie, Anna e Luce, sono state uccise il 3 agosto per mano dei nazisti. Roberto, scampato, è illeso, e vive attualmente nella sua villa, dove è accudito dalla cognata e dalle nipoti. Mi dispiace che la censura non mi permetta di dilungarmi sulla tragedia, che conosco bene. Mi rammarico sinceramente per la natura di questa lettera e spero che presto la guerra e le sue terribili conseguenze finiranno con la completa e definitiva sconfitta dell’esercito tedesco. Distinti saluti, Milton R. Wexler Major, I.G.D». (Jewish National & University Library, Gerusalemme, A. Einstein Archives).

 

Robert scrive il 27 novembre al celebre cugino per pregarlo di spronare le indagini per trovare i responsabili della strage: «Caro Alberto, non so se hai saputo della terribile tragedia avvenuta al Focardo: il tre agosto, l’ultimo giorno della loro permanenza qui, i tedeschi hanno ucciso Nina, Luce e Cicì, mentre io ero nascosto non lontano nella boscaglia. Dopo questo crimine hanno incendiato la villa e mandato via nella notte Seba, le due gemelle Paola e Lori e un’altra delle mie nipoti. La “American Inquiry Commission for Atrocities” è già stata qui e io confido che mi aiuterai per arrivare all’identificazione e alla punizione dei carnefici // Ti mando i miei migliori auguri per te, Maja a Margot e sarei felice di ricevere tue notizie. Il tuo affezionato Robert». (Jewish National & University Library, Gerusalemme, A. Einstein Archives).

 

L’inchiesta condotta dagli Alleati nei giorni successivi «fa emergere molto chiaramente il disegno di un crimine compiuto da un piccolo reparto combattente durante la ritirata, non dissimile da altri casi di violenze compiute al momento del passaggio del fronte, come la strage che si svolse nella villa dei conti Minutoli in Versilia nel settembre 1944», e non specificamente antiebraica o di vendetta nei confronti di Albert Einstein che aveva “consegnato” il suo genio agli USA, spiega lo storico italiano Carlo Gentile, ricercatore al Martin Buber Institut for Jewish Studies dell’Università di Colonia. Gentile, esperto dell’occupazione nazista in Italia e consulente delle autorità giudiziarie nei principali processi per i crimini di guerra nazifascisti come quelli di Sant’Anna di Stazzema e Marzabotto, ha consultato i documenti originali, conservati nei National Archives di Washington (College Park) e, anche considerando che il biglietto lasciato dai soldati la notte del 3 agosto non fa cenno alla “colpa” di essere ebrei, conclude che «l’uccisione assumerebbe pertanto il carattere di un’azione punitiva nei riguardi dell’attività svolta dalla famiglia in senso anti-tedesco. La dinamica dei fatti, inoltre, è tipica di una strage compiuta in fase di ritirata».

 

La vicenda, sommersa da tante storie analoghe, viene dimenticata per decenni «anche perché dopo la guerra, è stata oggetto di ripetuti tentativi di insabbiamento per non umiliare la Germania, ormai divenuta un alleato prezioso delle democrazie occidentali nella Guerra fredda» spiega Gentile. In un carteggio degli anni ‘50, ritrovato decenni dopo, due ministri italiani dell’epoca, Gaetano Martino e Paolo Emilio Taviani, scrissero testualmente che «le prove sulla strage degli Einstein raccolte già a partire dall’autunno 1944 dalle autorità militari americane e inglesi non erano state prese in considerazione da Roma per un riguardo politico nei confronti della Germania, che era appena entrata nella Nato».

 

Quando nel 1994 fu scoperto a Roma il cosiddetto ”armadio della vergogna”, contenente l’archivio degli eccidi nazifascisti perpetrati durante la campagna d’Italia (1943-1945), grazie alle ricerche di Carlo Gentile estese anche al Bundesarchiv in Germania, furono riaperte le indagini sulla mattanza della famiglia Einstein da parte della Procura militare di La Spezia per il reato di “uccisione di civili aggravata dall’odio razziale”. Nel 2005 l’Ufficio Centrale di Indagine sui Crimini Nazisti di Ludwigsburg aveva aperto un’indagine su alcuni ufficiali del 104° Reggimento Panzengrenadier, trasmettendone nel 2007 alla Procura di Frankenthal le conclusioni che confermavano le ipotesi di Gentile a sua volta suffragate dallo storico tedesco Lutz Klinkhammer.

 

Anche Lorenza Mazzetti fu interrogata dalle autorità tedesche; nel 2011 il caso fu raccontato in un noto programma TV in Germania, nella speranza, purtroppo senza successo, di ritrovare ancora vivo qualche testimone oculare e particolarmente quel soldato tedesco che si era rifiutato di sparare. Nel febbraio del 2014, a 70 anni dall’eccidio, la Procura di Frankenthal ha chiuso definitivamente l’inchiesta del Focardo affermando che non erano state trovate indicazioni certe e che il riferimento al secondo battaglione del 104° reggimento, appurato da Gentile che ne aveva identificato nel capitano Clemens Theis il responsabile della strage (Parodi 2015), non aveva trovato riscontri.

 

Nel 2025 è prevista l’uscita di un libro dello storico e giornalista inglese Thomas Harding dedicato alla tragedia della famiglia di Robert Einstein dal titolo Murder in Florence

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

F. Battistini, “Una taglia per trovare chi ha ucciso a Firenze le cugine di Einstein in “Corriere della Sera”, 22 febbraio 2011.

C. Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia (1943-1945), Einaudi Torino 2015 e 2022.

A. Gnoli, Dall’infanzia insanguinata alla fama. La scrittrice e regista si racconta: “Uccisero tutti per punire Albert Einstein che era cugino di mio zio" in “La Repubblica”, 26 gennaio 2014.

R. Lembo, Eccidio degli Einstein. La strage dimenticata, in “Toscana Oggi”, 29 luglio 2012

Le stragi nazifasciste in Toscana (1943-1945). Guida archivistica alla memoria a cura di Carlo Gentile, Carocci Editore, Roma 2005.

L. Mazzetti, Il cielo cade, Sellerio, Palermo 1993.

R. Parodi, 25 aprile, la strage impunita degli Einstein a Firenze. Lo storico Gentile: “So chi sparò” in “Il Fatto Quotidiano”, 30 aprile 2015.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]