3 agosto 1944
SULLA Strage in toscana,
della famiglia Einstein
di
Francesco Cappellani
Uno degli ultimi e più brutali assassini
compiuto dalle truppe naziste ormai in
ritirata dall’Italia centrale, inutile e
gratuito, fu quello compiuto la sera del
3 agosto 1944 da alcuni soldati della
Wehrmacht, che uccisero con una raffica
di mitra la moglie e le due figlie di
Robert Einstein, cugino dello scienziato
Albert, nella loro villa padronale “Il
Focardo” in località Troghi a Rignano
sull’Arno a circa 15 chilometri da
Firenze.
Questa dimora, dotata di una vasta
tenuta circostante, apparteneva, fin
dal 1937, a Robert che vi
trascorreva l’estate con la sua
famiglia composta dalla moglie
bergamasca Agar Cesarina (Nina)
Mazzetti, sposata a Roma nel 1913 e
le due figlie Luce Edith, nata a
Monaco nel 1917 e Anna Maria nata a
Roma nel 1926. A questo nucleo
familiare si erano aggiunte due
nipoti gemelle, Lorenza e Paola,
nate nel 1927, figlie di un fratello
di Nina, rimaste orfane.
Robert era cugino di primo grado di
Albert Einstein in quanto figlio di
un fratello, Jacob, di Hermann,
padre dello scienziato. I due
fratelli gestivano una ditta attiva
nel campo dell’illuminazione a gas,
che tentarono di estendere
all’illuminazione elettrica, allora
agli albori, ma senza successo. La
ditta fallisce e i due fratelli con
le rispettive famiglie, grazie a un
amico torinese, l’ingegner Garrone,
impegnato nell’elettrificazione di
alcune città del Nord Italia,
fondano nel 1895 a Pavia la
“Einstein, Garrone & Co. Officine
Elettrotecniche Nazionali” per la
realizzazione di impianti elettrici.
Nuovo fallimento e successivo
trasferimento nel 1896 a Milano per
aprire una società per la
realizzazione di dinamo e macchinari
elettrici. La famiglia di Albert
abita in via Bigli 21 nel palazzo
Olivazzi poi Trivulzio; nello stesso
anno Albert si iscrive al
Politecnico di Zurigo. Robert
frequenta la IV ginnasio al “Parini”
nel 1897/1898 e si laurea poi in
ingegneria elettrotecnica a Monaco
dove apre una fabbrica per la
costruzione di apparecchi
radiofonici.
Nel 1933, all’avvento del nazismo,
Albert Einstein lascia Berlino, dove
dirigeva il Kaiser Wilhelm Institute,
ed emigra negli Stati Uniti a
Princeton; dopo qualche anno molti
suoi parenti abbandonano la Germania
ormai in preda alla crescente ondata
di antisemitismo che stava dilagando
nel Terzo Reich di Hitler. Robert è
costretto a chiudere la sua attività
in Germania; da sempre innamorato
dell’Italia, si era già trasferito a
Roma con la famiglia prima della
nascita della figlia Anna Maria, e
allora, dovendo forzosamente
lasciare la sua Baviera, decide di
stabilirsi nel Bel Paese.
Acquista una fattoria vicino a
Perugia e poi prende casa a Firenze
e compra nel 1937 la tenuta del
“Focardo” a Rignano sull’Arno come
fattoria e villa per trascorrervi
l’estate. Dal 1943 diviene la sede
definitiva di tutta la famiglia che
aveva lasciato il capoluogo per
sfuggire ai bombardamenti alleati
sempre più frequenti dopo
l’armistizio dell’8 settembre e
l’occupazione dell’Italia da parte
dell’esercito tedesco. Nella villa,
in quegli anni del conflitto, erano
ospitate anche Seba, sorella di
Nina, e Anna Maria, figlia di Ada,
altra sorella di Nina.
Negli anni precedenti la guerra il
Focardo era frequentato da molti
intellettuali e amici, come i
pittori Gino Severini e Giacomo
Balla, la figlia di Thomas Mann e
Maya, la sorella di Albert Einstein,
che viveva dal 1922 a Sesto
Fiorentino, vicino a Firenze, col
marito, il pittore Paul Winteler la
cui sorella aveva sposato Michele
Besso, fraterno amico di una vita di
Albert Einstein. Maya lascerà
l’Italia nel 1939 a seguito delle
leggi razziali per unirsi al
fratello a Princeton.
Nella villa veniva sovente il
precettore spirituale delle figlie
di Robert, valdesi come la mamma, il
pastore valdese Tullio Vinay e anche
Don Giuseppe Angoloni, parroco della
vicina chiesa di Santo Stefano,
nonché molte altre persone della
zona tra cui probabilmente anche
alcune legate alla resistenza
partigiana. Il parroco ricorda che «nonostante
l’ingegner Robert fosse ebreo e gli
altri valdesi tutte le domeniche
celebravo l’ultima S. Messa nella
bella cappella della fattoria, per
comodità dei contadini di quella
zona dato che, fin dall’inizio, il
proprietario aveva chiesto che nulla
cambiasse delle abitudini religiose»
(Lembo
2012).
I primi anni di guerra erano
trascorsi sereni per la famiglia
Einstein malgrado le persecuzioni
razziali e le restrizioni alimentari
che però negli anni iniziali del
conflitto erano ancora sopportabili;
la situazione peggiorò drasticamente
dopo l’armistizio dell’8 settembre
quando la provincia di Firenze venne
occupata dalle truppe del
maresciallo Kesselring e la Toscana,
con l’avanzata delle armate
angloamericane dal Sud Italia, si
andava trasformando in una zona di
intensa attività bellica.
Nel novembre del 1943 una divisione
della Wehrmacht si accampa nel
Focardo e requisisce la villa
installandovi il suo quartier
generale relegando gli abitanti in
una attigua fattoria del complesso
colonico. Malgrado i tedeschi
sapessero che Robert fosse ebreo, la
famiglia non è infastidita, anzi,
come racconterà Lorenza Mazzetti,
una delle nipoti scampata alla
strage, «si
respirava un’aria stranamente
gradevole. Ci sentivamo
un’aristocrazia al riparo dalla
tempesta. Gli ufficiali erano
gentili. Le interminabili partite a
scacchi. E la musica: Mozart e
Beethoven. Poi, quando il comando
cominciò a partire, qualcuno avvertì
lo zio che i tedeschi lo avrebbero
arrestato. Non voleva crederci né
lasciarci. Ma alla fine decise di
fuggire e di nascondersi nel bosco.
La villa si era svuotata»
(Gnoli
2014).
Alcuni partigiani attivi nella zona
avevano convinto Robert a passare
alla macchia dopo che alcune SS
erano comparse nella tenuta per
ricercarlo. La moglie e le figlie
erano rimaste in villa convinte che,
essendo cattoliche come gli altri
parenti alloggiati, non correvano
alcun rischio, e inoltre,
presidiando la loro dimora,
l’avrebbero protetta da una
eventuale razzia da parte dei
nazisti. I mesi quasi irreali di
convivenza con gli ufficiali nazisti
saranno raccontati mirabilmente da
Lorenza nel libro Il cielo cade
(Garzanti 1961) fino al tragico
epilogo del 3 agosto 1944, l’ultimo
giorno di permanenza a Rignano della
Wehrmacht che abbandonerà in nottata
il paese ripiegando definitivamente
verso nord. Il libro, scritto
da Lorenza per superare una profonda
crisi depressiva dovuta al
riemergere del ricordo della tragica
mattanza della sua famiglia adottiva
vissuto da ragazza, ottiene il
Premio Viareggio nel 1962, nel 2000
è il soggetto di un film con
Isabella Rossellini e nel 2002 viene
ripubblicato da Sellerio.
Negli ultimi giorni del mese di
luglio e i primi di agosto 1944 nei
dintorni della villa vi fu un
continuo movimento di truppe
tedesche che si apprestavano a
lasciare quella zona della toscana
pressati dall’avanzata delle truppe
alleate in Valdarno. Il 3 agosto
giunsero alcuni militari che, come
dimostrato dallo storico Carlo
Gentile (Gentile
2005, Gentile 2022),
appartenevano alla
XV divisione del 104° Reggimento di
Granatieri Corazzati
“Panzergrenadier” della Wehrmacht al
comando del generale Eberhart Rodt e
non alle SS come si riteneva, una
formazione già segnalata nell’area
in quei giorni dopo essersi resa
responsabile di altri episodi di
violenza contro i civili.
Un reparto di soldati si reca verso
le 19 nella fattoria dove le sette
donne, la moglie e le due figlie di
Robert, le gemelle Mazzetti e altre
due parenti, si preparavano per la
notte, chiedono a Cesarina del
marito e, avuti i nomi di tutte le
donne, conducono le prime tre nella
villa che viene perquisita
attentamente trovando, sembra, del
materiale compromettente che
testimonierebbe contatti con i
partigiani e gli alleati.
Cesarina subisce un violento
interrogatorio «dopo
il quale fu accompagnata più volte
al limite dei boschi circostanti per
chiamare ripetutamente il marito che
i tedeschi immaginavano nei
dintorni. L’ingegnere era
combattuto, ma si fece convincere
dai partigiani che si trattava di un
tranello e restò nascosto»
(Lembo
2012). Alla fine del processo farsa,
Cesarina e le due figlie, accusate
di spionaggio col nemico e possesso
di esplosivi, vengono condannate a
morte: portate nel salone vengono
uccise con una raffica di mitra.
Sono invece rilasciate le altre
donne oltre al fattore Orlando
Fuschiotti con la sua famiglia e
altri coloni rinchiusi
precedentemente. Al tenente tedesco
che le libera, Seba Mazzetti sente
pronunciare la frase «giustizia è
fatta e i traditori sono puniti».
I tedeschi, dopo la strage,
appiccano il fuoco alla villa e si
allontanano. Lasciano, nel cortile
della villa, il seguente biglietto:
«Il comando tedesco rende noto:
la famiglia Einstein si è resa
colpevole di spionaggio. Essa
mantiene costantemente contatto con
gli alleati nemici. La famiglia è
stata passata alla fucilazione il
giorno 3 agosto. Il comandante».
Robert, uditi gli spari e
intravedendo l’incendio, si
precipita verso la villa. «Apparve
improvvisamente, allarmato dalle
fiamme. Lo vedemmo correre mentre il
camion dei tedeschi si allontanava.
I contadini lo fermarono. Sembrava
fuori di sé. Implorava che gli
dessero una pistola. Piangeva.
Voleva morire. Lo condussero in quel
che restava della villa. Lo
calmarono. Il medico prescrisse
psicofarmaci»
(Gnoli
2014).
Le testimonianze dell’accaduto,
raccolte da persone che avevano
assistito ai fatti e conoscevano i
protagonisti della tragica vicenda,
aggiungono altri particolari su un
crudele massacro assurdo in quanto
non connesso in alcun modo con le
operazioni militari in corso da
parte di truppe ormai in ritirata
per una guerra irrimediabilmente
perduta. Tutti i testimoni parlano
di soldati delle SS come autori
dell’assassinio ma, come già detto,
sarà accertato molti anni dopo
trattarsi di un reparto di
Panzergrenadier.
Nello Dini, allora diciassettenne,
nascosto nei boschi con Robert, vede
l’arrivo dei soldati la sera nella
villa e racconta: «Poi, verso le
dieci, due SS uscirono dalla villa e
vagarono per i campi, con la signora
in mezzo a loro. “Roberto, Roberto,
Roberto” le facevano gridare, e la
sua voce nel silenzio della notte
arrivava fino a noi come se fossero
lì a pochi metri. “Vado, vado”
diceva l’ingegnere. Il suo fattore,
io e gli altri lo tenevamo fermo.
“Non era d’accordo con la signora
che non si sarebbe mosso, neppure se
l’avessero costretta a chiamarlo?”,
gli chiedevamo (…) Dalla finestra
della villa si vedeva una piccola
luce nel salone, poi anche in
un’altra stanza. Dopo quasi un’ora
le SS tornarono dentro con la
signora. Trascorsero quindici
minuti, quasi mezz’ora, poi il
crepitio del mitra dentro la casa.
Cinque minuti ancora e si alzarono
alte le fiamme. Mentre la casa
bruciava i Tedeschi, in cerchio,
sparavano raffiche di mitra. Tra
mezzanotte e mezzo e l’una
partirono, sempre sparando. I
contadini e il fattore cercarono
invano di spegnere le fiamme e di
farsi largo tra queste per
raggiungere i cadaveri delle tre
donne. La signora Nina Einstein
Mazzetti di 56 anni e le sue due
figliole, Luce di 27 e Cicì [Anna
Maria] di 18, furono ritrovate tutte
e tre insieme, come se prima di
cadere... si fossero abbracciate
// L’ingegner Einstein dopo i
colpi di mitra, mentre i nazisti
sparavano attorno al giardino della
villa in fiamme, era riuscito a
divincolarsi dalla stretta del suo
fattore e si era messo a correre e a
gridare: “Sono io Robert Einstein,
quello che cercate per uccidere”.
Tornò dopo quattro giorni. Disse di
aver rincorso i Tedeschi, di averli
trovati, di avere chiesto loro di
ucciderlo. Era un uomo finito,
impazzito per il dolore, senza
alcuna volontà di vivere. Passava
intere giornate nel piccolo cimitero
fra i campi della Badiuzza dove la
moglie e le figlie erano sepolte.
Neppure un anno dopo, durante una
delle interminabili visite e dei
lunghi soliloqui con le sue donne,
si uccise. Albert Einstein aveva
fatto diversi tentativi perché lo
raggiungesse in America: aveva
sempre rifiutato dicendo che voleva
restare vicino alla sua Nina, a
Luce, a Cicì…».
Robert si suicidò il 13 luglio 1945,
anniversario del suo matrimonio con
Nina, nella stessa sala dove erano
morte le sue donne, ingerendo una
dose letale di sonniferi, disperato
e stremato per il rimorso di essere
sopravvissuto alla sua famiglia e
profondamente deluso perché i
responsabili dell’eccidio non erano
stati trovati. Aveva annunciato la
sua morte al fattore Fuschiotti in
una lettera del 30 giugno 1945: «Caro
Orlando, mi dispiace che con la mia
morte devo recarti non soltanto un
dolore, ma anche tanti fastidi. Ma
preferisco morire anch’io al “Focardo”,
dove hanno sofferto il martirio i
miei, e desidero essere sepolto
quanto più vicino possibile a loro.
Ti prego di provvedere una cassa di
zinco affinché senza troppe
difficoltà sia poi possibile la
traslazione di tutte quattro le
salme al cimitero di Roma. Lascio il
“Focardo” a Paola e Lori, certo che
farai del tuo meglio per
amministrare la proprietà nel loro
interesse // Ti chiedo scusa se
qualche rara volta sono stato un po’
rude, ti prego di salutare tutti i
contadini che mi sono stati amici e
ti abbraccio affettuosamente.
Roberto Einstein».
Testimonianza di Elio Salmon
sfollato all’epoca in una casa
colonica della zona: «Pare che la
ricerca [dei militari tedeschi]
al “Focardo” fosse dovuta a qualche
spiata e limitata alla sola persona
dell’ingegner Einstein, che era
rimasto sinora anche troppo sicuro a
casa sua, nonostante il continuo
passaggio di Tedeschi // L’ingegner
Einstein, ebreo tedesco (…) aveva
preso troppa confidenza con i
Tedeschi (…) allontanandosi da casa
solo quando le SS erano venute a
cercarlo tempo fa, poco prima che
arrivasse alla loro villa un grosso
comando tedesco. La moglie e le
figlie erano invece rimaste in casa
e avevano ricevuto piena
assicurazione dagli ufficiali del
comando stesso, tanto più che erano
considerate ariane. Invece, appena
partito questo comando, giovedì
della settimana scorsa, le SS erano
tornate reclamando vivamente la
consegna dell’ingegnere che era
sempre nascosto nelle vicinanze; e
poiché quello non arrivava, quei
bruti hanno chiuso in una stanza la
moglie e le figlie, e in un’altra
gli altri famigliari e vari
contadini, ai quali hanno consegnato
un foglietto dattiloscritto in cui
era dichiarato che la famiglia
Einstein era stata riconosciuta rea
di spionaggio e connivenza col
nemico e quindi fucilata. Mentre
leggevano hanno udito degli spari
nella stanza vicina: la sentenza era
stata eseguita, e quella era la
scusa per giustificare il loro
misfatto! L’ingegnere, quasi
impazzito, appena saputa la cosa era
scappato con l’intenzione di
consegnarsi anche lui ai Tedeschi
per farsi ammazzare».
Testimonianza di don Giuseppe
Agnoloni, parroco di Santo Stefano
alle Corti di Moriano, presso il “Focardo”:
«Il 13 agosto 1944 alle undici
[di sera] (…) vidi con grande
stupore la villa del “Focardo” che
bruciava con grandi fiamme (…) La
vista dell’incendio mi procurò un
grande sgomento. Ma non immaginavo
l’eccidio orribile, che seppi la
mattina seguente. Passai tutta la
notte in campanile, solo, tremando e
pregando. Da ogni parte si sentivano
cannonate, scoppi, spari e rumori di
truppe che passavano. La mattina,
verso le cinque, sentii bussare
violentemente alla porta, andai al
piano superiore e mi affacciai alla
finestra della mia camera. C’erano
due contadini. Mi dissero: “Priore,
venga subito alla fattoria: hanno
ammazzato la signora e le due
signorine”. Rimasi senza fiato.
Corsi come un forsennato al
“Focardo” // La villa bruciava
ancora. Orlando Fuschiotti, mi
accompagnò nella sala rossa, dove
era avvenuta la strage. Aprii la
porta: uno spettacolo spaventoso (…)
Tre donne distese a terra (…) in
mezzo a un lago di sangue, che
arrivava alla parete opposta. Si
vedeva che prima di essere
mitragliate si erano abbracciate, ed
erano così cadute quasi avvinghiate:
la mamma, Nina, Luce, la figlia
maggiore, sul braccio destro, e Cicì,
quella minore, sul sinistro. Rimasi
esterrefatto, senza fiato (…)
Strinsi le mani alle nipoti, alla
zia e poi scappai, quasi tramortito
dall’orrore e dal dolore (…) Tre
giorni prima della morte la
signorina Luce era venuta da me con
un gran mucchio di carte. Passammo
due ore intere a conversare insieme.
Mi diceva che, in base a quelle
carte (…) esse erano discriminate e
di razza ariana, e quindi almeno
loro non avevano nulla da temere (…)
La vedevo affannata (…) Le ripetevo
(…) “Lasci stare, Signorina: andate
via di qui. In campagna siamo alla
mercé del primo mascalzone che
capita, a Firenze non vi conosce
nessuno. Non l’avete scritto sulla
fronte che siete Einstein (…) Io ho
l’obbligo di restare nella
parrocchia con i miei popolani, ma
se fossi libero come voi me ne sarei
andato via da un pezzo” // Verso le
18 del 3 agosto (…) arrivò alla
villa un camion carico di SS
tedesche. Scese dal camion,
radunarono tutto il personale in una
stanza. Poi due ufficiali presero la
signora Nina e la portarono nel
bosco alla ricerca del marito.
Avevano, dissero, l’ordine di
arrestarlo e sapevano con sicurezza
che si nascondeva nelle vicinanze
(…) Vagarono per quasi due ore in
lungo e in largo per la boscaglia
(…) Come avevano convenuto, lui non
rispose e non si fece vedere. Viste
inutili le ricerche, verso le 20 i
due ufficiali la riportarono alla
villa e la rinchiusero nella sala
rossa. In una stanza accanto
chiusero i familiari, poi mandarono
una sentinella a prendere le due
figliole. Uscirono con la
sentinella. A un certo punto, Luce
tornò indietro, abbracciò la zia
Seba e furtivamente le consegnò un
involto con le sue gioie, dicendole
che era meglio non portarlo con sé.
Poi prese sottobraccio la sorella
Ciccì e si avviò con la sentinella
verso la sala, dove l’attendeva la
mamma (…) Di lì a pochi istanti due
raffiche di mitra rimbombarono in
tutte le stanze (…) A quegli spari
la zia e le nipoti capirono quello
che era avvenuto. Urlando disperate
(…) chiedevano: “Che cosa avete
fatto a quelle donne?”. Una
sentinella... sbarrò loro la porta
della sala. Gli ufficiali ordinarono
a tutti di andarsene perché
avrebbero incendiato la villa (…)
Versarono in terra un bidone di
benzina e gli dettero fuoco (…) Poi,
erano le 22, saltarono sui camion e
fuggirono. Corse anche voce,
non so con quale fondamento, che un
soldato si era rifiutato di sparare
a quelle povere creature, e al suo
posto era stato chiamato un altro».
Lorenza Mazzetti, mancata a 92 anni
nel 2020, ha sempre confermato la
supposizione di Don Agnoloni: «Finalmente.
Sono contenta che si cerchi quel
soldato. Era giovanissimo, avrà
avuto diciott’anni: secondo me, è
ancora vivo. Si staccò dal gruppo
dei nazisti. Ci chiuse nella stanza
di sopra. Puntava il fucile e
intanto tremava. Rimase con noi
un’ora, mentre quegli altri
interrogavano la zia e le cugine.
Quando fecero il loro lavoro e
bruciarono tutto, lui scoppiò a
piangere. Era traumatizzato. Si era
dissociato. Ho passato la vita a
chiedermi come si chiamasse, e
perché non ce la fece a eseguire
quell’ordine. Ora faranno un appello
alla TV tedesca: offriranno
cinquemila euro a chiunque dia
informazioni su di lui, sul suo
comandante» (Battistini 2011).
La mattina del 4 agosto, quindi
poche ore dopo l’eccidio, gli
alleati arrivano al Focardo; da una
jeep scende un ufficiale che chiede
al fattore notizie degli Einstein.
è il maggiore della 5ª armata
Milton Wexler, un fisico americano
che era stato allievo di Albert
Einstein ed era stato incaricato di
cercare la famiglia del cugino dello
scienziato. Quando il fattore
racconta la strage di poche ore
prima e gli mostra i cadaveri,
l’ufficiale non riesce a trattenere
le lacrime. Il 17 settembre 1944
Wexler scrive una sofferta lettera a
Einstein a Princeton per informarlo
dell’accaduto: «Mio
caro dottor Einstein, colgo
l’occasione per comunicare con Lei
tramite lettera personale su
richiesta di Suo cugino, Robert
Einstein, della villa del “Focardo”,
Troghi, un paesino a circa 10 miglia
a est della città di Firenze. Ho
avuto l’opportunità di visitare
questa comunità e di intervistare
Robert Einstein in relazione a una
terribile tragedia che ci ha
colpito. Robert mi ha chiesto di
informarla che sua moglie e le due
figlie, Anna e Luce, sono state
uccise il 3 agosto per mano dei
nazisti. Roberto, scampato, è
illeso, e vive attualmente nella sua
villa, dove è accudito dalla cognata
e dalle nipoti. Mi dispiace che la
censura non mi permetta di
dilungarmi sulla tragedia, che
conosco bene. Mi rammarico
sinceramente per la natura di questa
lettera e spero che presto la guerra
e le sue terribili conseguenze
finiranno con la completa e
definitiva sconfitta dell’esercito
tedesco. Distinti saluti, Milton R.
Wexler Major, I.G.D».
(Jewish National & University
Library, Gerusalemme, A. Einstein
Archives).
Robert scrive il 27 novembre al
celebre cugino per pregarlo di
spronare le indagini per trovare i
responsabili della strage: «Caro
Alberto, non so se hai saputo della
terribile tragedia avvenuta al
Focardo: il tre agosto, l’ultimo
giorno della loro permanenza qui, i
tedeschi hanno ucciso Nina, Luce e
Cicì, mentre io ero nascosto non
lontano nella boscaglia. Dopo questo
crimine hanno incendiato la villa e
mandato via nella notte Seba, le due
gemelle Paola e Lori e un’altra
delle mie nipoti. La “American
Inquiry Commission for Atrocities” è
già stata qui e io confido che mi
aiuterai per arrivare
all’identificazione e alla punizione
dei carnefici // Ti mando i miei
migliori auguri per te, Maja a
Margot e sarei felice di ricevere
tue notizie. Il tuo affezionato
Robert».
(Jewish National & University
Library, Gerusalemme, A. Einstein
Archives).
L’inchiesta condotta dagli Alleati
nei giorni successivi «fa
emergere molto chiaramente il
disegno di un crimine compiuto da un
piccolo reparto combattente durante
la ritirata, non dissimile da altri
casi di violenze compiute al momento
del passaggio del fronte, come la
strage che si svolse nella villa dei
conti Minutoli in Versilia nel
settembre 1944»,
e
non specificamente antiebraica o di
vendetta nei confronti di Albert
Einstein che aveva “consegnato” il
suo genio agli USA, spiega lo
storico italiano Carlo Gentile,
ricercatore al Martin Buber
Institut for Jewish Studies dell’Università
di Colonia. Gentile,
esperto dell’occupazione nazista in
Italia e consulente delle autorità
giudiziarie nei principali processi
per i crimini di guerra nazifascisti
come quelli di Sant’Anna di Stazzema
e Marzabotto,
ha consultato i documenti originali,
conservati nei National Archives di
Washington (College Park) e, anche
considerando che il biglietto
lasciato dai soldati la notte del 3
agosto non fa cenno alla “colpa” di
essere ebrei, conclude che «l’uccisione
assumerebbe pertanto il carattere di
un’azione punitiva nei riguardi
dell’attività svolta dalla famiglia
in senso anti-tedesco. La dinamica
dei fatti, inoltre, è tipica di una
strage compiuta in fase di
ritirata».
La
vicenda, sommersa da tante storie
analoghe, viene dimenticata per
decenni «anche perché
dopo la guerra, è stata oggetto di
ripetuti tentativi di insabbiamento
per non umiliare la Germania, ormai
divenuta un alleato prezioso delle
democrazie occidentali nella Guerra
fredda»
spiega Gentile. In un carteggio
degli anni ‘50, ritrovato decenni
dopo, due ministri italiani
dell’epoca, Gaetano Martino e Paolo
Emilio Taviani, scrissero
testualmente che «le prove sulla
strage degli Einstein raccolte già a
partire dall’autunno 1944 dalle
autorità militari americane e
inglesi non erano state prese in
considerazione da Roma per un
riguardo politico nei confronti
della Germania, che era appena
entrata nella Nato».
Quando nel 1994 fu scoperto a Roma
il cosiddetto ”armadio della
vergogna”, contenente l’archivio
degli eccidi nazifascisti perpetrati
durante la campagna d’Italia
(1943-1945), grazie alle ricerche di
Carlo Gentile estese anche al
Bundesarchiv in Germania, furono
riaperte le indagini sulla mattanza
della famiglia Einstein da parte
della Procura militare di La Spezia
per il reato di “uccisione di
civili aggravata dall’odio razziale”.
Nel 2005 l’Ufficio Centrale di
Indagine sui Crimini Nazisti di
Ludwigsburg aveva aperto un’indagine
su alcuni ufficiali del 104°
Reggimento Panzengrenadier,
trasmettendone nel 2007 alla Procura
di Frankenthal le conclusioni che
confermavano le ipotesi di Gentile a
sua volta suffragate dallo storico
tedesco Lutz Klinkhammer.
Anche Lorenza Mazzetti fu
interrogata dalle autorità tedesche;
nel 2011 il caso fu raccontato in un
noto programma TV in Germania, nella
speranza, purtroppo senza successo,
di ritrovare ancora vivo qualche
testimone oculare e particolarmente
quel soldato tedesco che si era
rifiutato di sparare. Nel febbraio
del 2014, a 70 anni dall’eccidio, la
Procura di Frankenthal ha chiuso
definitivamente l’inchiesta del
Focardo affermando che non erano
state trovate indicazioni certe e
che il riferimento al secondo
battaglione del 104° reggimento,
appurato da Gentile che ne aveva
identificato nel capitano Clemens
Theis il responsabile della strage (Parodi
2015), non aveva trovato riscontri.
Nel 2025 è prevista l’uscita di un
libro dello storico e giornalista
inglese Thomas Harding dedicato alla
tragedia della famiglia di Robert
Einstein dal titolo Murder in
Florence
Riferimenti bibliografici:
F. Battistini, “Una taglia per
trovare chi ha ucciso a Firenze le
cugine di Einstein in “Corriere
della Sera”, 22 febbraio 2011.
C. Gentile, I crimini di guerra
tedeschi in Italia (1943-1945),
Einaudi Torino 2015 e 2022.
A. Gnoli,
Dall’infanzia insanguinata alla
fama. La scrittrice e regista si
racconta: “Uccisero tutti per punire
Albert Einstein che era cugino di
mio zio"
in “La Repubblica”, 26 gennaio 2014.
R. Lembo, Eccidio degli Einstein.
La strage dimenticata, in
“Toscana Oggi”, 29 luglio 2012
Le stragi nazifasciste in Toscana
(1943-1945). Guida archivistica alla
memoria
a cura di Carlo Gentile, Carocci
Editore, Roma 2005.
L. Mazzetti, Il cielo cade,
Sellerio, Palermo 1993.
R. Parodi, 25 aprile, la strage
impunita degli Einstein a Firenze.
Lo storico Gentile: “So chi sparò”
in “Il Fatto Quotidiano”, 30 aprile
2015.