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N. 8 - Agosto 2008 (XXXIX)

tOMÀS DE TORQUEMADA
La mente dell’Inquisizione

di Cristiano Zepponi

 

Juan de Torquemada, cardinale della ‘Santa Chiesa’ rinomato per la sua accesa difesa dell’ortodossia in occasione del XVI Concilio ecumenico svoltosi a Costanza tra il 1414 ed il 1418, prendeva il nome da un comune spagnolo situato nella comunità autonoma di Castiglia e Leon, a metà strada tra Burgos e Valladolid.  Il tempo non ha mutato il volto di Torquemada, che attualmente conta un migliaio di abitanti, anima in più, anima in meno.

 

La lente della storia, insomma, indugerebbe forse fuggevolmente su questo angolo di mondo dimenticato da Dio, ed il suo nome scivolerebbe via dalla mente del viaggiatore distratto, capitato per caso, adagiandosi sul fondale della memoria accanto alla moltitudine di luoghi ingialliti nelle sabbie del tempo, indegni finanche di esser menzionati, se tra i suoi scarsi figli non si annoverasse l’illustre uomo di Chiesa che la riporta sulle cronache.

Il Caso imprevedibile la salvò; e non importa molto che, in realtà, non sia neanche così sicuro che quell’uomo provenisse proprio da lì, dato che molte fonti - tra cui quelle d’ispirazione cattolica – preferiscono indicare la vicina Valladolid.

 

Comunque sia, la certezza che il cognome ne rivelasse l’origine riporta alla mente una tradizione particolarmente diffusa – anche attualmente – tra le genti ebraiche, e ne tradisce quindi l’antica provenienza. Il cardinale insignito da papa Eugenio IV del titolo di “defensor fidei”, il più accanito difensore della sua epoca del principio di autorità pontificia, era in realtà figlio di conversos, ovverosia di ebrei costretti al battesimo in seguito alla grande persecuzione del 1391.

 

Naturalmente, lo stesso valeva per il nipote Tommaso, nato probabilmente nel 1420. Anche stavolta, due luoghi se ne disputavano i natali: Avila e Valladolid.

Il ragazzo, sulla scia di tanto zio, divenne frate giovanissimo, nel convento domenicano di San Paolo di Valladolid. Subito dopo, aderì alla riforma in senso austero dell’Ordine domenicano patrocinata dal padre generale Alfonso de San Cebriàn, per poi essere nominato priore del convento di Santa Cruz, a Segovia.

Sembrava andasse di fretta, bruciando le tappe. Lo dimostrò anche elaborando il progetto ambizioso di costruire una chiesa ed un convento ad Avila, sotto il patrocinio di San Tommaso d’Aquino – in onore del quale aveva scelto il nome da religioso, “fray Tomàs”.

 

Come la gran parte degli uomini che intendono raggiungere velocemente l’obiettivo, il frate si affidò alle antiche e provate conoscenze; sfruttò così la vicinanza di Hernán Núñez de Arnalt, il celebre segretario e tesoriere dei “re cattolici” – di cui era confessore oltre che amico – e di Doña Maria de Avila, probabilmente un’altra discendente di conversos.

Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, quindi, lo conobbero a Corte, forse nel corso del 1479.

 

I “re cattolici” dovevano molto ai conversos, che peraltro occupavano allora le più alte cariche dello stato, e costituivano la colonna vertebrale dell’alta borghesia mercantile e bancaria, del notabilato, dei quadri amministrativi; “riflettendo la magnificenza dei loro signori erano stati gli ebrei più eruditi e più famosi che mai fossero esistiti per ricchezza, per virtù e per scienza”, scrisse un correligionario castigliano.

Per secoli, infatti, la Spagna si era mostrata tutto sommato tollerante nei confronti degli ebrei provenienti dalle due sponde del mediterraneo: sia il campo cristiano che quello musulmano li avevano rinnegati, perseguiti, cacciati; ma la Spagna aveva fatto eccezione.

 

I Califfi di Cordoba, tra i primi, li avevano protetti e difesi, prima che l’impeto degli Almoravidi ne provocasse la fuga; Ferdinando di Castiglia, considerato un re pio tra i secondi, mostrava d’altra parte di gradire l’appellativo di sovrano “delle tre religioni”, che ne celebrava l’armonia spirituale.

 

L’idillio di antica origine s’interruppe bruscamente verso la fine del XIV° secolo, a causa dei pregiudizi e delle invidie che trovarono orecchie attente tra coloro che da questa situazione avevano tutto da perdere. Nel 1391, quattromila ebrei furono massacrati a Siviglia nel corso di una sola notte; ventuno anni dopo, adeguandosi ai mutevoli umori di quella che oggi chiameremmo la pubblica opinione, i decreti reali li privarono dei diritti civili, prima che le singole città cominciassero ad espellerli dal territorio amministrato: Siviglia, Cordoba, Saragozza, Teruel, Albaraccin. L’escalation culminò con l’allontanamento di tutti gli ebrei che non si fossero convertiti entro il 31 luglio dell’anno 1492: solo sette mesi prima, il 2 gennaio, era caduta Granada, ultima roccaforte moresca in terra di Spagna. Tre giorni dopo, il 3 agosto, Colombo salpò per il suo primo viaggio verso occidente; in entrambi i casi, il denaro dei conversos aveva garantito la fattibilità d’imprese così vicine e differenti.

 

Circa 300.000 ebrei di dispersero, alla volta dei quattro angoli del mondo; altri 50.000, secondo un cronista dell’epoca, “si convertirono a tarda ora, con la forza, e dopo grandi patimenti”, al fine di salvare la vita ed i beni.

Ne derivò un’elìte ricca come la precedente, ed in più cementata dalle comuni sofferenze, ancora influente e socialmente riconoscibile; senza che, dopo i precedenti accadimenti, venisse meno il rancore nei loro confronti, ed in special modo contro i cosiddetti anusim, o marrani, o criptogiudei, che continuavano a coltivare in silenzio, lontani da sguardi indiscreti, la religione dei padri.

 

I “nuovi cristiani dovettero presto rendersi conto che un giovane Stato necessitava di un nemico comune, per rafforzare la propria unità, e dovettero subire ulteriori discriminazioni. Intervenne persino papa Niccolò V, nel 1449, condannandone l’esclusione dai pubblici uffici di Toledo con la bolla Humani generis inimicus, che recitava: “tutti i cristiani sono un solo corpo in Cristo, quali ne siano le origini e la discendenza”.

 

Ferdinando e Isabella, però, si mostrarono particolarmente attenti alle voci - tra le quali si distingueva quella di frate Alonso de Hojeda - che denunciavano misteriosi incontri, losche trame e sinistre riunioni di marriani, additandoli come elementi destabilizzanti, e quindi pericolosi.

I due sovrani decisero allora di chiedere a Roma decreti che concedessero l’istituzione di Tribunali della Santa Inquisizione; Pedro Gonzales de Mendoza, arcivescovo di Siviglia e poi di Toledo, trattò la creazione di un’Inquisizione strettamente agganciata all’autorità reale. Il primo giorno del novembre 1478, papa Sisto IV concesse l’autorizzazione a procedere contro gli eretici “por la via del fuego”.

 

Torquemada apparve e scomparve nelle pieghe di questi avvenimenti, e continuò a sfuggire alla storia che lo inseguiva, come per celare sé stesso. La sua firma - in qualità di priore dei dominicani di Segovia – accompagnò la relazione sulle sospette trame dei “nuovi cristiani”, ma la nascente organizzazione ispanica fece a meno del suo nome, e scelse come inquisitori tre oscuri personaggi (fra Juan de San Martin, fra Miguel Morillo, e fra Juan Ruiz de Medina in qualità di assessore) che si distinsero particolarmente, se così si può dire, in una lunga sequela di atrocità in quel di Siviglia, involontariamente aiutati dal disperato complotto organizzato da alcuni facoltosi conversos contro di loro.

Il primo auto de fe (o da fe, secondo la dizione portoghese) si svolse quindi il 6 febbraio 1481, causando la morte di varie personalità rilevanti tra cui il ricchissimo Diego de Susàn - tradito dalla figlia Susanna, ansiosa di salvare l’amante, un christiano viejo.

 

Otto nuovi inquisitori furono nominati un anno dopo, l’11 febbraio 1482, dato che a Roma non era stata granché apprezzata la gratuita brutalità dei primi: ma stavolta, oltre ad Alfonso de San Cebriàn, Pedro de Ocena, Pedro Muillo, Juan de San Domingo, Juan de Espiritu Santo, Bernardo de Santa Maria, comparve il nome di Tomàs de Torquemada.

 

Fu chiamato allora a dirigere il “Consejo de la Suprema y General Inquisiciòn” - creato dalla regina Isabella, e formato da tre membri - in qualità di Inquisitore Generale. Dal 17 ottobre, poi, aggiunse a questa il ruolo di Inquisitore generale dei regni di Castiglia, Leòn, Catalogna, Aragona e Valencia.

Creò, per la prima volta nella storia, un tribunale centrale di natura religiosa ma al servizio del potere politico, nel senso che i giudici dell'Inquisizione, di cui egli era a capo, venivano nominati dal papa su indicazione della monarchia spagnola. Fu, a detta di Adriano Prosperi, docente di Storia moderna e contemporanea all'università di Pisa, “lo strumento straordinariamente duttile ed efficace al servizio di questa operazione voluta da Ferdinando d'Aragona, il Cattolico, e da sua moglie Isabella di Castiglia”, anche a costo di correre forti rischi, come dimostrano i ritratti che lo presentano attorniato da una cospicua schiera di armati.

 

La fiera opposizione delle Cortes aragonesi, dei valenciani e soprattutto delle autorità di Saragozza e Barcellona - che solo nel 1487 accolse il suo rappresentante, Alonso de Espina - agitarono quegli anni. Ma poi, con un cinematografico rovesciamento della situazione, l’omicidio, proprio a Saragozza, di un altro delegato dell’Inquisizione - Pedro de Arbuès, freddato nottetempo, mentre pregava davanti all’altare maggiore della cattedrale - spostò gli umori della popolazione in favore di Tomàs de Torquemada, ed in senso avverso ai conversos (tra cui Gabriel Sanchèz, tesoriere del re) che avevano organizzato l’assassinio.

 

Lo scontro, dunque, ricevette nuovo impulso, anche a causa di un fondamentale fattore economico: l’eliminazione degli storici avversari avrebbe permesso all’Inquisizione di auto-finanziarsi. Contemporaneamente all’organizzazione dei processi contro i “nuovi cristiani” Torquemada viaggiò molto, si dedicò - con il solito rigore - alle cause nei confronti dei musulmani convertiti al cattolicesimo (moriscos), insediò i nuovi inquisitori e provvide ad organizzare le attività del “Consejo”, ma non solo. Rivolse il suo sguardo, in particolare, ai libri, che destinò spesso alle fiamme in grande abbondanza, alla stregua dei pompieri di bradburiana memoria.

Da fine giurista, poi, comprese che la neonata Inquisizione necessitava di una regolamentazione normativa, di una codificazione e razionalizzazione scritta delle procedure che ne accentuasse l’efficienza, e garantisse al contempo la primazia dell’ordine sul fanatismo.

 

Ad intervalli, tra il 1484 ed il 1488, provvide quindi a completare l’opera cui il suo nome si legò nei secoli, le “Ordinanze” o “Istituzioni”. “A lui si devono il coordinamento giuridico e l’ordinamento processuale che costituiscono la base della serie di disposizioni che convertono il decreto inquisitoriale in un monumento processuale. Un poderoso senso di realismo guidava il suo spirito: questo realismo si traduce vigorosamente nella compilazione legislativa che costituisce il codice legale dell’Inquisizione, frutto della sua iniziativa e della sua intelligenza”, scrisse con (eccessiva?) ammirazione La Pinta.

 

Come giustamente osservato da Alvise Zorzi, l’oggetto della sua opera di codificazione era qualcosa “di profondamente iniquo e di sostanzialmente antigiuridico per natura”; ma al tempo stesso, il mastodontico lavoro venne inaspettatamente in soccorso di alcune delle categorie più martoriate di quei decenni, condannando implicitamente i pogrom, limitando l’attività persecutoria ai marrani, distinguendo il “nuovo cristiano” dall’eretico, stabilendo il principio della segretezza dei procedimenti (una formula consueta nei documenti dell'Inquisizione recitava 'senza il rumore della litigiosità), vietando di accogliere denunce anonime e scoraggiando la partecipazione della gente ai processi.

 

Gli orrori carcerari denunciati dalla letteratura successiva (che toccarono l’apice con “Il pozzo e il pendolo” di Poe) viaggiavano a braccetto con le analoghe pratiche esercitate nelle galere ordinarie, in linea con le usanze dell’epoca.

Come giustificazione, però, rimane piuttosto debole.

Peraltro, si dice che nei quindici anni in cui il frate diresse il tribunale i processi assommarono a 100.000 circa - una ventina al giorno; uno studioso francese, Francois Dedieu, ha calcolato che in quel periodo, per il solo tribunale di Toledo, gli inquisiti erano varie centinaia. Trattandosi di una comunità abbastanza ristretta, si arriva a stimare che circa metà della popolazione fosse coinvolta.

 

Per alcuni, le condanne a morte furono 2.000; per altri, addirittura, 8.800 eretici finirono arsi vivi. Stando ai calcoli di altri due noti studiosi, William Monter e John Tedeschi le condanne a morte emanate dall'Inquisizione furono nettamente più rare di quelle irrogate da qualsiasi tribunale penale ordinario.

Spesso, purtroppo, le cifre sono agitate come stendardi da esaltatori e detrattori, e confermano e smentiscono, a seconda delle simpatie suscitate; e per questo, preferiamo lasciarle ad altri.

 

Ad ogni modo, la giurisdizione sconfinata di cui il Grande Inquisitore godeva, esercitata in pieno con la denuncia del vescovo di Calahorra, Pedro de Aranda, fu limitata bruscamente, nel corso degli ultimi anni, da un papa (ironia della sorte) spagnolo, ovvero Alessandro VI Borgia, il quale stabilì che le cause relative ai vescovi sarebbero state, d’allora in poi, riservate alla giurisdizione papale. Fu deciso, inoltre, che le rendite confiscate dall’Inquisizione non sarebbero state assegnate all’organizzazione, ma versate nel tesoro regio. Ed infine, allo storico Grande Inquisitore - rimasto semplice frate - furono affiancati quattro coadiutori, tutti vescovi (Martin Ponce de Leòn, arcivescovo di Messina, Iñigo Manrique, vescovo di Cordova, Francisco Sanchez de la Fuente, vescovo di Avila, ed Alfonso Suarez de Fuentesalz, vescovo di Mondoñedo), che di fatto ne limitavano l’autorità. L’introduzione del reato di omosessualità tra quelli spettanti al giudizio dell’Inquisizione ed il divieto di ritorno in Spagna per i conversos riparati a Roma costituirono solo un palliativo, l’ultimo, per il vecchio Tomàs.

 

Dopo aver rifiutato la potente arcidiocesi di Siviglia volse la sua attenzione al convento di San Tommaso d’Aquino che aveva fondato ad Avila, e solo a questo destinò le risorse che avrebbe facilmente potuto manovrare, scegliendolo come luogo di futura sepoltura. Smise di vivere il 16 di settembre del 1498, a 78 anni, in quello stesso convento che aveva sempre protetto.



 

 

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