N. 32 - Agosto 2010
(LXIII)
UNA TIRANNIA MODERNA
Ezzelino III da Romano - Parte II
di Giuseppe Tramontana
Dal
consolidamento
del
dominio
alla
morte
di
Federico
II
(1237-1250)
Con
la
sottomissione
di
Verona,
Vicenza,
Padova
e
Treviso
Ezzelino
–
secondo
la
nota
affermazione
di
Ernst
Kantorowicz
–
“cominciò
a
costruire
sul
territorio
la
prima
Signoria
italiana”.
Ma
per
attuare
questo
progetto
occorreva
procedere
per
gradi,
passando
per
tappe
intermedie.
Innanzitutto,
considerato
che
Federico
era
in
Germania
e
che
aveva
lasciato
ad
esercitare
qualche
forma
di
controllo
il
fedele
Gaboardo
di
Arnstein,
Ezzelino,
per
poter
avere
mano
libera,
pensò
bene
di
spedire
quest’ultimo
dallo
stesso
Federico
col
pretesto
di
annunciargli
la
presa
delle
ultime
due
città,
Treviso
e
Padova.
L’imperatore,
ovviamente,
aveva
anch’egli
–
come
si è
visto
– i
suoi
progetti
ed
un
alleato
come
il
da
Romano
era
una
pedina
fondamentale
per
il
raggiungimento
dei
suoi
universalistici
scopi
di
dominio.
Dal
suo
punto
di
vista,
nonostante
–
come
scrive
il
Voltmer
–
cercasse
di
“frenare
l’ambizione
di
Ezzelino,
la
grande
congiuntura
politica
presto
lo
convinse
a
lasciargli
mano
libera
nella
Marca”.
Anche
di
questo
atteggiamento
di
Federico,
approfittò
immediatamente
il
da
Romano
per
proseguire
sulla
strada
della
realizzazione
dei
suoi
obiettivi.
All’indomani
della
presa
di
Padova,
diede
il
via
ad
una
vasta
epurazione.
Moltissimi
padovani,
sospettati
di
essere
vicini
ad
Azzo,
furono
deportati
in
Puglia,
altri
furono
trasferiti
forzosamente
nei
castelli
di
Fonte,
Cortina
e
Cittadella,
altri
ancora
vennero
tratti
in
arresto
e
condotti
in
Friuli
sotto
la
custodia
di
Uguccione
da
Prata.
Naturalmente,
Ezzelino
fece
ciò
nella
convinzione
di
liberarsi
di
tutti
coloro
che
potevano
rappresentare
un
ostacolo
ai
suoi
progetti
egemonici,
a
cominciare
dal
frate
Giordano
Forzatè,
abate
del
monastero
di
S.
Benedetto,
uomo
virtuoso
con
grande
seguito
tra
la
popolazione.
Egli
lo
fece
mettere
agli
arresti,
nonostante
le
proteste
del
vescovo
e
del
clero
padovani,
e
tradurre
nel
carcere
di
San
Zenone.
Questo
gesto
gli
inimicò
tutto
il
clero
e
gran
parte
di
esso
ne
approfittò
per
fuggire
o a
Ferrara
o
presso
il
marchese
d’Este.
Comunemente
è in
questo
periodo
che
viene
collocata
la
trasformazione
in
‘tirannide’
del
potere
di
Ezzelino.
Pervenuto
ad
una
prima,
sommaria
sistemazione
delle
vicende
patavine,
indirizzò
i
suoi
sforzi
all’adempimento
dei
propri
doveri
di
alleato
imperiale.
In
questo
senso,
il
maggior
contributo
fu
quello
fornito
nella
famosa
battaglia
di
Cortenuova
del
novembre
1237,
vinta
dalla
parte
imperiale.
In
conseguenza
di
tale
vittoria
città
come
Lodi,
Vigevano,
Novara,
Vercelli
e
Torino
si
arresero
a
Federico.
Ma
all’appello
mancava
Milano,
la
quale
–
memore
delle
battaglie
contro
Federico
Barbarossa
- si
preparava
ad
un’accanita
resistenza.
Sul
piano,
invece,
dei
rapporti
personali,
seppur
Federico
II
dovette
cercare
per
qualche
tempo
di
frenare
ed
Ezzelino,
grazie
all’esito
trionfale
della
battaglia
contro
i
comuni
guelfi,
strinsero
un
vero
sodalizio
politico
e
privato:
nel
1238
l’imperatore
diede
in
moglie
al
da
Romano
la
figlia
Selvaggia,
mentre
l’altro
fece
sposare
una
sua
nipote
con
re
Enzo,
figlio
di
Federico.
Il
1239
segnò
l’inizio
di
una
nuova
fase
di
lotte
tra
Impero,
da
un
lato,
e
Papato
e
Lega
Lombarda,
dall’altro.
Ai
primi
dell’anno,
mentre
Federico
si
trovava
a
Padova,
ospite
di
Ezzelino,
la
Lega
si
ricostituì,
accogliendo
tra
le
sue
fila
anche
Venezia
e
Genova.
L’imperatore,
dal
canto
suo,
nel
tentativo
di
riavvicinarsi
alla
Chiesa,
staccandola
dall’alleanza
coi
Comuni,
fece
tornare
alcuni
esuli
padovani,
per
lo
più
religiosi.
Ma
proprio
quando
tutto
pareva
avviarsi
per
il
verso
più
favorevole,
il
giorno
di
Giovedì
Santo,
il
papa
Gregorio
IX,
quasi
all’improvviso,
lanciò
una
solenne
scomunica
contro
di
lui
e
tutti
i
suoi
partigiani,
nobili
e
popolo,
laici,
come
lo
stesso
Ezzelino,
ed
ecclesiastici,
come
il
Patriarca
di
Aquileia.
Quasi
contemporaneamente
il
papa
inviò
una
lettera
ad
Alberico,
fratello
di
Ezzelino,
anch’egli
alleato
di
Federico,
con
la
quale
lo
esortava
a
rompere
ogni
legame
con
la ‘pars
imperialis’,
compreso
il
fratello.
Questo
fu
il
primo
cuneo
che
si
inserì
nei
rapporti
tra
i
due
da
Romano.
Ma,
da
lì a
poco,
l’incrinatura
si
trasformò
in
vera
e
propria
rottura.
Infatti,
Ezzelino,
persuaso
che,
nonostante
i
colloqui
avviati
dall’imperatore
con
Azzo
VII,
con
costui
non
si
sarebbe
mai
giunti
ad
alcuna
pacificazione,
spinse
Federico
a
farsi
consegnare
–
quale
pegno
di
fedeltà
–
sia
i
castelli
appartenenti
allo
stesso
Azzo
sia
il
suo
unico
figlio,
Rinaldo,
e la
moglie
di
quest’ultimo,
Adelaide,
figlia
di
Alberico,
i
quali
,
come
ostaggi,
vennero
esiliati
in
Puglia.
Fu a
questo
punto
che
Alberico,
individuando
nel
fratello
il
responsabile
dell’esilio
della
figlia
e
del
genero,
ruppe
con
lui,
abbandonò
la
causa
imperiale
e,
unitosi
con
Biaquino
e
Guecellone
da
Comino,
espugnò
Treviso,
costringendo
alla
fuga
il
podestà
Jacopo
da
Morra
(15
maggio
1239).
Successivamente,
nonostante
i
tentativi
di
riconquistarla
da
parte
di
Federico
ed
Ezzelino,
la
città
rimase
ad
Alberico.
Un’altra
illustre
defezione
si
ebbe
nel
giugno
di
quello
stesso
anno
allorché
la
causa
imperiale
venne
abbandonata
anche
dal
marchese
d’Este
e
dai
suoi
seguaci,
proprio
mentre
stava
per
profilarsi
lo
scontro
decisivo
con
la
Lega.
A
questo
punto,
Ezzelino
era
l’unico
rimasto
fedele
e
quando
l’imperatore
si
recò
a
Cremona
lo
lasciò
padrone
dell’intero
territorio.
“Ufficialmente
–
ricorda
Rapisarda
–
vicario
generale
della
Marca
era
il
pugliese
Francesco
Tebaldo,
podestà
di
Padova,
il
quale,
però,
aveva
ricevuto
l'ordine
di
obbedire
in
tutto
al
da
Romano,
il
che
equivaleva
al
conferimento,
a
quest'ultimo,
di
un
potere
illimitato
sopra
un
vastissimo
territorio
che
andava
dall'Oglio
al
Patriarcato
di
Aquileia
e
dal
Po a
Trento”.
Paradossalmente
proprio
questa
scelta
di
Federico
mette
in
evidenza
i
limiti
della
sua
politica.
Infatti,
come
ha
messo
in
luce
il
Voltmer,
ciò
che
altrove
riuscì
senza
grandi
difficoltà,
ossia
la
ricerca
di
un
nuovo
assetto
politico-amministrativo
accentrando
sulla
sua
persona,
anche
grazie
all’insediamento
di
vicari,
podestà
e
capitanei
totalmente
dipendenti
dalle
sue
direttive,
qui
“poté
essere
realizzato
solo
al
prezzo
di
particolari
concessioni
ad
Ezzelino”.
Ed
in
effetti,
la
posizione
di
forza
del
da
Romano
–
prosegue
lo
storico
tedesco
–
“non
fu
scalfita
dai
tentativi
imperiali
di
riforma
politico-amministrativa,
poiché
nelle
diocesi
di
Trento
e
Bressanone,
nelle
città,
da
Trento
a
Verona
e
fino
a
Padova,
i
podestà
ed i
vicari
inviati
dall’imperatore
furono
suoi
(del
da
Romano,
n.d.a.)
parenti
o
sue
creature
e
comunque
dovevano
giurargli
obbedienza”.
A
testimonianza
di
quanto
sopra
affermato,
si
può
ricordare
come,
dopo
le
iniziali
designazioni
di
Federico,
fu
Ezzelino
a
scegliere
il
vicario
della
Marca,
che
aveva
sede
a
Padova.
Infatti,
dopo
che
nel
1239
l’imperatore
diede
l’incarico
al
già
citato
Francesco
Tebaldo
Francigena,
sostituito
a
sua
volta
nel
1242
da
Galvano
Lancia,
anch’egli
scelto
da
Federico,
nel
1244
Ezzelino
estromise
quest’ultimo
collocando
al
suo
posto
il
bresciano
Guizzardo
da
Redondesco,
che
riunì
nella
sua
persona
la
carica
di
vicario
imperiale
e
quella
di
podestà.
Questo,
oltre
tutto,
non
sarà
il
solo
caso
che
vedrà
questo
abbinamento.
Infatti,
esso
si
riprensenterà
con
Guglielmo
da
Prata
e
Ansedisio
Guidotti,
nipote
del
da
Romano.
A
Verona,
invece,
per
ben
cinque
anni
–
dal
1240
al
1245
–
dominò
un
altro
nipote
di
Ezzelino,
Enrico
da
Egna,
al
quale,
comunque,
succedettero
personaggi
a
lui
fedeli.
In
breve,
allora,
è
corretta
l’affermazione
di
Varanini
allorché
sostiene
che
tutte
queste
vicende
danno
un’idea
dei
rapporti
tra
l’imperatore
e il
da
Romano.
Nonostante
la
saldatura
e le
intese
avvenissero
attorno
a
precisi
interessi
personali
e la
sostanziale
lealtà
del
signore
veneto
alla
causa
imperiale
fosse
indiscussa,
è
pur
vero
che
l’azione
di
Ezzelino
fu
caratterizzata
“da
una
progressiva
emancipazione
(…)
rispetto
alla
politica
imperiale
fino
al
1250,
anno
della
morte
dell’imperatore”
.
Gli
anni
che
andarono
dal
1242
al
1248
segnarono
un
ulteriore
allargamento
dei
possedimenti
ezzeliniani.
Già
nel
1240
aveva
acquistato
da
Guido,
conte
di
Vicenza,
nonché
suo
parente,
i
castelli
di
Santorso
e
Schio.
Poi,
nella
zona
di
confine
tra
i
territori
di
Verona
e
Mantova,
furono
riprese
le
fortezze
di
Villimpenta,
Gazzo
e
Ostiglia
(importante,
quest’ultima,
per
suo
porto
sul
Po)
e
vennero
ricostruiti
i
castelli
di
Villafranca
e
Nogara.
In
Val
d’Adige
venne
acquisito
il
castello
di
Ossenigo.
Nel
veronese,
al
confine
con
il
vicentino,
furono
presi
i
centri
di
Gambellara
e
Illasi,
mentre
la
nemica
San
Bonifacio
venne
distrutta.
Nel
padovano,
la
conquista
più
importante
si
ebbe
nel
marzo
del
1242
allorché
fu
presa
Montagnana
che
venne
dotata
delle
possenti
mura
–
lunghe
1925
metri
–
tuttora
esistenti.
Nello
stesso
anno,
nel
trevigiano,
alcuni
dei
principali
castelli
appartenenti
alla
famiglia
da
Camino,
vennero
affidati
ad
Ezzelino.
Tra
questi,
le
fortezze
di
Oderzo,
Serravalle,
Motta,
Camino,
Cessalto
e
Fregona.
Sempre
nel
1242,
poi,
Uguccione
da
Pileo
gli
cedette
i
castelli
di
Montecchio
e
Montebello,
nel
vicentino.
Pojano
e
Lonigo,
invece,
furono
acquistate.
Tra
il
1242
e il
1246
fu
acquisito
anche
il
castello
di
Vidor,
sul
Piave,
e,
subito
dopo,
–
tra
acquisti,
lasciti
e
donazioni
–
caddero
nelle
sue
mani
anche
i
centri
di
Fonte,
Asolo,
Crespignano,
Moliparte
(Monleopardo),
Cornuda,
Montebelluna
e
Onigo.
Mestre
e
Noale
furono
conquistate
nel
1245.
Infine,
nel
1248
Ezzelino
mise
le
mani
su
feudi
di
Nervesa
e
del
Montello.
Ma
questa
fu
una
conquista
‘per
interposta
persona’
visto
che,
formalmente,
il
beneficiario
fu
la
famiglia
Guidotti
–
fedeli
alleati
di
Ezzelino
– i
quali
ottennero
il
riconoscimento
imperiale
del
merum
et
mixtum
imperium
sui
feudi
suddetti.
Ma
il
1248
fu
anche
l’anno
della
disastrosa
battaglia
di
Parma.
Questa
città,
tradizionalmente
ghibellina,
era
caduta
in
mani
filo-papali
e
Federico
II
iniziò
le
manovre
per
riconquistarla
al
suo
campo.
Ezzelino
raccolse
immediatamente
l’appello
dell’imperatore
e,
con
un
grosso
esercito,
si
mise
in
marcia
alla
volta
della
città
emiliana.
Riunitosi
a re
Enzo,
insieme
espugnarono
Brescello
e
chiusero
la
via
di
Parma.
Non
restava
che
prepararsi
ad
un
lungo
assedio.
Venne
addirittura
costruita
un’apposita
cittadella
-
chiamata
Vittoria
- di
supporto
agli
assedianti.
Sembrava
fosse
solo
una
questione
di
tempo.
Ma
la
città
non
solo
non
capitolò,
ma,
il
18
febbraio
1248,
con
una
sortita
improvvisa
i
parmensi
portarono
il
contrattacco,
distruggendo
Vittoria
e
facendo
strage
degli
imperiali.
Come
ricorda
il
Cracco,
Federico
lasciò
persino
il
tesoro
e le
insegne
imperiali
in
mano
al
nemico.
Da
lì a
poco,
poi,
anche
re
Enzo
sarebbe
stato
catturato
dai
bolognesi
nella
battaglia
di
Fossalta.
Dopo
la
disfatta,
Ezzelino
ritornò
nella
Marca.
Le
sue
ambizioni
non
erano
diminuite.
Quasi
senza
riposarsi
si
diresse
a
Feltre,
la
quale,
ribellatasi
(così
come
Belluno)
l’anno
precedente,
da
allora
era
sotto
assedio.
Nel
maggio
di
quel
1248,
però,
Feltre
capitolò.
Belluno
si
arrese
l’Anno
successivo.
Va
rilevato,
che
–
come
si
dirà
più
avanti
– fu
proprio
durante
quest’ultimo
assedio
che
venne
scomunicato.
Riconquistate
quelle
due
città,
si
rivolse
verso
Este,
che
venne
espugnata
nel
settembre
di
quello
stesso
1249,
mentre
anche
Baone,
Vighizzolo
e
Vescovana
gli
si
consegnavano.
Ormai
resistevano
solo
le
ultime
rocche
degli
Estensi,
ossia
Cerro
e
Calaone,
che
caddero
l’anno
appresso.
Ma,
quasi
contemporaneamente,
gli
giunse
la
notizia
della
morte
di
Federico,
avvenuta
a
Castel
Fiorentino,
il
13
dicembre
1250,
all’età
di
54
anni.
Con
la
morte
dell’imperatore,
per
il
da
Romano,
il
panorama
politico-militare
cambiò
decisamente
in
peggio.
Egli
restava
l’unico
(e
ultimo)
baluardo
erto
contro
la
potenza
di
Papato
e
Lega:
ne
divenne
naturalmente
anche
il
più
facile
dei
bersagli.
Non
era
più
solo
l’alleato
fedele
di
un
imperatore
scomunicato,
ma
appariva
(o
veniva
fatto
apparire)
come
il
suo
erede
più
diretto,
portatore
di
un
progetto
ambizioso
di
unificazione
territoriale
basato
– da
vero
tiranno
-
sulla
cancellazione
delle
autonomie
(e
libertà)
cittadine.
A
questo
si
deve
aggiungere,
però,
anche
il
mutamento
cui
andò
incontro
la
sua
azione
di
governo
all’interno
delle
città
a
lui
sottomesse.
Questo
nuovo
e
più
duro
modo
di
amministrare
se,
da
un
lato,
legittimarono
agli
occhi
dei
cittadini
la
propaganda
negativa
che
i
suoi
nemici
gli
stavano
orchestrando
contro,
dall’altro,
contribuì
effettivamente
ad
alienargli
l’appoggio
di
quanti,
in
passato,
l’avevano
sostenuto,
aumentandogli
le
difficoltà
ed
aprendo
le
porte
a
quella
crisi
che
divorerà
tutta
la
sua
costruzione
statuale,
opera
di
una
vita.
La
svolta
‘tirannica’
nelle
città
e
l’inizio
della
crisi.
Solo
di
recente
la
storiografia
si è
impegnata
in
un
approfondimento
delle
vicende
relative
al
sistema
di
governo
instaurato
da
Ezzelino
all’interno
delle
città
a
lui
soggette.
Tradizionalmente
gli
storici
avevano
proposto
un’immagine
semplicemente
(per
non
dire
semplicisticamente)
‘tirannica’
del
da
Romano,
sulla
scorta
di
uno
stereotipo
risalente,
in
pratica,
direttamente
al
Medioevo.
Poco
ci
si
era
soffermati
sul
grande
ed
originale
disegno
di
Ezzelino
ossia
sul
tentativo
superare
il
particolarismo
politico
e
territoriale
delle
singole
realtà
cittadine
a
favore
di
un
organismo
più
ampio,
complesso
ed
articolato,
tendenzialmente
su
base
regionale,
anticipando
di
quasi
due
secoli
le
esperienze
signorili
toscane
o
lombarde.
Come
è
risaputo,
il
da
Romano,
in
realtà,
in
nessuna
delle
tre
città
dominate
assunse
titoli
ufficiali,
benché
dalla
sua
azione
e
dalle
sue
lettere
si
evince
chiaramente
l’esistenza
di
una
pienezza
ed
indiscussa
autorità.
Infatti,
pur
con
notevoli
differenze,
l’autorità
dei
podestà
e
dei
rettori
cittadini
derivava
dall’imperatore,
giacché
da
quest’ultimo
erano
nominati.
Come
ricorda
Varanini,
“ancora
nel
1248
(…)
Conegliano
ha
un ‘potestas
pro
imperio’,
e
nel
1249
Monselice
(…)
è
retta
da
un
pugliese”
.
Sotto
il
suo
dominio,
peraltro,
la
vita
economica,
politica
e la
strutturazione
sociale
delle
grandi
città
non
andarono
incontro
a
grossi
sconvolgimenti.
“Ora
-
scrive
il
Bortolami
– se
l’organizzazione
per
partes
rientrava
nella
fisiologia
e
nella
concezione
della
vita
politica
comunale
e
con
essa
la
legittimità
della
sopraffazione
dell’un
gruppo
da
parte
dell’altro
a
seconda
della
più
o
meno
favorevole
situazione
esistente
in
città,
va
subito
detto
che
l’esercizio
dell’enorme
potere
di
fatto
che
Ezzelino
si
trovò
ad
avere
nella
terraferma
veneta
in
quanto
capo
militare
e
consigliere
dello
schieramento
filo-imperiale
(…)
non
si
esplicò
affatto,
almeno
fino
al
1243
(…)
in
forme
gran
che
dissonanti
da
logiche
e
pratiche
tradizionali”.
Basta
pensare,
a
tal
riguardo,
che
neanche
l’assetto
istituzionale
dei
Comuni
subì
modifiche
sostanziali.
I
consigli
maggiori
continuarono
a
riunirsi
e
funzionare,
benché
spesso
lo
facessero
solo
per
approvare
quanto
già
deciso
da
Ezzelino,
così
come
i
procuratori,
gli
stimatori,
gli
ingrossa
tori
ed i
banditori
continuassero
a
svolgere
regolarmente
la
loro
attività.
Rimase
anche
attiva
una
cancelleria
e si
ebbe
il
consueto
stuolo
di
notai
addetti
ai
diversi
uffici,
a
partire
da
quello,
importantissimo
del
Sigillo.
Inoltre,
continuò
ad
essere
garantito
il
consueto
raccordo
tra
comune
urbano
e
comunità
del
territorio
per
quanto
riguardava
la
designazione
dei
podestà
e
l’imposizione
di
servizi
sociali,
oneri
fiscali,
lavori
pubblici.
Nel
settore
dei
lavori
pubblici,
ad
esempio,
fu
organizzato,
anche
con
l’apporto
della
popolazione
contadina,
un
servizio
diretto
alla
regolazione
e
alla
sistemazione
della
rete
idrografica.
Per
quanto
concerne,
poi,
la
sfera
fiscale,
Ezzelino
tentò
di
garantire
il
rispetto
dei
principi
di
equità
contributiva
solennemente
sanciti
dalla
riforma
degli
anni
1234-1235.
A
Padova
e
Vicenza,
poi,
l’organismo
cui
era
demandata
la
trattazione
delle
questioni
fiscali
funzionava
efficacemente.
Altro
aspetto
sintomatico
che
permette
di
comprendere
come
il
dominio
ezzeliniano
(almeno
precedentemente
al
1250)
fosse
caratterizzato
anche
da
una
certa
dose
di
liberalità
è
quello
relativo
all’Università
di
Padova.
Questa,
anche
quando
il
da
romano
prese
la
città
(1237),
rimase
attiva
e
pienamente
funzionante.
Addirittura
venivano
studenti
e
professori
dalla
lontana
Inghilterra,
dalla
Spagna,
dalla
Polonia,
dalla
Moravia.
E’
evidente,
allora,
che
ancora
nel
1241,
queste
persone
dovevano
trovare
a
Padova
non
solo
storiche
opportunità
di
personale
colto
e
materiale
librario,
ma
anche
un
minimo
di
sazio
istituzionale
per
esprimersi,
se
all’epoca
vi
erano
tre
rettorie
studentesche
(Yspaniorum,
Italicorum
et
Longobardorum,
Francigenorum),
caratteristiche
dell’antica
organizzazione
universitaria.
Un
altro
aspetto
importante,
in
merito
all’azione
politica
del
da
Romano
dentro
le
città,
è
quello
riguardante
la
politica
verso
i
ceti
produttivi.
Scrive,
a
tal
proposito,
il
Bortolami
che
“il
pur
agguerrito
‘popolo’
di
piccoli
imprenditori,
di
bottegai,
di
maestri
artigiani,
di
lavoranti,
di
addetti
ai
più
disparati
servizi
che
avevano
nelle
corporazioni
di
mestiere
un
forte
elemento
di
richiamo
e di
coesione
non
sembra
sia
stato
oggetto
di
speciali
misure
di
repressione”.
Fino
alla
morte
di
Federico
ed
alla
recrudescenza
delle
lotte
nella
Marca,
dunque,
la
libertà,
nelle
città,
non
subì
grandi
restrizioni
rispetto
al
passato.
Gli
organismi
politico-amministrativi
continuavano
a
funzionare,
l’attività
economica
trovava
i
suoi
sbocchi
naturali,
la
cultura
viveva
i
suoi
momenti
di
fortuna
e di
sviluppo.
Ma
dal
1250
le
cose
giunsero
ad
una
svolta.
Scomparsa
l’autorità
e la
forte
personalità
di
Federico,
la
pars
imperiale
si
trovò
in
una
situazione
critica.
Coloro
che
successero
al
defunto
imperatore
si
dimostrarono
debolissimi,
oltre
che
di
non
eccelse
qualità
di
comando,
destinati
–
nel
giro
di
meno
di
vent’anni
– a
portare
alla
scomparsa
persino
della
dinastia
sveva.
Attorniato
da
ogni
parte
da
numero
e
potenti
nemici,
privo
di
un
alleato
di
spicco
come
lo
era
stato
Federico
II,
vittima
di
un’ostinata
propaganda
che
faceva
leva
sui
sentimenti
più
intimi
della
massa
dei
cittadini
a
lui
soggetti,
spinti
a
ribellarsi
al
potere
di
un
tiranno
accostato
tout
court
a
Satana,
e,
ciò
nonostante,
cultore
di
un
sogno
di
potenza
regionale,
Ezzelino
fu
risoluto
nel
mutare
in
senso
più
autoritario
la
sua
azione
politica.
E
nel
tentativo
di
colpire
i
nemici,
ovunque
si
trovassero,
giunse
perfino
a
cancellare
quelle
prerogative
di
autonomia
di
cui
i
comuni
erano
gelosi
custodi.
In
tal
modo,
naturalmente,
la
propaganda
nemica
venne
confermata
e,
allo
stesso
tempo,
alimentata,
innescando
un
perverso
meccanismo
di
sempre
più
dura
repressione
e
sempre
crescenti
dissensi.
Verona
Verona,
la
città
nella
quale
Ezzelino
si
era
stabilito,
ebbe
sempre
rapporti
fruttuosi
con
il
da
Romano,
tanto
che
qui
il
partito
ezzeliniano
poté
contare
su
sostenitori
affidabili
persino
dopo
la
morte
del
suo
leader.
E fu
un
caso
pressoché
unico
nelle
relazioni
tra
le
città
e il
loro
dominus.
A
tale
riguardo,
in
effetti,
il
Mor
nota
come,
“delle
tre
città
che
formano
il
complesso
stabile
del
dominio
ezzeliniano,
Verona
presenti
un
reggimento
tutt’affatto
particolare”.
Le
radici
di
questa
diversità
–
secondo
il
Varanini
–
vanno
ricercate
negli
anni
Trenta.
Poiché,
infatti,
Verona
aveva
giurato
fedeltà
all’Impero
fin
dal
1232,
gli
avvenimenti
del
1237
e
quelli
successivi
non
sconvolsero
la
continuità
del
regimen
cittadino.
Questa
continuità
è
avvertibile
anche
negli
anni
Quaranta.
Tra
il
1240
e il
1244
fu
podestà
Enrico
da
Egna,
nobile
tirolese,
alleato
fedele
di
Ezzelino.
Poi,
sostituito
per
pochi
mesi
tra
il
1244
e il
1245,
tornò
in
sella
dalla
fine
del
1245
al
febbraio
1247
quando
venne
ucciso
nel
palazzo
comunale.
Quindi
una
continuità
anche
nell’uomo,
non
solo
nella
forma
istituzionale.
Solo
tra
il
1253
e il
1259
–
scrive
il
Varanini
– si
ebbe
qualche
forma
di
cesura:
“compaiono
a
reggere
il
comune
di
Verona
in
prevalenza
funzionari
detti
vicarii
o
iudices
et
vicarii
(fino
a
che
nel
gennaio
1259
compare
di
nuovo
(…)
un
potestas
communis,
Mastino
della
Scala,
sostituito
nel
corso
dell’estate
da
un
vicarius,
e
poi
ancora
in
carica
come
potestas
populi
nel
novembre-dicembre
1259,
dopo
la
morte
di
Ezzelino
III)”.
Il
succitato
storico,
oltre
tutto,
segnala
come
“riferimenti
alla
piena
continuità
istituzionale
e
alla
validità
di
provvedimenti
presi
dai
podestà
degli
anni
’40
si
ricavano
dagli
statuti
cittadini
promulgati
nel
1276
e
noti
come
statuti
albertini”.
In
merito
al
funzionamento
dell’apparato
amministrativo,
va
evidenziato
che
una
delle
chiavi
di
volta
del
rapporto
tra
il
da
Romano
e la
città
di
Verona
fu
l’efficacia
impositiva.
“Non
stupisce
–
afferma
il
Varanini
– la
regolare
applicazione
del
sistema
delle
dazie
su
base
d’estimo,
l’imposizione
ai
singoli
contribuenti
del
mantenimento
di
cavalli,
la
tassazione
‘occasione
custodie
castrorum
veronensium’
dei
beni
ecclesiatici,
con
l’esezione
(…)
del
domus
religionis,
la
ripartizione
fra
le
comunità
del
distretto
di
obblighi
di
factones
consistenti
in
servizi
armati
(‘armati
villarum
veronensium’),
l’esazione
dalla
dacia
focolarium
e di
un
una
dacia
maleficiis
nel
distretto,
tutte
documentate
negli
anni
’40
e
’50”.
Per
quanto
concerne
la
altre
attività,
continuavano
ad
essere
presenti
ed
influenti
gli
esponenti
più
importanti
delle
magistrature
come
gli
extimatores,
va a
dire
i
due
giudici
– un
laico
ed
un
ecclesiastico
–
che
si
occupavano
del
controllo
dei
contratti
stipulati
dalle
chiese
e
dai
conventi,
i
procuratores
et
cercatores
, i
giudici
d’appello
per
le
cause
vertenti
su
somme
inferiori
a 10
lire,
i
quattro
giudici
consoli
(di
estrazione
cittadina),
i
giudici
podestarili.
Un
altro
aspetto
importante
fu
il
ruolo
di
‘capitale’
di
Verona,
all’interno
dei
possedimenti
ezzeliniani.
Infatti,
se
la
dimensione
sovracittadina
è
considerato
elemento
qualificante
del
potere
del
da
Romano,
non
si
può
trascurare
il
fatto
che
ruolo
di
città
guida
di
questo
vastissimo
dominio
territoriale
fu
Verona.
Tale
ruolo
poi
si
“concretizza
nella
circolazione
intercittadina
di
una
ristretta
cerchia
di
collaboratori
del
dominus
(giudici,
uomini
d’arme)”.
E
questa
primazia
di
Verona
aveva
anche
dei
risvolti
economico-sociali
di
rilievo.
Infatti,
come
ha
notato
il
Varanini,
le
spese
per
il
fasto
della
corte
veronese
erano
a
carico
del
contado
su
base
semestrale.
Il
fasto
era
utile
per
più
ragioni.
La
prima
– e
più
semplice
–
perché
serviva
a
creare
consenso
tra
i
cittadini
veronesi;
la
seconda
perché
le
spese
per
alimentarlo
arricchivano
le
élites
economiche,
imprenditoriali
e
mercantili
della
città,
tutte
cose,
poi,
che
si
tramutavano
anch’esse
in
consenso
per
Ezzelino.
Così,
ha
ragione
lo
storico
quando
afferma
che
“gli
amministratori
comunali
(…),
ma
in
particolare
i
cambiatori
locali,
forniscono
appoggio
e
traggono
vantaggi
dal
ruolo
di
‘capitale’
che
Verona
(…)
viene
ad
esercitare”.
Con
la
svolta
del
1250
e
l’inasprimento
delle
lotte,
Ezzelino
aumentò
la
pressione
nei
confronti
della
Chiesa
veronese,
giungendo
spesso
ad
espropriazioni
e
confische
di
cui
beneficiava
il
comune
cittadino.
Ad
esempio,
nel
1253,
Bernardo,
abate
di
Santa
Maria
in
Organo,
che
il
papa
considerava
tanto
affidabile
da
farlo
destinatario
di
alcune
lettere,
fu
prima
imprigionato
nel
palazzo
comunale
e
poi
trasferito
al
carcere
ubicato
presso
il
monastero
di
S.
Nazario,
dove
morì.
Tutti
i
beni
del
monastero
ove
aveva
vissuto
Bernardo
furono
incamerati
dal
comune
di
Verona.
Di
questi
casi
ne
accaddero
molti
e
sempre
con
la
copertura
del
comune
ed
un
consenso
aperto
del
ceto
dirigente,
in
particolare
allorché
si
trattava
di
confische
che
andavano
a
colpire
monasteri
semispopolati,
ormai
sterili
sotto
il
profilo
spirituale,
improduttivi
sotto
quello
economico
o
del
tutto
assenti
come
destinatari
di
scelte
testamentarie.
Tuttavia,
negli
ultimi
anni,
il
rafforzamento
della
partes
populares,
connesso
al
ridimensionamento
di
quella
aristocratica,
comportò
la
frantumazione
dei
centri
tradizionali
del
potere
cittadino,
a
beneficio
di
un’ulteriore
estensione
del
dominio
ezzeliniano.
Il
Cracco,
a
tal
proposito,
fa
notare
come
“nel
1252
il
Maggior
Consiglio
appare
formato
da
525
membri,
e
due
anni
dopo,
nel
1254,
da
ben
1238,
con
una
dilatazione
che
premiava
soprattutto
i ‘popolari’.
Ed
anche
il
Minor
Consiglio,
creato
nello
stesso
1254,
contava
tra
i
suoi
membri
(…)
anche
personaggi
di
estrazione
modesta”.
A
questo
punto,
Ezzelino,
allo
scopo
di
realizzare
il
suo
programma
politico,
fece
leva
su
questa
frantumazione
per
svuotare
definitivamente
il
Comune
delle
sue
prerogative,
aprendo
alla
partecipazione
della
maggioranza.
In
tal
modo
diede
il
colpo
definitivo
ad
ogni
eventuale
tentativo
di
autonomia,
incompatibile
con
il
suo
progetto
‘regionale’.
Vicenza
La
situazione
di
Vicenza,
per
molti
versi,
assomiglia
a
quella
di
Verona.
Fino
al
1250,
il
governo
ezzeliniano
della
città
berica
si
era
contraddistinto
per
il
favore
accordato
alla
borghesia
imprenditoriale
e
mercantile.
Aveva
dominato
un
sostanziale
clima
di
concordia
e
laboriosità.
Come
nota
il
Morsoletto,
a
tal
riguardo,
“lo
stato
di
pace
e di
equilibrio
sociale,
di
sicurezza,
il
progresso
e
l’incremento
demografico
e
l’alacre
ottimismo
che
ne
conseguirono
sono
confermati
anche
dalle
notizie
di
disboscamenti,
di
coltivazioni
di
piantagioni
di
vigneti
e di
oliveti
o di
costruzioni
di
case,
che
trapelano
dai
documenti”.
L’anno
della
morte
di
Federico
è
anche
quello
in
cui
mutano
i
rapporti
con
la
chiesa.
Fino
ad
allora
questi
rapporti
erano
decisamente
buoni,
gli
enti
ecclesiastici
non
erano
soggetti
a
gravami
o a
rilevanti
limitazioni
nella
gestione
delle
loro
fondazioni.
Persino
in
campo
giudiziario,
allorché
si
trattasse
di
casi
di
“mediocre
rilevanza,
l’intervento
comunale
tardivo
ed
il
reo
consenziente”,
la
pronuncia
delle
sentenze
era
lasciata
ai
nunzi
dei
monasteri.
Erano
buone
addirittura
anche
le
condizioni
di
relegati
e
carcerati
politici,
mentre
non
si
hanno
notizie
di
condanne
a
morte
dopo
il
1240.
Infatti,
scrive
il
Morsoletto
che
“al
di
là
delle
gratuite
accuse
di
deliberata
strage
e
dell’indole
sanguinaria
– e
contro
natura
–
lanciate
contro
Ezzelino
e
dai
cronisti,
rimane
il
fatto
che
egli
si
preoccupò
in
un
modo
ossessivo
di
controllare
i
dissidenti
e i
sospetti,
ma
senza
nuocere
troppo,
se
erano
solo
tali”.
Com’è
noto,
la
situazione
mutò
dopo
il
1250.
Anzitutto,
si
spezzò
il
rapporto
con
la
chiesa.
Il
vescovo
Manfredo
fu
costretto
all’esilio
e la
sede
vescovile
occupata
dalle
truppe
del
da
Romano,
vennero
attuate
espropriazioni
e
confische
e
tolta
ogni
prerogativa
giurisdizionale
ai
nunzi.
Per
tutta
risposta
un
gran
numero
di
monaci
e
preti
abbandonò
la
città,
spesso
alla
volta
di
Padova
o
Treviso.
Dal
punto
di
vista
della
struttura
istituzionale,
anche
qui
Ezzelino
lasciò
spazio
ai
ceti
‘popolari’,
i
quali
fecero
massiccio
ingresso
(addirittura
i
4/5,
nel
1254)
nel
Consiglio
Maggiore,
a
scapito
del
ceto
signorile,
spesso
legato
al
Papato
ed
alla
Lega.
In
tal
modo
scomparvero
dal
Consiglio
Maggiore
famiglie
di
antiche
tradizioni
autonomistiche
come
i
Beona,
i
Bono
Zacome,
i
Cornarolo,
i
Diana,
i
Maselli,
i
Pileo,
i
Manuele,
gli
Ubertelli
e
altre
ancora.
Per
controllare
più
efficacemente
il
territorio,
vennero
rafforzate
le
difese
nelle
posizioni
chiave.
Il
comando
di
tali
posizioni
venne
affidato
a
capitani
fidati,
ma
forestieri,
a
significare
l’inaffidabilità
dei
capitani
locali,
per
la
maggior
parte
legati
alle
famiglie
aristocratiche.
Così
al
comando
delle
piazzeforti
si
ebbero
il
trevigiano
Giacomo
Guidotti,
fratello
di
Ansedisio,
a
Vicenza,
il
veronese
Boninsegna
degli
Enverardi
a
Marostica
e
Giovanni
di
Apicena
ad
Altavilla.
Successivamente,
dopo
la
caduta
di
Padova
e
gli
attacchi
delle
truppe
guelfe
provenienti
da
questa
città,
riprese
l’esodo
di
molti
proprietari
e
feudatari,
religiosi
e
renitenti
al
servizio
militare.
Ciò
comportò
un
durissimo
giro
di
vite
ai
danni
della
città.
Di
fatti
si
passò
ad
una
vera
e
propria
occupazione
militare
cosa
che
comportò
la
sospensione
di
ogni
attività
politico-amministrativa,
l’accelerazione
della
requisizione
dei
beni
ecclesiastici
(“ma
è da
notare
–
scrive
il
Cracco
–
che
nemmeno
in
questo
periodo
burrascoso
le
requisizioni
si
ridussero
a
mera
rapina
indiscriminata
e
spietata”)
ed
il
ricorso
a
provvedimenti
repressivi,
compresi
ritorsioni
e
ricatti
sui
parenti
vicentini
dei
nemici.
Padova
A
Padova
si
assistette
alla
stessa
svolta,
seppur
con
modalità
ancor
più
cruente.
Fino
al
1244
Ezzelino
non
aveva
intaccato
l’autonomia
del
Comune.
La
città,
schieratasi
ufficialmente
dalla
parte
dell’impero,
aveva
mantenuto
anch’essa
i
suoi
organi
politici,
il
suo
podestà
e le
sue
prerogative.
A
partire
dal
1244
Ezzelino
cominciò
a
lavorare
per
realizzare
anche
nella
città
patavina
il
suo
disegno.
In
quell’anno,
infatti,
come
si è
visto,
venne
deposto
Galvano
Lancia,
uomo
di
Federico,
sostituito
da
Guizzardo
da
Redondesco,
fedele
del
da
Romano.
Con
quest’anno
Ezzelino
volle
concentrare
direttamente
nelle
sue
mani
il
controllo
della
città.
“Ad
un
certo
punto
–
spiega
Cracco
–
con
molte
probabilità,
in
coincidenza
con
il
declino
di
Federico,
il
triangolo
vicario
imperiale-Comune-Ezzelino
parve
allo
stesso
Ezzelino
una
formula
non
più
adatta
a
garantire
il
governo
di
Padova.
Tanto
più
che
con
quella
formula
Ezzelino
non
era
riuscito
affatto
a
estirpare
dalla
città
il
partito
filoestense
(…)
e
men
che
meno
a
domare
la
società
padovana”.
In
effetti,
la
resistenza
delle
famiglie
aristocratiche
a
Padova
si
manifestò
più
dura
che
altrove,
riuscendo
persino
a
coagulare
attorno
a sé
quegli
strati
‘popolari’
che
nelle
altre
realtà
erano
schierati
al
fianco
del
dominus.
A
dire
il
vero,
Ezzelino
–
come
sottolinea
il
Bortolami
–
aveva
anche
tentato
di
calarsi
maggiormente
nella
realtà
padovana
(verosimilmente
per
meglio
controllarla),
giungendo
persino
a
sposarsi
con
Beatrice
di
Castelnuovo
(il
16
settembre
1249).
Ma
sia
la
morte
dell’imperatore,
con
quello
che
ne
seguì
in
termini
di
recrudescenza
della
guerra
contro
di
lui,
sia
la
volontà
di
accelerare
la
lotta
ai
ceti
filoestensi
portarono
ad
un
violentissimo
scontro
frontale.
L’azione
del
da
Romano
fu
decisa.
Vennero,
innanzi
tutto,
colpiti
i
membri
delle
famiglie
più
influenti
come
i
Dalesmanini,
ma
anche
ecclesiastici
e
uomini
del
popolo,
mercanti
e
ricchi
borghesi
allorché
si
ebbe
qualche
sospetto
di
loro
legami
con
gli
aristocratici
vicini
agli
Estensi.
All’inizio
si
trattò
di
atti
di
rappresaglia
sporadici,
poi
le
pene
capitali,
le
mutilazioni,
le
condanne
all’esilio
o
alla
detenzione
alle
Zilie
furono
eventi
all’ordine
del
giorno.
Scrive
il
Bortolami
che
l’estendersi
dei
sospetti
di
tutti
contro
tutti
rese
la
città
invivibile,
nessuno
poteva
dirsi
al
sicuro.
Si
fece
ricorso
alle
accuse
montate,
e
all’uso
sistematico
della
delazione;
“si
costruirono
immondi
e
fetidi
reclusori
per
carcerazioni
di
massa,
come
la
Malta
di
Cittadella
e le
cosiddette
Zilie
di
Padova,
da
cui
decine
e
decine
di
corpi
di
esseri
umani
in
necrosi,
anneriti
e
disseccati,
vennero
estratti
ogni
giorno
a
carrettate,
per
essere
malamente
interrati
in
fosse
comuni
e
addirittura
dissepolti
e
straziati
nottetempo
dai
lupi”.
Padova
fu
trasformata
in
una
sorta
di
opprimente
caserma
con
porte
e
torri
d’accesso
rigorosamente
in
mano
al
signore
e ai
suoi
scherani
calati
dai
monti
o
provenienti
da
Vicenza.
Gli
esuli
vennero
richiamati
per
sopprimerli
e,
ovviamente
ricominciarono
le
defezioni
e le
fughe
con
l’effetto
di
ingrossare
a
dismisura
il
numero
dei
fuoriusciti.
Addirittura,
ci
fu
chi
si
suicidò
per
disperazione
o
preferì
abbandonare
la
dura
realtà
mondana
vestendo
l’abito
religioso.
Ezzelino
procedette
alla
confisca
violenta
delle
sostanze
e
dei
beni
dei
privati
e
del
Comune,
particolarmente
terre,
torri
e
castelli,
che
passarono
sotto
la
diretta
amministrazione
del
dominus.
Venne
adottato
un
sistema
di
prelievo
che
si
avvicinava
più
alla
spoliazione
che
alla
contribuzione.
Naturalmente,
quest’attacco
violentissimo
alla
libertà
dei
padovani
non
fu
dovuta
a
mera
malvagità
del
da
Romano
(tesi
affermatasi,
un
po’
semplicisticamente,
nella
storiografia
immediatamente
posteriore)
né a
vendetta
contro
i
padovani
orgogliosi
e
liberi
(tesi
di
Rolandino).
In
realtà,
come
ha
notato
il
Bortolami,
“nel
significato
politico
più
profondo
il
gesto
corrispose
a
una
chiara
e –
possiamo
aggiungere
–
ben
calcolata
sterzata
in
senso
autocratico
del
potere
di
Ezzelino
e al
suo
definitivo
abbandono
di
una
mera
politica
delle
possibilità”
(46).
Insomma
fu
il
progetto
politico
che
cullava
a
spingerlo
verso
la
strada
dello
scontro
feroce
con
l’aristocrazia
padovana
ed i
ceti
ad
essa
vicini.
La
parabola
finale
(1251-1259)
Dopo
la
morte
di
Federico
II,
l’Impero
passò
al
figlio
Corrado
IV,
il
quale
scese
in
Italia
nel
1251
con
il
proposito
di
arrivare
fino
in
Sicilia
mediante
l’aiuto
dei
ghibellini.
Ma
gli
appoggi
che
arrivarono
furono
alquanto
tiepidi
e,
dal
punto
di
vista
logistico-militare,
decisamente
scarsi.
Nessuno
dei
vecchi
alleati
di
Federico,
a
dire
il
vero,
aveva
ormai
interesse
a
sostenere
il
progetto
di
un
Impero
forte,
accentrato
e –
per
quello
che
si
era
potuto
vedere
sotto
il
predecessore
–
nemico
delle
autonomie.
Per
gli
stessi
motivi,
invece,
la
presenza
di
Corrado
suscitò
l’allarme
e le
reazioni
del
Papato
e
della
Lega
Lombarda,
la
quale,
l’8
marzo
1252,
sotto
l’alto
patrocinio
del
cardinale
Ottaviano,
legato
papale,
venne
rinnovata
ed
allargata
alla
partecipazione
di
Milano,
Alessandria,
Brescia,
Modena,
Parma,
Reggio
Emilia,
del
marchese
d’Este
con
Ferrara,
di
Alberico
da
Romano
con
Treviso
del
conte
di
Sambonifacio.
Anche
il
papa
Innocenzo
IV
vi
aderì.
La
risposta
di
Ezzelino
fu
immediata
tramite
l’alleanza,
stipulata
sempre
nel
marzo
del
1252
e
poi
rinnovata
nel
luglio
di
due
anni
dopo,
con
Oberto
Pallavicino,
autoproclamatosi
signore
di
Cremona.
Ma
la
parabola
di
Corrado
giunse
presto
alla
sua
conclusione:
il
21
maggio
1254,
a
Lavello,
morì.
Esclusa
la
brevissima
parentesi
di
Corradino,
con
Corrado
IV
venne
a
mancare
anche
l’elemento
di
coagulo
attorno
ad
un’idea
forte
di
Impero.
Di
fatti
finiva
la
stagione
del
sogno
federiciano,
il
sogno
di
un
monopolio
laico
del
potere.
Morto
lui,
però,
vi
erano
ancora
uomini
fedeli
a
quell’idea
o,
comunque,
ad
un’idea
di
potere
laico
da
esercitarsi
su
un
vasto
dominio
territoriale.
Il
più
importante
di
costoro
era
indubbiamente
Ezzelino.
Il
primo
a
comprenderlo
fu
il
papa,
che,
liberato
dall’incubo
di
Corrado,
il
20
luglio
1254,
da
Anagni,
bandì
una
crociata,
diretta,
ufficialmente,
contro
gli
eretici,
concedendo
ai
crociati
numerose
indulgenze
e,
nel
caso
ne
fossero
stati
colpiti,
la
revoca
della
scomunica,
ad
eccezione
di
Ezzelino
e
Oberto
Pallavicino.
Quindi,
in
realtà,
la
crociata
era
contro
di
loro.
Tuttavia,
la
campagna
non
decollò
anche
a
causa
della
morte
di
Innocenzo
IV,
nel
dicembre
dello
stesso
anno.
Per
quasi
un
anno
non
se
ne
parlò
più.
In
realtà,
il
nuovo
papa
Alessandro
IV
stava
studiando
la
situazione
per
dare
il
colpo
decisivo
al
da
Romano
e
pensava
addirittura
al
dopo-Ezzelino
nella
Marca.
“In
questa
luce
–
dice
il
Cracco
– si
può
leggere
la
nomina
di
un
nuovo
vescovo
di
Vicenza,
da
lui
fatta
direttamente,
saltando
le
competenze
del
Capitolo
locale”.
La
scelta
cadde
sul
dominicano
Bartoloneo
da
Breganze,
ex
vescovo
di
Cipro
e
professore
a
Roma.
A
lui
venne
affidato
il
compito
di
prendere
in
mano
le
redini
della
città
in
vista
della
caduta
del
da
Romano.
Operate
queste
mosse
preliminari,
il
20
dicembre
1255
Alessandro
IV
bandì
la
nuova
crociata
e
questa
volta
l’obiettivo
era
chiarissimo:
Ezzelino.
Quest’ultimo,
da
parte
sua,
si
preparò
ad
affrontare
adeguatamente
la
situazione.
Dopo
aver
riconquistato
Trento,
partì
per
assediare
Mantova,
dove
si
ricongiunse
con
il
Pallavicino.
Ma
mentre
era
in
corso
quest’assedio,
venne
raggiunto
dalla
notizia
della
presa
di
Padova
da
parte
dei
crociati,
guidati
dal
legato
papale
Filippo
Fontana
(20
giugno
1256).
La
caduta
di
Padova
fu
un
duro
colpo
per
il
da
Romano,
ma
non
sufficiente
per
abbatterlo
del
tutto.
Anzi.
All’inizio
dell’anno
successivo,
nel
tentativo
di
ricostituire
attorno
a sé
una
forte
alleanza,
si
pacificò
col
fratello
Alberico.
Da
lì a
poco,
le
battaglie
che
i da
Romano,
insieme
condussero,
li
portarono
prima
alla
presa
di
Brescia
e
poi
alla
vittoria
a
Gambara
sull’Oglio,
il
30
agosto
1258,
sulle
forze
della
Lega,
ove
le
truppe
guelfe
vennero
messe
in
fuga
ed
il
legato
papale
fu
fatto
prigioniero.
Comunque,
quest’insieme
di
eventi
non
fecero
altro
che
esacerbare
maggiormente
gli
animi
tanto
che
qualcuno
ha
parlato
di
un
“abisso
che
invocava
l’abisso”.
Dunque,
la
perdita
di
Padova
non
aveva
scalfito
la
speranza
di
Ezzelino
di
poter
attuare
ancora
il
suo
disegno.
E la
lotta
serrata
per
la
conquista
di
Brescia
lo
dimostra.
Così
come
appariva
chiaro
l’intento
di
avviare
contatti
con
Guglielmo
di
Soresina
per
la
consegna
della
città
di
Milano.
Ma,
nel
frattempo,
era
intervenuto
un
altro
fatto
importante
che
aveva
indebolito
ulteriormente
lo
schieramento
ezzeliniano.
Si
era,
infatti,
determinata
la
rottura
con
il
Pallavicino
a
causa
della
scelta
di
quest'ultimo
di
schierarsi
con
Manfredi.
Questo
aspirante
all’Impero,
infatti,
tra
gli
altri,
aveva
trovato
appoggi
anche
a
Venezia,
ma,
proprio
per
questi
motivi,
era
osteggiato
da
Ezzelino,
il
quale,
da
un
lato,
non
era
più
disposto
ad
accettare
un
ruolo
di
subordinazione
verso
l’Impero,
e,
dall’altro,
vedeva
–
giustamente
- in
Venezia
una
potenziale
nemica
del
suo
disegno
egemonico.
Lo
scontro
con
le
truppe
milanesi,
comandate
da
Martino
della
Torre,
avvenne
a
Cassano
d’Adda,
sul
finire
di
agosto
del
1259.
Tra
le
loro
fila
militavano
anche
il
Pallavicino
e un
altro
ex
alleato
del
da
Romano,
Buoso
da
Dovara.
Ezzelino,
ferito,
fu
fatto
prigioniero
il
27
settembre
1259.
I
milanesi
volevano
finirlo
subito,
ma
grazie
all’intervento
dei
due
vecchi
alleati,
non
gli
venne
fatto
alcun
male
ed
anzi
si
tentò
di
portargli
delle
cure
e
salvargli
la
vita.
Ma
undici
giorni
dopo,
l’8
ottobre,
esalò
l’ultimo
respiro
e
con
lui
anche
il
sogno
di
uno
stato
unitario
nel
cuore
della
pianura
padana
si
dileguò.