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[ISSN 1974-028X]


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N. 32 - Agosto 2010 (LXIII)

UNA TIRANNIA MODERNA
Ezzelino III da Romano - Parte II

di Giuseppe Tramontana

 

Dal consolidamento del dominio alla morte di Federico II (1237-1250)

 

Con la sottomissione di Verona, Vicenza, Padova e Treviso Ezzelino – secondo la nota affermazione di Ernst Kantorowicz – “cominciò a costruire sul territorio la prima Signoria italiana”.

 

Ma per attuare questo progetto occorreva procedere per gradi, passando per tappe intermedie. Innanzitutto, considerato che Federico era in Germania e che aveva lasciato ad esercitare qualche forma di controllo il fedele Gaboardo di Arnstein, Ezzelino, per poter avere mano libera, pensò bene di spedire quest’ultimo dallo stesso Federico col pretesto di annunciargli la presa delle ultime due città, Treviso e Padova.

 

L’imperatore, ovviamente, aveva anch’egli – come si è visto – i suoi progetti ed un alleato come il da Romano era una pedina fondamentale per il raggiungimento dei suoi universalistici scopi di dominio. Dal suo punto di vista, nonostante – come scrive il Voltmer – cercasse di “frenare l’ambizione di Ezzelino, la grande congiuntura politica presto lo convinse a lasciargli mano libera nella Marca”. Anche di questo atteggiamento di Federico, approfittò immediatamente il da Romano per proseguire sulla strada della realizzazione dei suoi obiettivi.

 

All’indomani della presa di Padova, diede il via ad una vasta epurazione. Moltissimi padovani, sospettati di essere vicini ad Azzo, furono deportati in Puglia, altri furono trasferiti forzosamente nei castelli di Fonte, Cortina e Cittadella, altri ancora vennero tratti in arresto e condotti in Friuli sotto la custodia di Uguccione da Prata.

 

Naturalmente, Ezzelino fece ciò nella convinzione di liberarsi di tutti coloro che potevano rappresentare un ostacolo ai suoi progetti egemonici, a cominciare dal frate Giordano Forzatè, abate del monastero di S. Benedetto, uomo virtuoso con grande seguito tra la popolazione. Egli lo fece mettere agli arresti, nonostante le proteste del vescovo e del clero padovani, e tradurre nel carcere di San Zenone. Questo gesto gli inimicò tutto il clero e gran parte di esso ne approfittò per fuggire o a Ferrara o presso il marchese d’Este. Comunemente è in questo periodo che viene collocata la trasformazione in ‘tirannide’ del potere di Ezzelino.

 

Pervenuto ad una prima, sommaria sistemazione delle vicende patavine, indirizzò i suoi sforzi all’adempimento dei propri doveri di alleato imperiale. In questo senso, il maggior contributo fu quello fornito nella famosa battaglia di Cortenuova del novembre 1237, vinta dalla parte imperiale. In conseguenza di tale vittoria città come Lodi, Vigevano, Novara, Vercelli e Torino si arresero a Federico. Ma all’appello mancava Milano, la quale – memore delle battaglie contro Federico Barbarossa - si preparava ad un’accanita resistenza.

 

Sul piano, invece, dei rapporti personali, seppur Federico II dovette cercare per qualche tempo di frenare ed Ezzelino, grazie all’esito trionfale della battaglia contro i comuni guelfi, strinsero un vero sodalizio politico e privato: nel 1238 l’imperatore diede in moglie al da Romano la figlia Selvaggia, mentre l’altro fece sposare una sua nipote con re Enzo, figlio di Federico.

 

Il 1239 segnò l’inizio di una nuova fase di lotte tra Impero, da un lato, e Papato e Lega Lombarda, dall’altro. Ai primi dell’anno, mentre Federico si trovava a Padova, ospite di Ezzelino, la Lega si ricostituì, accogliendo tra le sue fila anche Venezia e Genova.

 

L’imperatore, dal canto suo, nel tentativo di riavvicinarsi alla Chiesa, staccandola dall’alleanza coi Comuni, fece tornare alcuni esuli padovani, per lo più religiosi. Ma proprio quando tutto pareva avviarsi per il verso più favorevole, il giorno di Giovedì Santo, il papa Gregorio IX, quasi all’improvviso, lanciò una solenne scomunica contro di lui e tutti i suoi partigiani, nobili e popolo, laici, come lo stesso Ezzelino, ed ecclesiastici, come il Patriarca di Aquileia. Quasi contemporaneamente il papa inviò una lettera ad Alberico, fratello di Ezzelino, anch’egli alleato di Federico, con la quale lo esortava a rompere ogni legame con la ‘pars imperialis’, compreso il fratello.

 

Questo fu il primo cuneo che si inserì nei rapporti tra i due da Romano. Ma, da lì a poco, l’incrinatura si trasformò in vera e propria rottura. Infatti, Ezzelino, persuaso che, nonostante i colloqui avviati dall’imperatore con Azzo VII, con costui non si sarebbe mai giunti ad alcuna pacificazione, spinse Federico a farsi consegnare – quale pegno di fedeltà – sia i castelli appartenenti allo stesso Azzo sia il suo unico figlio, Rinaldo, e la moglie di quest’ultimo, Adelaide, figlia di Alberico, i quali , come ostaggi, vennero esiliati in Puglia.

 

Fu a questo punto che Alberico, individuando nel fratello il responsabile dell’esilio della figlia e del genero, ruppe con lui, abbandonò la causa imperiale e, unitosi con Biaquino e Guecellone da Comino, espugnò Treviso, costringendo alla fuga il podestà Jacopo da Morra (15 maggio 1239). Successivamente, nonostante i tentativi di riconquistarla da parte di Federico ed Ezzelino, la città rimase ad Alberico.

 

Un’altra illustre defezione si ebbe nel giugno di quello stesso anno allorché la causa imperiale venne abbandonata anche dal marchese d’Este e dai suoi seguaci, proprio mentre stava per profilarsi lo scontro decisivo con la Lega. A questo punto, Ezzelino era l’unico rimasto fedele e quando l’imperatore si recò a Cremona lo lasciò padrone dell’intero territorio.

 

Ufficialmente – ricorda Rapisarda – vicario generale della Marca era il pugliese Francesco Tebaldo, podestà di Padova, il quale, però, aveva ricevuto l'ordine di obbedire in tutto al da Romano, il che equivaleva al conferimento, a quest'ultimo, di un potere illimitato sopra un vastissimo territorio che andava dall'Oglio al Patriarcato di Aquileia e dal Po a Trento”.

 

Paradossalmente proprio questa scelta di Federico mette in evidenza i limiti della sua politica. Infatti, come ha messo in luce il Voltmer, ciò che altrove riuscì senza grandi difficoltà, ossia la ricerca di un nuovo assetto politico-amministrativo accentrando sulla sua persona, anche grazie all’insediamento di vicari, podestà e capitanei totalmente dipendenti dalle sue direttive, qui “poté essere realizzato solo al prezzo di particolari concessioni ad Ezzelino”. Ed in effetti, la posizione di forza del da Romano – prosegue lo storico tedesco – “non fu scalfita dai tentativi imperiali di riforma politico-amministrativa, poiché nelle diocesi di Trento e Bressanone, nelle città, da Trento a Verona e fino a Padova, i podestà ed i vicari inviati dall’imperatore furono suoi (del da Romano, n.d.a.) parenti o sue creature e comunque dovevano giurargli obbedienza”.

 

A testimonianza di quanto sopra affermato, si può ricordare come, dopo le iniziali designazioni di Federico, fu Ezzelino a scegliere il vicario della Marca, che aveva sede a Padova. Infatti, dopo che nel 1239 l’imperatore diede l’incarico al già citato Francesco Tebaldo Francigena, sostituito a sua volta nel 1242 da Galvano Lancia, anch’egli scelto da Federico, nel 1244 Ezzelino estromise quest’ultimo collocando al suo posto il bresciano Guizzardo da Redondesco, che riunì nella sua persona la carica di vicario imperiale e quella di podestà. Questo, oltre tutto, non sarà il solo caso che vedrà questo abbinamento. Infatti, esso si riprensenterà con Guglielmo da Prata e Ansedisio Guidotti, nipote del da Romano.

 

A Verona, invece, per ben cinque anni – dal 1240 al 1245 – dominò un altro nipote di Ezzelino, Enrico da Egna, al quale, comunque, succedettero personaggi a lui fedeli.

 

In breve, allora, è corretta l’affermazione di Varanini allorché sostiene che tutte queste vicende danno un’idea dei rapporti tra l’imperatore e il da Romano. Nonostante la saldatura e le intese avvenissero attorno a precisi interessi personali e la sostanziale lealtà del signore veneto alla causa imperiale fosse indiscussa, è pur vero che l’azione di Ezzelino fu caratterizzata “da una progressiva emancipazione (…) rispetto alla politica imperiale fino al 1250, anno della morte dell’imperatore” .

 

Gli anni che andarono dal 1242 al 1248 segnarono un ulteriore allargamento dei possedimenti ezzeliniani. Già nel 1240 aveva acquistato da Guido, conte di Vicenza, nonché suo parente, i castelli di Santorso e Schio. Poi, nella zona di confine tra i territori di Verona e Mantova, furono riprese le fortezze di Villimpenta, Gazzo e Ostiglia (importante, quest’ultima, per suo porto sul Po) e vennero ricostruiti i castelli di Villafranca e Nogara. In Val d’Adige venne acquisito il castello di Ossenigo.

 

Nel veronese, al confine con il vicentino, furono presi i centri di Gambellara e Illasi, mentre la nemica San Bonifacio venne distrutta. Nel padovano, la conquista più importante si ebbe nel marzo del 1242 allorché fu presa Montagnana che venne dotata delle possenti mura – lunghe 1925 metri – tuttora esistenti. Nello stesso anno, nel trevigiano, alcuni dei principali castelli appartenenti alla famiglia da Camino, vennero affidati ad Ezzelino.

 

Tra questi, le fortezze di Oderzo, Serravalle, Motta, Camino, Cessalto e Fregona. Sempre nel 1242, poi, Uguccione da Pileo gli cedette i castelli di Montecchio e Montebello, nel vicentino. Pojano e Lonigo, invece, furono acquistate. Tra il 1242 e il 1246 fu acquisito anche il castello di Vidor, sul Piave, e, subito dopo, – tra acquisti, lasciti e donazioni – caddero nelle sue mani anche i centri di Fonte, Asolo, Crespignano, Moliparte (Monleopardo), Cornuda, Montebelluna e Onigo. Mestre e Noale furono conquistate nel 1245. Infine, nel 1248 Ezzelino mise le mani su feudi di Nervesa e del Montello.

 

Ma questa fu una conquista ‘per interposta persona’ visto che, formalmente, il beneficiario fu la famiglia Guidotti – fedeli alleati di Ezzelino – i quali ottennero il riconoscimento imperiale del merum et mixtum imperium sui feudi suddetti. Ma il 1248 fu anche l’anno della disastrosa battaglia di Parma.

 

Questa città, tradizionalmente ghibellina, era caduta in mani filo-papali e Federico II iniziò le manovre per riconquistarla al suo campo. Ezzelino raccolse immediatamente l’appello dell’imperatore e, con un grosso esercito, si mise in marcia alla volta della città emiliana. Riunitosi a re Enzo, insieme espugnarono Brescello e chiusero la via di Parma.

 

Non restava che prepararsi ad un lungo assedio. Venne addirittura costruita un’apposita cittadella - chiamata Vittoria - di supporto agli assedianti. Sembrava fosse solo una questione di tempo. Ma la città non solo non capitolò, ma, il 18 febbraio 1248, con una sortita improvvisa i parmensi portarono il contrattacco, distruggendo Vittoria e facendo strage degli imperiali.

 

Come ricorda il Cracco, Federico lasciò persino il tesoro e le insegne imperiali in mano al nemico. Da lì a poco, poi, anche re Enzo sarebbe stato catturato dai bolognesi nella battaglia di Fossalta.

 

Dopo la disfatta, Ezzelino ritornò nella Marca. Le sue ambizioni non erano diminuite. Quasi senza riposarsi si diresse a Feltre, la quale, ribellatasi (così come Belluno) l’anno precedente, da allora era sotto assedio. Nel maggio di quel 1248, però, Feltre capitolò. Belluno si arrese l’Anno successivo. Va rilevato, che – come si dirà più avanti – fu proprio durante quest’ultimo assedio che venne scomunicato.

 

Riconquistate quelle due città, si rivolse verso Este, che venne espugnata nel settembre di quello stesso 1249, mentre anche Baone, Vighizzolo e Vescovana gli si consegnavano. Ormai resistevano solo le ultime rocche degli Estensi, ossia Cerro e Calaone, che caddero l’anno appresso. Ma, quasi contemporaneamente, gli giunse la notizia della morte di Federico, avvenuta a Castel Fiorentino, il 13 dicembre 1250, all’età di 54 anni.

 

Con la morte dell’imperatore, per il da Romano, il panorama politico-militare cambiò decisamente in peggio. Egli restava l’unico (e ultimo) baluardo erto contro la potenza di Papato e Lega: ne divenne naturalmente anche il più facile dei bersagli. Non era più solo l’alleato fedele di un imperatore scomunicato, ma appariva (o veniva fatto apparire) come il suo erede più diretto, portatore di un progetto ambizioso di unificazione territoriale basato – da vero tiranno - sulla cancellazione delle autonomie (e libertà) cittadine.

 

A questo si deve aggiungere, però, anche il mutamento cui andò incontro la sua azione di governo all’interno delle città a lui sottomesse. Questo nuovo e più duro modo di amministrare se, da un lato, legittimarono agli occhi dei cittadini la propaganda negativa che i suoi nemici gli stavano orchestrando contro, dall’altro, contribuì effettivamente ad alienargli l’appoggio di quanti, in passato, l’avevano sostenuto, aumentandogli le difficoltà ed aprendo le porte a quella crisi che divorerà tutta la sua costruzione statuale, opera di una vita.

 

La svolta ‘tirannica’ nelle città e l’inizio della crisi.

 

Solo di recente la storiografia si è impegnata in un approfondimento delle vicende relative al sistema di governo instaurato da Ezzelino all’interno delle città a lui soggette. Tradizionalmente gli storici avevano proposto un’immagine semplicemente (per non dire semplicisticamente) ‘tirannica’ del da Romano, sulla scorta di uno stereotipo risalente, in pratica, direttamente al Medioevo.

 

Poco ci si era soffermati sul grande ed originale disegno di Ezzelino ossia sul tentativo superare il particolarismo politico e territoriale delle singole realtà cittadine a favore di un organismo più ampio, complesso ed articolato, tendenzialmente su base regionale, anticipando di quasi due secoli le esperienze signorili toscane o lombarde.

 

Come è risaputo, il da Romano, in realtà, in nessuna delle tre città dominate assunse titoli ufficiali, benché dalla sua azione e dalle sue lettere si evince chiaramente l’esistenza di una pienezza ed indiscussa autorità. Infatti, pur con notevoli differenze, l’autorità dei podestà e dei rettori cittadini derivava dall’imperatore, giacché da quest’ultimo erano nominati. Come ricorda Varanini, “ancora nel 1248 (…) Conegliano ha un ‘potestas pro imperio’, e nel 1249 Monselice (…) è retta da un pugliese” .

 

Sotto il suo dominio, peraltro, la vita economica, politica e la strutturazione sociale delle grandi città non andarono incontro a grossi sconvolgimenti. “Ora - scrive il Bortolami – se l’organizzazione per partes rientrava nella fisiologia e nella concezione della vita politica comunale e con essa la legittimità della sopraffazione dell’un gruppo da parte dell’altro a seconda della più o meno favorevole situazione esistente in città, va subito detto che l’esercizio dell’enorme potere di fatto che Ezzelino si trovò ad avere nella terraferma veneta in quanto capo militare e consigliere dello schieramento filo-imperiale (…) non si esplicò affatto, almeno fino al 1243 (…) in forme gran che dissonanti da logiche e pratiche tradizionali”.

 

Basta pensare, a tal riguardo, che neanche l’assetto istituzionale dei Comuni subì modifiche sostanziali. I consigli maggiori continuarono a riunirsi e funzionare, benché spesso lo facessero solo per approvare quanto già deciso da Ezzelino, così come i procuratori, gli stimatori, gli ingrossa tori ed i banditori continuassero a svolgere regolarmente la loro attività. Rimase anche attiva una cancelleria e si ebbe il consueto stuolo di notai addetti ai diversi uffici, a partire da quello, importantissimo del Sigillo.

 

Inoltre, continuò ad essere garantito il consueto raccordo tra comune urbano e comunità del territorio per quanto riguardava la designazione dei podestà e l’imposizione di servizi sociali, oneri fiscali, lavori pubblici. Nel settore dei lavori pubblici, ad esempio, fu organizzato, anche con l’apporto della popolazione contadina, un servizio diretto alla regolazione e alla sistemazione della rete idrografica. Per quanto concerne, poi, la sfera fiscale, Ezzelino tentò di garantire il rispetto dei principi di equità contributiva solennemente sanciti dalla riforma degli anni 1234-1235. A Padova e Vicenza, poi, l’organismo cui era demandata la trattazione delle questioni fiscali funzionava efficacemente.

 

Altro aspetto sintomatico che permette di comprendere come il dominio ezzeliniano (almeno precedentemente al 1250) fosse caratterizzato anche da una certa dose di liberalità è quello relativo all’Università di Padova. Questa, anche quando il da romano prese la città (1237), rimase attiva e pienamente funzionante. Addirittura venivano studenti e professori dalla lontana Inghilterra, dalla Spagna, dalla Polonia, dalla Moravia.

 

E’ evidente, allora, che ancora nel 1241, queste persone dovevano trovare a Padova non solo storiche opportunità di personale colto e materiale librario, ma anche un minimo di sazio istituzionale per esprimersi, se all’epoca vi erano tre rettorie studentesche (Yspaniorum, Italicorum et Longobardorum, Francigenorum), caratteristiche dell’antica organizzazione universitaria.

 

Un altro aspetto importante, in merito all’azione politica del da Romano dentro le città, è quello riguardante la politica verso i ceti produttivi. Scrive, a tal proposito, il Bortolami che “il pur agguerrito ‘popolo’ di piccoli imprenditori, di bottegai, di maestri artigiani, di lavoranti, di addetti ai più disparati servizi che avevano nelle corporazioni di mestiere un forte elemento di richiamo e di coesione non sembra sia stato oggetto di speciali misure di repressione”.

 

Fino alla morte di Federico ed alla recrudescenza delle lotte nella Marca, dunque, la libertà, nelle città, non subì grandi restrizioni rispetto al passato. Gli organismi politico-amministrativi continuavano a funzionare, l’attività economica trovava i suoi sbocchi naturali, la cultura viveva i suoi momenti di fortuna e di sviluppo. Ma dal 1250 le cose giunsero ad una svolta.

 

Scomparsa l’autorità e la forte personalità di Federico, la pars imperiale si trovò in una situazione critica. Coloro che successero al defunto imperatore si dimostrarono debolissimi, oltre che di non eccelse qualità di comando, destinati – nel giro di meno di vent’anni – a portare alla scomparsa persino della dinastia sveva.

 

Attorniato da ogni parte da numero e potenti nemici, privo di un alleato di spicco come lo era stato Federico II, vittima di un’ostinata propaganda che faceva leva sui sentimenti più intimi della massa dei cittadini a lui soggetti, spinti a ribellarsi al potere di un tiranno accostato tout court a Satana, e, ciò nonostante, cultore di un sogno di potenza regionale, Ezzelino fu risoluto nel mutare in senso più autoritario la sua azione politica. E nel tentativo di colpire i nemici, ovunque si trovassero, giunse perfino a cancellare quelle prerogative di autonomia di cui i comuni erano gelosi custodi. In tal modo, naturalmente, la propaganda nemica venne confermata e, allo stesso tempo, alimentata, innescando un perverso meccanismo di sempre più dura repressione e sempre crescenti dissensi.

 

Verona

 

Verona, la città nella quale Ezzelino si era stabilito, ebbe sempre rapporti fruttuosi con il da Romano, tanto che qui il partito ezzeliniano poté contare su sostenitori affidabili persino dopo la morte del suo leader. E fu un caso pressoché unico nelle relazioni tra le città e il loro dominus. A tale riguardo, in effetti, il Mor nota come, “delle tre città che formano il complesso stabile del dominio ezzeliniano, Verona presenti un reggimento tutt’affatto particolare”.

 

Le radici di questa diversità – secondo il Varanini – vanno ricercate negli anni Trenta. Poiché, infatti, Verona aveva giurato fedeltà all’Impero fin dal 1232, gli avvenimenti del 1237 e quelli successivi non sconvolsero la continuità del regimen cittadino. Questa continuità è avvertibile anche negli anni Quaranta. Tra il 1240 e il 1244 fu podestà Enrico da Egna, nobile tirolese, alleato fedele di Ezzelino. Poi, sostituito per pochi mesi tra il 1244 e il 1245, tornò in sella dalla fine del 1245 al febbraio 1247 quando venne ucciso nel palazzo comunale. Quindi una continuità anche nell’uomo, non solo nella forma istituzionale.

 

Solo tra il 1253 e il 1259 – scrive il Varanini – si ebbe qualche forma di cesura: “compaiono a reggere il comune di Verona in prevalenza funzionari detti vicarii o iudices et vicarii (fino a che nel gennaio 1259 compare di nuovo (…) un potestas communis, Mastino della Scala, sostituito nel corso dell’estate da un vicarius, e poi ancora in carica come potestas populi nel novembre-dicembre 1259, dopo la morte di Ezzelino III)”. Il succitato storico, oltre tutto, segnala come “riferimenti alla piena continuità istituzionale e alla validità di provvedimenti presi dai podestà degli anni ’40 si ricavano dagli statuti cittadini promulgati nel 1276 e noti come statuti albertini”.

 

In merito al funzionamento dell’apparato amministrativo, va evidenziato che una delle chiavi di volta del rapporto tra il da Romano e la città di Verona fu l’efficacia impositiva. “Non stupisce – afferma il Varanini – la regolare applicazione del sistema delle dazie su base d’estimo, l’imposizione ai singoli contribuenti del mantenimento di cavalli, la tassazione ‘occasione custodie castrorum veronensium’ dei beni ecclesiatici, con l’esezione (…) del domus religionis, la ripartizione fra le comunità del distretto di obblighi di factones consistenti in servizi armati (‘armati villarum veronensium’), l’esazione dalla dacia focolarium e di un una dacia maleficiis nel distretto, tutte documentate negli anni ’40 e ’50”.

 

Per quanto concerne la altre attività, continuavano ad essere presenti ed influenti gli esponenti più importanti delle magistrature come gli extimatores, va a dire i due giudici – un laico ed un ecclesiastico che si occupavano del controllo dei contratti stipulati dalle chiese e dai conventi, i procuratores et cercatores , i giudici d’appello per le cause vertenti su somme inferiori a 10 lire, i quattro giudici consoli (di estrazione cittadina), i giudici podestarili.

 

Un altro aspetto importante fu il ruolo di ‘capitale’ di Verona, all’interno dei possedimenti ezzeliniani. Infatti, se la dimensione sovracittadina è considerato elemento qualificante del potere del da Romano, non si può trascurare il fatto che ruolo di città guida di questo vastissimo dominio territoriale fu Verona. Tale ruolo poi si “concretizza nella circolazione intercittadina di una ristretta cerchia di collaboratori del dominus (giudici, uomini d’arme)”.

 

E questa primazia di Verona aveva anche dei risvolti economico-sociali di rilievo. Infatti, come ha notato il Varanini, le spese per il fasto della corte veronese erano a carico del contado su base semestrale. Il fasto era utile per più ragioni. La prima – e più semplice – perché serviva a creare consenso tra i cittadini veronesi; la seconda perché le spese per alimentarlo arricchivano le élites economiche, imprenditoriali e mercantili della città, tutte cose, poi, che si tramutavano anch’esse in consenso per Ezzelino. Così, ha ragione lo storico quando afferma che “gli amministratori comunali (…), ma in particolare i cambiatori locali, forniscono appoggio e traggono vantaggi dal ruolo di ‘capitale’ che Verona (…) viene ad esercitare”.

 

Con la svolta del 1250 e l’inasprimento delle lotte, Ezzelino aumentò la pressione nei confronti della Chiesa veronese, giungendo spesso ad espropriazioni e confische di cui beneficiava il comune cittadino. Ad esempio, nel 1253, Bernardo, abate di Santa Maria in Organo, che il papa considerava tanto affidabile da farlo destinatario di alcune lettere, fu prima imprigionato nel palazzo comunale e poi trasferito al carcere ubicato presso il monastero di S. Nazario, dove morì. Tutti i beni del monastero ove aveva vissuto Bernardo furono incamerati dal comune di Verona. Di questi casi ne accaddero molti e sempre con la copertura del comune ed un consenso aperto del ceto dirigente, in particolare allorché si trattava di confische che andavano a colpire monasteri semispopolati, ormai sterili sotto il profilo spirituale, improduttivi sotto quello economico o del tutto assenti come destinatari di scelte testamentarie.

 

Tuttavia, negli ultimi anni, il rafforzamento della partes populares, connesso al ridimensionamento di quella aristocratica, comportò la frantumazione dei centri tradizionali del potere cittadino, a beneficio di un’ulteriore estensione del dominio ezzeliniano. Il Cracco, a tal proposito, fa notare come “nel 1252 il Maggior Consiglio appare formato da 525 membri, e due anni dopo, nel 1254, da ben 1238, con una dilatazione che premiava soprattutto i ‘popolari’. Ed anche il Minor Consiglio, creato nello stesso 1254, contava tra i suoi membri (…) anche personaggi di estrazione modesta”.

 

A questo punto, Ezzelino, allo scopo di realizzare il suo programma politico, fece leva su questa frantumazione per svuotare definitivamente il Comune delle sue prerogative, aprendo alla partecipazione della maggioranza. In tal modo diede il colpo definitivo ad ogni eventuale tentativo di autonomia, incompatibile con il suo progetto ‘regionale’.


Vicenza

 

La situazione di Vicenza, per molti versi, assomiglia a quella di Verona. Fino al 1250, il governo ezzeliniano della città berica si era contraddistinto per il favore accordato alla borghesia imprenditoriale e mercantile. Aveva dominato un sostanziale clima di concordia e laboriosità. Come nota il Morsoletto, a tal riguardo, “lo stato di pace e di equilibrio sociale, di sicurezza, il progresso e l’incremento demografico e l’alacre ottimismo che ne conseguirono sono confermati anche dalle notizie di disboscamenti, di coltivazioni di piantagioni di vigneti e di oliveti o di costruzioni di case, che trapelano dai documenti”.

 

L’anno della morte di Federico è anche quello in cui mutano i rapporti con la chiesa. Fino ad allora questi rapporti erano decisamente buoni, gli enti ecclesiastici non erano soggetti a gravami o a rilevanti limitazioni nella gestione delle loro fondazioni. Persino in campo giudiziario, allorché si trattasse di casi di “mediocre rilevanza, l’intervento comunale tardivo ed il reo consenziente”, la pronuncia delle sentenze era lasciata ai nunzi dei monasteri.

 

Erano buone addirittura anche le condizioni di relegati e carcerati politici, mentre non si hanno notizie di condanne a morte dopo il 1240. Infatti, scrive il Morsoletto che “al di là delle gratuite accuse di deliberata strage e dell’indole sanguinaria – e contro natura – lanciate contro Ezzelino e dai cronisti, rimane il fatto che egli si preoccupò in un modo ossessivo di controllare i dissidenti e i sospetti, ma senza nuocere troppo, se erano solo tali”.

 

Com’è noto, la situazione mutò dopo il 1250. Anzitutto, si spezzò il rapporto con la chiesa. Il vescovo Manfredo fu costretto all’esilio e la sede vescovile occupata dalle truppe del da Romano, vennero attuate espropriazioni e confische e tolta ogni prerogativa giurisdizionale ai nunzi. Per tutta risposta un gran numero di monaci e preti abbandonò la città, spesso alla volta di Padova o Treviso.

 

Dal punto di vista della struttura istituzionale, anche qui Ezzelino lasciò spazio ai ceti ‘popolari’, i quali fecero massiccio ingresso (addirittura i 4/5, nel 1254) nel Consiglio Maggiore, a scapito del ceto signorile, spesso legato al Papato ed alla Lega. In tal modo scomparvero dal Consiglio Maggiore famiglie di antiche tradizioni autonomistiche come i Beona, i Bono Zacome, i Cornarolo, i Diana, i Maselli, i Pileo, i Manuele, gli Ubertelli e altre ancora.

 

Per controllare più efficacemente il territorio, vennero rafforzate le difese nelle posizioni chiave. Il comando di tali posizioni venne affidato a capitani fidati, ma forestieri, a significare l’inaffidabilità dei capitani locali, per la maggior parte legati alle famiglie aristocratiche. Così al comando delle piazzeforti si ebbero il trevigiano Giacomo Guidotti, fratello di Ansedisio, a Vicenza, il veronese Boninsegna degli Enverardi a Marostica e Giovanni di Apicena ad Altavilla.

 

Successivamente, dopo la caduta di Padova e gli attacchi delle truppe guelfe provenienti da questa città, riprese l’esodo di molti proprietari e feudatari, religiosi e renitenti al servizio militare. Ciò comportò un durissimo giro di vite ai danni della città.

 

Di fatti si passò ad una vera e propria occupazione militare cosa che comportò la sospensione di ogni attività politico-amministrativa, l’accelerazione della requisizione dei beni ecclesiastici (“ma è da notare – scrive il Cracco – che nemmeno in questo periodo burrascoso le requisizioni si ridussero a mera rapina indiscriminata e spietata”) ed il ricorso a provvedimenti repressivi, compresi ritorsioni e ricatti sui parenti vicentini dei nemici.

 

Padova

 

A Padova si assistette alla stessa svolta, seppur con modalità ancor più cruente. Fino al 1244 Ezzelino non aveva intaccato l’autonomia del Comune. La città, schieratasi ufficialmente dalla parte dell’impero, aveva mantenuto anch’essa i suoi organi politici, il suo podestà e le sue prerogative.

 

A partire dal 1244 Ezzelino cominciò a lavorare per realizzare anche nella città patavina il suo disegno. In quell’anno, infatti, come si è visto, venne deposto Galvano Lancia, uomo di Federico, sostituito da Guizzardo da Redondesco, fedele del da Romano.

Con quest’anno Ezzelino volle concentrare direttamente nelle sue mani il controllo della città.

 

Ad un certo punto – spiega Cracco – con molte probabilità, in coincidenza con il declino di Federico, il triangolo vicario imperiale-Comune-Ezzelino parve allo stesso Ezzelino una formula non più adatta a garantire il governo di Padova. Tanto più che con quella formula Ezzelino non era riuscito affatto a estirpare dalla città il partito filoestense (…) e men che meno a domare la società padovana”.

 

In effetti, la resistenza delle famiglie aristocratiche a Padova si manifestò più dura che altrove, riuscendo persino a coagulare attorno a sé quegli strati ‘popolari’ che nelle altre realtà erano schierati al fianco del dominus.

 

A dire il vero, Ezzelino – come sottolinea il Bortolami – aveva anche tentato di calarsi maggiormente nella realtà padovana (verosimilmente per meglio controllarla), giungendo persino a sposarsi con Beatrice di Castelnuovo (il 16 settembre 1249). Ma sia la morte dell’imperatore, con quello che ne seguì in termini di recrudescenza della guerra contro di lui, sia la volontà di accelerare la lotta ai ceti filoestensi portarono ad un violentissimo scontro frontale.

 

L’azione del da Romano fu decisa. Vennero, innanzi tutto, colpiti i membri delle famiglie più influenti come i Dalesmanini, ma anche ecclesiastici e uomini del popolo, mercanti e ricchi borghesi allorché si ebbe qualche sospetto di loro legami con gli aristocratici vicini agli Estensi.

 

All’inizio si trattò di atti di rappresaglia sporadici, poi le pene capitali, le mutilazioni, le condanne all’esilio o alla detenzione alle Zilie furono eventi all’ordine del giorno.

 

Scrive il Bortolami che l’estendersi dei sospetti di tutti contro tutti rese la città invivibile, nessuno poteva dirsi al sicuro. Si fece ricorso alle accuse montate, e all’uso sistematico della delazione; “si costruirono immondi e fetidi reclusori per carcerazioni di massa, come la Malta di Cittadella e le cosiddette Zilie di Padova, da cui decine e decine di corpi di esseri umani in necrosi, anneriti e disseccati, vennero estratti ogni giorno a carrettate, per essere malamente interrati in fosse comuni e addirittura dissepolti e straziati nottetempo dai lupi”.

 

Padova fu trasformata in una sorta di opprimente caserma con porte e torri d’accesso rigorosamente in mano al signore e ai suoi scherani calati dai monti o provenienti da Vicenza. Gli esuli vennero richiamati per sopprimerli e, ovviamente ricominciarono le defezioni e le fughe con l’effetto di ingrossare a dismisura il numero dei fuoriusciti. Addirittura, ci fu chi si suicidò per disperazione o preferì abbandonare la dura realtà mondana vestendo l’abito religioso. Ezzelino procedette alla confisca violenta delle sostanze e dei beni dei privati e del Comune, particolarmente terre, torri e castelli, che passarono sotto la diretta amministrazione del dominus. Venne adottato un sistema di prelievo che si avvicinava più alla spoliazione che alla contribuzione.

 

Naturalmente, quest’attacco violentissimo alla libertà dei padovani non fu dovuta a mera malvagità del da Romano (tesi affermatasi, un po’ semplicisticamente, nella storiografia immediatamente posteriore) né a vendetta contro i padovani orgogliosi e liberi (tesi di Rolandino). In realtà, come ha notato il Bortolami, “nel significato politico più profondo il gesto corrispose a una chiara e – possiamo aggiungere – ben calcolata sterzata in senso autocratico del potere di Ezzelino e al suo definitivo abbandono di una mera politica delle possibilità” (46).

 

Insomma fu il progetto politico che cullava a spingerlo verso la strada dello scontro feroce con l’aristocrazia padovana ed i ceti ad essa vicini.


La parabola finale (1251-1259)

 

Dopo la morte di Federico II, l’Impero passò al figlio Corrado IV, il quale scese in Italia nel 1251 con il proposito di arrivare fino in Sicilia mediante l’aiuto dei ghibellini. Ma gli appoggi che arrivarono furono alquanto tiepidi e, dal punto di vista logistico-militare, decisamente scarsi. Nessuno dei vecchi alleati di Federico, a dire il vero, aveva ormai interesse a sostenere il progetto di un Impero forte, accentrato e – per quello che si era potuto vedere sotto il predecessore – nemico delle autonomie.

 

Per gli stessi motivi, invece, la presenza di Corrado suscitò l’allarme e le reazioni del Papato e della Lega Lombarda, la quale, l’8 marzo 1252, sotto l’alto patrocinio del cardinale Ottaviano, legato papale, venne rinnovata ed allargata alla partecipazione di Milano, Alessandria, Brescia, Modena, Parma, Reggio Emilia, del marchese d’Este con Ferrara, di Alberico da Romano con Treviso del conte di Sambonifacio. Anche il papa Innocenzo IV vi aderì.

 

La risposta di Ezzelino fu immediata tramite l’alleanza, stipulata sempre nel marzo del 1252 e poi rinnovata nel luglio di due anni dopo, con Oberto Pallavicino, autoproclamatosi signore di Cremona. Ma la parabola di Corrado giunse presto alla sua conclusione: il 21 maggio 1254, a Lavello, morì.

 

Esclusa la brevissima parentesi di Corradino, con Corrado IV venne a mancare anche l’elemento di coagulo attorno ad un’idea forte di Impero. Di fatti finiva la stagione del sogno federiciano, il sogno di un monopolio laico del potere. Morto lui, però, vi erano ancora uomini fedeli a quell’idea o, comunque, ad un’idea di potere laico da esercitarsi su un vasto dominio territoriale. Il più importante di costoro era indubbiamente Ezzelino.

 

Il primo a comprenderlo fu il papa, che, liberato dall’incubo di Corrado, il 20 luglio 1254, da Anagni, bandì una crociata, diretta, ufficialmente, contro gli eretici, concedendo ai crociati numerose indulgenze e, nel caso ne fossero stati colpiti, la revoca della scomunica, ad eccezione di Ezzelino e Oberto Pallavicino. Quindi, in realtà, la crociata era contro di loro.

 

Tuttavia, la campagna non decollò anche a causa della morte di Innocenzo IV, nel dicembre dello stesso anno. Per quasi un anno non se ne parlò più. In realtà, il nuovo papa Alessandro IV stava studiando la situazione per dare il colpo decisivo al da Romano e pensava addirittura al dopo-Ezzelino nella Marca.

 

In questa luce – dice il Cracco – si può leggere la nomina di un nuovo vescovo di Vicenza, da lui fatta direttamente, saltando le competenze del Capitolo locale”. La scelta cadde sul dominicano Bartoloneo da Breganze, ex vescovo di Cipro e professore a Roma. A lui venne affidato il compito di prendere in mano le redini della città in vista della caduta del da Romano.

 

Operate queste mosse preliminari, il 20 dicembre 1255 Alessandro IV bandì la nuova crociata e questa volta l’obiettivo era chiarissimo: Ezzelino. Quest’ultimo, da parte sua, si preparò ad affrontare adeguatamente la situazione. Dopo aver riconquistato Trento, partì per assediare Mantova, dove si ricongiunse con il Pallavicino. Ma mentre era in corso quest’assedio, venne raggiunto dalla notizia della presa di Padova da parte dei crociati, guidati dal legato papale Filippo Fontana (20 giugno 1256).

 

La caduta di Padova fu un duro colpo per il da Romano, ma non sufficiente per abbatterlo del tutto. Anzi. All’inizio dell’anno successivo, nel tentativo di ricostituire attorno a sé una forte alleanza, si pacificò col fratello Alberico. Da lì a poco, le battaglie che i da Romano, insieme condussero, li portarono prima alla presa di Brescia e poi alla vittoria a Gambara sull’Oglio, il 30 agosto 1258, sulle forze della Lega, ove le truppe guelfe vennero messe in fuga ed il legato papale fu fatto prigioniero. Comunque, quest’insieme di eventi non fecero altro che esacerbare maggiormente gli animi tanto che qualcuno ha parlato di un “abisso che invocava l’abisso”.

 

Dunque, la perdita di Padova non aveva scalfito la speranza di Ezzelino di poter attuare ancora il suo disegno. E la lotta serrata per la conquista di Brescia lo dimostra. Così come appariva chiaro l’intento di avviare contatti con Guglielmo di Soresina per la consegna della città di Milano. Ma, nel frattempo, era intervenuto un altro fatto importante che aveva indebolito ulteriormente lo schieramento ezzeliniano. Si era, infatti, determinata la rottura con il Pallavicino a causa della scelta di quest'ultimo di schierarsi con Manfredi. Questo aspirante all’Impero, infatti, tra gli altri, aveva trovato appoggi anche a Venezia, ma, proprio per questi motivi, era osteggiato da Ezzelino, il quale, da un lato, non era più disposto ad accettare un ruolo di subordinazione verso l’Impero, e, dall’altro, vedeva – giustamente - in Venezia una potenziale nemica del suo disegno egemonico.

 

Lo scontro con le truppe milanesi, comandate da Martino della Torre, avvenne a Cassano d’Adda, sul finire di agosto del 1259. Tra le loro fila militavano anche il Pallavicino e un altro ex alleato del da Romano, Buoso da Dovara.

 

Ezzelino, ferito, fu fatto prigioniero il 27 settembre 1259. I milanesi volevano finirlo subito, ma grazie all’intervento dei due vecchi alleati, non gli venne fatto alcun male ed anzi si tentò di portargli delle cure e salvargli la vita. Ma undici giorni dopo, l’8 ottobre, esalò l’ultimo respiro e con lui anche il sogno di uno stato unitario nel cuore della pianura padana si dileguò.



 

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