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N. 22 - Ottobre 2009
(LIII)
UNA TIRANNIA MODERNA
Ezzelino III da Romano - Parte I
di Giuseppe Tramontana
Settecentocinquanta
anni
e
non
mostrarli.
Sono
tanti
gli
anni
trascorsi
dalla
morte
del
‘gran
tiranno’
Ezzelino
III
da
Romano.
Anniversario
caduto
lo
scorso
27
settembre.
Personaggio
stimolante,
sfaccettato,
dalle
enormi
ambizioni
e
dalle
ancor
più
strabilianti
conquiste,
molto
discusso,
amato
ed
esecrato,
Ezzelino
è
uno
dei
pochissimi
personaggi
storici
il
cui
nome
lo
ritroviamo
in
quello
di
un
comune
italiano:
Romano
d’Ezzelino,
Treviso.
Più
che
una
risonanza
storica,
una
vera
e
propria
deditio
in
saecula
saeculorum
della
cittadina
all’illustre
tiranno.
Uomo,
condottiero
originale,
Ezzelino.
Con
lui,
l’uomo
nega
se
stesso,
la
sua
umanità,
diventando
mostro.
Infatti,
fin
dal
XII
secolo
la
storiografia
aveva
indagato
la
vita
di
personaggi
grandi
per
valore
militare
o
terribili
per
ambizioni
sfrenate,
e
fra
essi
erano
annoverate
nature
audaci
e
generose
come
Alessandro
Magno,
Giulio
Cesare
e
Carlo
Magno
o
nature
violente
e
feroci
come
Nerone,
Caligola
e
Attila.
Eppure,
fino
ad
allora,
in
tutti
questi
uomini,
le
cui
gesta
eroiche
o
crudeli
facevano
parte
del
patrimonio
collettivo
di
conoscenze,
c’era,
in
qualche
momento
della
loro
vita,
un
barlume
di
umanità,
anche
in
quegli
‘eroi
neri’
passati
alla
storia
come
incarnazione
del
male.
Con
Ezzelino
l’uomo,
l’eroe,
diventa
belva.
In
lui
non
vi
sono
tracce
di
pietà
umana,
nessuna
prova
di
amore
o
pentimento.
Di
lui
Salimbene
de
Adam
scrive:
“Hic
plus
quam
diabolus
timebatur…
Nec
Nero
in
crudelitatibs
simils
ei,
nec
Domizianus,
nec
Decius,
nec
Dioclezianus,
qui,
fuerunt
maximis
in
tyrannis.”
Per
le
cronache
della
seconda
metà
del
XIII
secolo
-
che
saranno
la
linfa
di
tutta
la
futura
letteratura
sul
da
Romano
-
egli
fu
solo
furente
e
crudele
tiranno
assetato
di
sangue,
ingegnoso
e
gaudente
nello
sperimentare
torture
sempre
nuove
sui
suoi
nemici,
irremovibile
nelle
sue
nefaste
decisioni
di
morte.
Ma
Ezzelino
naturalmente
non
fu
solo
questo.
Egli
fu,
soprattutto,
il
portatore
di
un
progetto
statuale
che,
in
anticipo
sui
tempi,
solo
due
secoli
dopo
troverà
piena
attuazione
con
le
signorie
toscana
e
lombarda.
Fu
indubbiamente
un
protagonista
della
storia
veneta
di
quel
periodo,
anch’egli
naturalmente
condizionato
dall’ambiente
in
cui
si
trovò
a
operare.
Così
se,
di
certo,
non
fu
l’unico
potente
a
macchiarsi
di
misfatti
e
nefandezze,
fu
però
senz’altro
il
primo
ad
assumere
le
vesti
del
grande
statista,
capace
di
far
leva
sull’autonomia
concessagli
dall’imperatore
per
sperimentare
una
forma
di
potere
su
scala
sovracittadina.
E
ciò
accadeva
in
un’epoca
e in
un’area
geografica
dominate
dal
particolarismo
e
dalla
bellicosità
dei
Comuni.
Egli
riuscì
a
collegare
i
vari
centri
e i
relativi
territori,
affidando
a
Verona
il
ruolo
di
capitale
de
facto
di
questa
nuova
entità
politica.
In
tal
senso,
allora,
il
da
Romano
si
presenta
-
per
dirla
con
Cracco
-
come
“l’artefice
remoto
del
formarsi
di
una
originaria
identità
regionale”,
l’autore
cosciente
e
pervicace
di
un
progetto
politico
inglobante
tutto
il
Veneto
e
oltre,
fino
a
Trento
e
Aquileia
a
nord,
a
Brescia
a
ovest
e a
Mantova
e
Ferrara
a
sud.
I da
Romano:
dal
feudo
al
dominio
sovracittadino
I
capostipiti
della
famiglia
da
Romano
fecero
la
loro
comparsa
a
cavallo
tra
gli
anni
Settanta
e
Ottanta
del
secolo
XI.
La
situazione
politica
generale
era
in
grandissimo
fermento.
Il
Regno
Italico
era
scosso
dal
contrasto
tra
le
due
massime
autorità
dell’epoca:
Impero
e
Papato.
Nel
1073
venne
eletto
al
soglio
pontificio
Ildebrando
di
Soana,
col
nome
di
Gregorio
VII.
Egli
tentò
di
far
uscire
la
Chiesa
dall’orbita
imperiale,
ma a
prezzo
di
una
durissima
lotta
con
il
massimo
potere
civile.
Nel
1075
il
papa
vietò
ogni
investitura
di
vescovi
da
parte
di
sovrani
o
dell’imperatore
medesimo.
In
tal
modo
si
rompeva
il
legame
tra
potere
laico
e
potere
vescovile.
Alla
mossa
del
papa
rispose
l’imperatore
Enrico
IV
che
immediatamente
convocò
un
concilio
per
deporre
il
pontefice,
il
quale,
a
sua
volta,
emanò
il
Dictatus
Papae,
scomunicando
l’imperatore.
Dei
primi
anni
Ottanta,
invece,
fu
la
riscossa
militare
di
Enrico
IV,
il
quale,
nel
1084
riuscì
a
prendere
Roma,
costringendo
vescovi,
grandi
ufficiali,
feudatari
e
signori
a
schierarsi
con
lui,
anche
se a
lui
non
favorevoli,
come
ricorda
Cinzio
Violante.
Per
quanto
concerne
l’altro
antagonista,
la
fine
di
Gregorio
VII
è
nota:
rifuggiatosi
a
Castel
Sant’Angelo,
venne
tratto
in
salvo
da
Roberto
il
Guiscardo,
che
lo
condusse
a
Salerno,
dove
morì
nel
1085.
Enrico
IV,
invece,
costretto
a
ritornare
in
Germania
pochi
anni
dopo,
dal
1090
in
poi
si
trovò
nuovamente
nell’Italia
settentrionale
con
l’obiettivo
di
stroncare
definitivamente
la
potenza
dei
marchesi
e
dei
duchi
di
Canossa.
Una
delle
regioni
su
cui
si
esercitò
per
qualche
tempo
il
suo
dominio
fu
la
cosiddetta
Marca
Veronese
ossia
–
come
ricorda
Andrea
Castagnetti
– la
Marca
istituita
da
Ottone
I
alla
metà
del
secolo
X e
che
“corrispondeva
grosso
modo
al
Veneto
odierno
senza
Venezia”.
Lo
stesso
Castagnetti
sottolinea
che
qui
principi,
feudatari
e
signori
erano
costretti
“nuovamente
a
schierarsi
dalla
sua
parte,
come
avviene
anzitutto
ai
marchesi
d’Este,
la
più
nobile
e
potente
famiglia
della
Marca”.
È in
questo
quadro
che
fanno
la
loro
apparizione
nella
documentazione
pervenutaci
Ezzelo
e la
moglie
Gisla,
il
primo
di
‘legge
salica’,
la
seconda
longobarda.
E
anche
Gerardo
Maurisio
non
risale
più
in
là
di
Ezzelo
di
Arpone.
Secondo
Rolandino
da
Padova
questo
Ezzelo
era
un
semplice
“miles
ab
uno
equo”
venuto
in
Italia
con
Corrado
il
Salico,
dal
quale
ricevette
la
‘curia’
di
Onara.
A
proposito
di
questo
episodio,
tuttavia,
Gina
Fasoli
contesta
le
affermazioni
del
cronista
patavino,
rilevando
che
Ezzelo,
di
legge
salica,
era
notevolmente
ricco
già
da
prima,
visto
che
“ancora
nel
1085
[…]
fa
una
cospicua
donazione
al
monastero
di
S.
Eufemia
di
Villanova”.
Sicché,
secondo
la
storica,
la
famiglia
da
Romano
“doveva
essere
trapiantata
in
Italia
da
assai
più
tempo
di
quanto
generalmente
si
ritiene:
anche
l’ipotesi
di
un
matrimonio
straordinariamente
vantaggioso
di
Ezzelo,
presuppone
una
preesistente
sua
eminenza
sociale,
inconciliabile
con
la
modestia
di
un
‘miles
ab
uno
equo’,
venuto
in
Italia
al
seguito
di
un
imperatore
che
–
per
quello
che
se
ne
sa –
non
aveva
particolari
motivi
per
essere
straordinariamente
generoso
con
lui”.
Infatti,
la
stessa
Fasoli
evidenzia
come
il
capostipite
della
famiglia
da
Romano
avesse
“il
primo
posto
tra
i
feudatari
minori
che
nel
1091
stanno
intorno
a
enrico
IV,
allorché
–
stando
nella
corte
del
vescovado
di
Padova
-
prende
sotto
la
sua
protezione
un
monastero
padovano”.
A
ogni
modo,
ben
presto
il
potere
della
famiglia
si
esercitò
su
un’area
vastissima,
comprendente
–
come
nota
il
Castagnetti
–
“una
parte
consistente
del
territorio
che
si
trovava
tra
le
due
località
di
Romano,
a
nord,
e di
Onara,
a
sud,
e
aveva
all’incirca
per
lati,
a
occidente,
il
fiume
Brenta,
a
oriente
superava
il
Musone
e il
Dese,
con
il
castello
di
Godego,
fino
alle
località
di
Riese
e
Vallà”.
A
questi
possedimenti
vanno
però
aggiunti
quelli
concessi
in
feudo
dal
vescovo
di
Vicenza,
ossia
Bassano,
che
sarebbe
divenuta
la
loro
residenza
abituale,
e
l’intero
distretto
comprendente
Angarano
e
Cartigliano,
con
relativi
castelli,
ville,
privilegi,
immunità
esenzioni
e
diritti.
“Il
primo
documento
–
scrive
la
Fasoli
–
che
ci
mostri
i da
Romano
in
possesso
di
un
altro
feudo
oltre
a
quelli
di
Onara
e
Romano
è
del
1159:
Ezzelino
il
Balbo
è in
lite
con
il
vescovo
di
Frisinga
per
Castel
di
Godego,
che
suo
zio
Ezzelo
aveva
avuto
in
feudo;
la
lite
si
concluderà
con
una
nuova
investitura”.
Insomma,
in
questo
periodo
i da
Romano
ingrandirono
i
loro
possedimenti
con
l’acquisto
della
curtis
di
Godego
dalla
chiesa
vescovile
di
Frisinga.
A
tal
riguardo,
sempre
il
Castagnetti
aggiunge
che
“poiché
fra
le
località
in
cui
si
trovavano
i
possessi
donati
dagli
Ottoni
viene
nominata
anche
quello
di
Onara,
non
ci
sembra
forzato
supporre
che
anch’essa
facesse
parte
in
origine
del
complesso
di
beni
dipendenti
dal
centro
maggiore,
Godego,
ove
si
trovavano
un
castello
e la
curia
ovvero
il
centro
signorile
e
feudale”.
Siamo
di
fronte,
pertanto,
a un
territorio
molto
esteso,
posto
in
una
zona
strategica
per
il
controllo
sia
delle
vie
di
transito
sia
dei
territori
appartenenti
a
Padova,
Vicenza
e
Treviso.
E
queste
città,
oltre
a
Verona,
svolgevano,
allora,
un
ruolo
da
protagoniste
nelle
vicende
politiche
della
regione,
grazie
soprattutto
al
costituirsi
delle
loro
popolazioni
in
comuni
cittadini.
Tale
nuova
forma
istituzionale
si
affermerà
a
Verona
nel
1136,
a
Padova
due
anni
dopo,
a
Vicenza
nel
1147
e,
infine,
a
Treviso
verso
la
metà
degli
anni
Sessanta.
Naturalmente,
quattro
città
di
tale
importanza,
situate
all’interno
di
un
territorio
alquanto
circoscritto,
nella
fascia
pianeggiante
e
pedemontana,
fra
Adige
e
Piave,
giunsero
ben
presto
a
contrapporsi.
Ma
il
motivo
principale
che
le
spingeva
alle
lotte
era
la
tendenza,
comune
a
questi
governi
cittadini,
ad
attuare
quella
che
il
Varanini
ha
chiamato
una
“ricomposizione
territoriale”.
Così
–
prosegue
questo
storico
–
“generale
è
l’attitudine
a
intervenire
in
modo
tendenzialmente
organico
nel
distretto,
dando
a
esso
un
inquadramento
amministrativo
e
fiscale
e
promuovendo
la
fondazione
di
borghi
franchi
o
altri
insediamenti
‘programmati’,
in
funzione
oltre
che
di
un
più
intensivo
sfruttamento
organico
anche
di
difesa
contro
i
vicini”.
Inoltre,
un
po’
ovunque
si
manifesta
l’orientamento
a
ridimensionare
il
potere
ecclesiastico
così
come
in
tutte
le
città
si
passa
da
un
regime
consolare
a
uno
podestarile.
Questi
sviluppi
porteranno
alla
nascita
di
“signorie
rurali
laiche
di
tipo
‘zonale’
–
come
afferma
il
Varanini
–
non
limitate
al
controllo
di
una
sola
fortezza,
ma
basate
su
relazioni
e
dipendenze
‘plurime’,
che
offrivano
alle
famiglie
titolari
ampi
margini
di
manovra
e
più
chances
per
svolgere
un
ruolo
politico
attivo”.
La
ristrutturazione
dei
poteri
dentro
le
grandi
città
venete
e
all’interno
dei
territori
a
esse
soggetti
sarà
l’elemento
che
le
porterà
allo
scontro.
Già
negli
anni
Quaranta
divampò
una
guerra
combattuta
tra
Verona
e
Vicenza,
da
una
parte,
e
Padova
e
Treviso
(che
erano
in
guerra
anche
contro
Venezia),
dall’altro.
Come
ci
ricorda
il
Castagnetti,
“i
motivi
principali
del
conflitto
sono
indicati
chiaramente
dal
trattato
di
pace
di
Fontaniva
del
1147:
controllo
delle
vie
di
acqua
e di
terra
per
le
comunicazioni
e
per
il
commercio;
supremazia
politica
su
alcuni
grossi
centri
rurali
quali
Bassano,
Marostica
e
Montegalda,
che
erano
certamente
contese
fra
Vicenza,
Padova
e
Treviso”.
Ed è
in
occasione
della
firma
di
questo
trattato
di
pace
che,
tra
i
Tarvisiani,
troviamo
il
nome
di
Ezzelino
I da
Romano,
detto
il
Balbo,
con
un
suo
fratello,
a
significare
la
rilevanza
che
la
famiglia
in
questione
doveva
rivestire
nella
gestione
delle
trame
di
potere
trevigiane
e
venete.
Ezzelino
il
Balbo,
che
appare
nei
documenti
a
partire
dal
1135,
era
il
figlio
di
Alberico,
fratello
di
Ezzelo,
entrambi
figli
di
Ezzelo
d’Arpone.
Nel
1169,
Ezzelino
il
Balbo
appare
come
vassallo
dei
canonici
di
Treviso.
Infatti,
il
15
gennaio
di
quell’anno,
egli,
assieme
ad
altri
vassalli
dei
canonici,
pronunciò
una
sentenza
in
un
processo
per
il
possesso
di
case
in
città.
Anche
i da
Romano,
peraltro,
come
tutti
i
potenti
dell’epoca,
al
fine
di
accrescere
i
loro
domini
territoriali,
promossero
un’oculata
politica
matrimoniale.
A
tal
proposito
Sante
Bortolami
rammenta
il
noto
episodio
per
cui
“Ezzelino
il
Balbo,
bruciando
sul
tempo
i
Camposampiero,
combinò
un
matrimonio
tra
la
ricchissima
Cecilia
di
Abano
e il
figlio
Ezzelino
il
Monaco,
dopo
il
1168.
[…]
E
ben
a
ragione
Rolandino
osserva
che
il
Balbo
sperava
‘per
talem
nurum
magnum
habere
dominium
in
partibus
paduanis’”.
Le
stesse
mire
guidavano
probabilmente
il
matrimonio
dell’altro
figlio
Giovanni
con
Beatrice
da
Baone,
avvenuto
prima
del
1183.
Ma,
in
entrambi
i
casi,
le
aspettative
del
da
Romano
andarono
deluse.
Invece,
di
maggiore
interesse
appare
il
ruolo
che
Ezzelino
il
Balbo
giocò
all’interno
della
coalizione
contro
Federico
Barbarossa.
Infatti,
nelle
trattative
di
Montebello
tra
l’imperatore
e i
rappresentanti
della
Lega
Lombarda,
accanto
ai
consoli
e ai
rettori
delle
varie
città
si
distinsero
anche
lo
stesso
Ezzelino
il
Balbo
e
anselmo
da
Dovara.
E
nel
privilegio
–
meglio
noto
come
pace
di
Costanza
–
riconosciuto
dall’imperatore
ai
Comuni
nel
1183,
Ezzelino
venne
“espressamente
riammesso
nella
grazia
imperiale,
segno
anche
di
un
ruolo
politico
e
militare
assai
attivo”.
Da
quel
momento
in
poi,
i da
Romano,
sfruttando
l’intreccio
di
rapporti
e
rivalità
tra
le
quattro
maggiori
città
di
pianura
(ossia
Vicenza,
Verona,
Treviso
e
Padova),
cercarono
di
fondare
su
solide
basi
la
loro
potenza
economica
e si
affermarono,
grazie
alla
loro
ricchezza
in
beni
terrieri
e
alla
loro
abilità
negli
affari
politici,
come
“una
di
quelle
famiglie
cosiddette
podestarili,
tanto
frequenti
nella
storia
d’Italia
di
quegli
anni”.
Nel
1178,
Ezzelino
il
Balbo
era
iscritto
tra
i
cittadini
di
Treviso,
città
nella
quale
si
era
fatto
costruire
un
palazzo.
Altri
palazzi
aveva
fatto
erigere
a
Vicenza
e
Padova.
Nella
prima
città,
nel
1183,
ricoprì
anche
la
carica
di
podestà.
Intanto,
il
figlio,
Ezzelino
II,
detto
il
Monaco,
nel
1187
rivestiva
l’ufficio
di
console
del
comune
di
Treviso
assieme
al
conte
Schinella;
tre
anni
dopo
divenne
podestà
della
stessa
città,
restando
in
tale
magistratura
dal
luglio
1190
al
luglio
1192.
Questa
carica
testimonia
dell’alta
considerazione
di
cui
doveva
godere
ed
proprio
in
quanto
esponente
di
una
delle
famiglie
più
in
vista
dell’intero
territorio
trevigiano
prese
parte
alla
guerra
per
la
conquista
del
bellunese,
nella
quale
furono
coinvolti
un
po’
tutti
i
paesi
circostanti:
da
Belluno
a
Feltre,
da
Padova
a
Verona,
dal
Patriarcato
di
Aquileia
a
Conegliano,
Ceneda
e
Vicenza.
Fu
questa
una
guerra
che,
come
osserva
il
Rapisarda,
“né
mediazione
dei
Rettori
della
Lega
Lombarda,
né
minacce
di
sanzioni
ecclesiastiche,
né
scomuniche
papali
ebbero
il
potere
di
arrestare,
guerra
che
si
concluse
da
sé,
dopo
ben
undici
anni
di
accanito
impegno
nel
farsi
reciprocamente
il
maggior
danno
possibile
(1192-1203)”.
E a
proposito
dell’asperità
di
questo
scontro,
il
Castagnetti
sottolinea
come
esso
andasse
di
pari
passo
all’accrescersi
della
violenza
anche
all’interno
delle
varie
città.
Questa
asperità,
per
molti
versi,
rappresentò
un
elemento
di
novità
causato
dal
fatto
che
“i
centri
di
potere
da
‘conquistare’
divennero
sempre
più
i
comuni
cittadini,
verso
i
quali
si
orientarono,
prima
o
dopo,
tutti
gli
antichi
potentati
politici
locali,
dalle
dinastie
marchionali
e
comitali
ai
maggiori
feudatari
e ai
signori
minori”.
Insomma,
nacquero
in
questo
periodo
quelle
divisioni
all’interno
delle
mura
della
stessa
città
che
saranno
una
costante
della
vita
dei
comuni
negli
anni
successivi.
Certo,
le
divisioni
sociali,
le
lotte
politiche
intestine
erano
esistite
anche
prima.
Tuttavia,
quelle
che
si
riscontrano
nella
prima
età
comunale
avevano
caratteristiche
diverse.
Prima
le
contrapposizioni
erano
avvenute
sulla
base
delle
differenti
estrazioni
sociali;
a
cominciare
da
questo
periodo
le
lotte
avvenivano
all’interno
dello
stesso
ceto.
Inoltre,
come
spiega
ancora
il
Castagnetti,
le
nuove
lotte
generavano
altre
forme
inedite
di
alleanze:
quelle
tra
gli
appartenenti
alla
medesima
pars,
ma
in
città
differenti.
“Ora
-
afferma
lo
storico
-
sono
la
volontà
e
nello
stesso
tempo
la
difficoltà
[…]
di
prevalere
nell’ambito
di
un
singolo
comune
cittadino,
che
spingono
le
partes,
che
hanno
a
capo
le
famiglie
più
potenti,
le
quali
nei
fatti
coincidono
con
le
famiglie
più
antiche,
a
cercare
rapporti
e
collegamenti
con
le
partes
agenti
in
altre
città,
come
conseguenza,
dunque,
delle
lotte
intestine”.
Questa
complessa
situazione,
basata
sull’intreccio
di
lotte
diffuse
dentro
le
singole
città
e
alleanze
su
base
sovracittadina,
favorì
nel
giro
di
breve
tempo
il
sorgere
di
potentati
a
carattere
territoriale,
la
cui
azione
non
si
limitava
più
al
controllo
di
una
sola
fortezza
o di
un
solo
castello,
ma
si
estendeva
al
governo
di
relazioni
e
domini
plurimi
e
articolati,
che
consentivano
alle
famiglie
ampi
margini
di
manovra
e
ampie
possibilità
di
esercitare
un
rilevante
ruolo
politico.
In
tale
prospettiva,
dunque,
l’azione
di
famiglie
illustri
come
quelle
dei
da
Romano,
degli
Estensi,
dei
da
Camino,
dei
Camposampiero,
dei
Sambonifacio
e
altre
ancora
permetteva
di
agire
su
più
terreni
cittadini
e -
come
nel
caso
specifico
dei
da
Romano
-
coltivare
e
realizzare
disegni
egemonici
su
scala
regionale,
magari
facendo
leva
su
quelle
masnade,
il
cui
apporto
si
dimostrerà
risolutivo
per
tutto
il
periodo
dell’attività
politico-militare
della
famiglia.
A
conferma
di
questa
tesi
si
può
citare
l’evoluzione
che,
tra
il
1193
e il
1195,
ebbero
i
contrasti
a
tra
le
fazioni
vicentine
dei
Maltraversi,
con
a
capo
il
conte
Uguccione,
e
dei
Vivaresi,
dalla
cui
parte
erano
schierati
i da
Romano.
Ben
presto
queste
dispute
si
trasformarono
in
una
vera
e
propria
guerra.
In
seguito
ai
primi
scontri
Ezzelino
il
Monaco
era
stato
cacciato
dalla
città.
Ma,
da
lì a
poco
era
ritornato
con
la
forza.
Ma
la
pace
non
era
arrivata.
Dopo
alterne
vicende
e
distruzioni
di
ingenti
beni
e
danneggiamenti
degli
stessi
centri
di
Bassano
e
Marostica,
la
guerra
ebbe
termine
nel
1199
con
Ezzelino
costretto
a
staccarsi
dall’alleanza
con
Padova
(che
minacciava
Bassano)
e a
chiedere
la
mediazione
del
podestà
di
Verona,
rimettendosi
al
suo
arbitrio
per
la
composizione
dei
dissidi
tra
le
parti.
È
palese
che
il
motivo
principale
che
spingeva
le
grandi
famiglie
ad
allearsi
era
il
tentativo
di
dar
corpo
al
disegno
politico
di
ognuna
ossia
alla
realizzazione
di
un
vero
e
proprio
“modello
signorile:
dalle
loro
basi
rurali
si
proiettano
alla
conquista
delle
città”.
Tuttavia,
le
forme
di
tale
collegamento
erano
proporzionate
alla
loro
posizione
sociale
e al
loro
potere
signorile.
In
tale
prospettiva
le
famiglie
signorili
che
avevano
saputo
mantenere
ampie
basi
di
potere
in
più
comitati
o in
zone
di
confine,
poterono
o
tornarono
a
svolgere
un
ruolo
politico
essenziale.
Fu
questo
anche
il
caso
dei
da
Romano,
che
per
ampiezza
del
potere
e
influenze
politiche
avevano
ben
pochi
rivali.
Il
centro
del
loro
vasto
potere
restava
Bassano,
all’epoca
una
cittadina
con
una
stratificazione
urbana
e
professionale
non
lontana
dai
centri
più
importanti
della
zona,
nonché
snodo
di
comunicazione
di
straordinaria
importanza.
I da
Romano
attuarono,
allora,
quella
che
Silvana
Collodo
ha
definito
una
“politica
famigliare”
diretta
a
creare
o
consolidare
un
grande
dominio
territoriale.
In
questa
“politica
famigliare”
rientrava,
naturalmente,
la
scelta
delle
dinastie
cui
legarsi
tramite
i
matrimoni
dei
propri
rampolli.
“Per
questo
–
scrive
ancora
la
Collodo
– i
da
Romano
si
imparentarono
con
le
maggiori
stirpi
signorili
del
Veneto
e
anche
della
Padania.
Nel
XII
secolo
erano
legati
ai
Camposampiero,
una
casata
fiorita
in
area
attigua,
nel
XIII
secolo
Ezzelino
III
e
Alberico
strinsero
alleanza
matrimoniale
con
i
Torelli
e
con
gli
Estensi,
prima
gli
uni
e
poi
gli
altri
signori
di
Ferrara”.
Naturalmente,
l’importanza
strategica,
economica
e
politica
di
Vicenza
non
sfuggiva
neanche
ad
altri
grossi
Comuni.
Prima
tra
tutti
Padova
che,
dopo
aver
cacciato
da
Vicenza
anche
i
Vivaresi,
appoggiava
Ezzelino
fin
dal
1188.
Ma,
nel
1198
il
da
Romano
ruppe
l’alleanza
coi
padovani
per
avvicinarsi
a
vicentini
e,
soprattutto,
veronesi,
mentre
maturava
anche
l’intesa
con
Ferrara,
dove
infuriava
lo
scontro
tra
le
famiglie
Torelli
e d’Este.
Ma
non
finì
qui
poiché,
immediatamente
dopo,
i da
Romano
riuscirono
persino
a
isolare
completamente
i
padovani
attraverso
una
lega
tra
i
Comuni
di
Treviso
e
Verona
e la
neutralità
di
Vicenza
e
Venezia.
Nel
frattempo,
proseguiva
la
politica
di
espropriazione
dei
territori
ecclesiastici
trevigiani,
tramite
l’introduzione
di
statuti
che
permettevano,
dietro
indennizzo
di
un
sesto
del
valore
reale,
l’alienazione
forzata
delle
concessioni
feudali
della
Chiesa
locale.
Così
appena
un
anno
dopo,
nel
1199,
le
diocesi
di
Feltre,
Belluno
e
Ceneda
erano
sottomesse
a
Treviso,
mentre
i da
Prata,
avvocati
di
Ceneda,
addirittura
si
riappacificarono
coi
da
Romano
e il
Comune
e ne
riconobbero
la
giurisdizione.
Ancora
l’anno
successivo
(1200)
il
vescovo
bellunese,
la
cui
cattedra
era
stata
unificata
con
Feltre,
cedette
al
podestà
Guglielmo
da
Pusterla
–
alleato
di
Ezzelino
il
Monaco
– le
corti
di
Oderzo,
Mussolente,
Soligo,
Maser
e
Fregona,
che
in
brevissimo
tempo
si
ritrovarono
definitivamente
sottoposte
ai
da
Romano.
Sul
versante
militare
ormai
la
guerra
stava
volgendo
alla
conclusione
e il
progetto
ezzeliniano
aveva
iniziato
a
prendere
consistenza:
nonostante
le
proteste
del
papa
Innocenzo
III,
nasceva
un
centro
di
potere
sovracittadino.
Lotte
per
il
potere
fino
alla
divisione
dell’eredità
di
Ezzelino
II
La
sete
di
potere
della
famiglia
da
Romano
non
si
limitò
al
controllo
di
un
territorio
che,
tuttavia,
anche
geograficamente
rappresentava
la
base
per
il
lancio
di
ulteriori
e
più
consistenti
espansioni.
Le
prime
spedizioni
cominciarono
con
la
penetrazione
attraverso
il
Livenza,
alla
conquista
delle
signorie
feudali
del
Patriarcato
di
Aquileia
che
porterà
nel
1219
alla
ribellione
–
“pilotata”,
secondo
il
Manselli
-
dei
nobili
castrensi
di
Polcenigo,
Soffumbergo,
Villalta,
Caporiacco,
Strasso,
Fontanabona,
Budrio,
Castelli
e da
Prata,
che
accettarono
anch’essi
la
sottomissione
alla
giurisdizione
di
Treviso
e
divennero
membri
a
pieno
titolo
del
partito
ezzeliniano.
Nello
stesso
1200
un
importante
fronte
interno
si
apre
a
Ferrara.
In
questa
città,
Salinguerra
II
Torelli
riuscì,
infatti,
a
tessere
le
fila
di
un’alleanza
con
Verona
-
tanto
che
le
due
città
giunsero
a
scambiarsi
i
podestà
–
dando
così
vita,
in
entrambi
i
Comuni,
a un
asse
tra
le
partes
avverse
ad
Azzo
VI
d’Este.
In
quell’occasione
a
Verona
divenne
podestà
lo
stesso
Salinguerra,
futuro
genero
di
Ezzelino
II,
e
immediatamente
si
impegnò
nelle
lotte
in
atto
nella
parte
orientale
della
Marca,
dove
era
in
corso
di
definitiva
affermazione
la
supremazia
ezzeliniana
sugli
episcopati
e il
loro
tradizionale
potere
secolare.
Nel
secondo
semestre
dello
stesso
1200
i
progetti
di
Salinguerra
presero
corpo:
due
ferraresi
divennero
podestà
di
Treviso
e
Vicenza;
nella
prima
Pietro
di
Remengardo,
fratello
di
Salinguerra,
nella
seconda
Marchesino
dei
Mainardi,
che
mosse
subito
guerra
contro
la
pars
vicentina,
alleata
di
Azzo
VI
d’Este.
Costui,
in
quell’occasione,
risultò
essere
circondato
dai
nemici
e,
con
lui,
anche
Padova,
città
sua
alleata
della
quale
era
stato
podestà
l’anno
precedente,
e
l’altra
lontana
alleata
Mantova.
Ma
il
potere
di
Salinguerra
non
durò
né a
Verona
né a
Ferrara.
Dalla
prima
città
venne
cacciato
nel
1206
dallo
stesso
Azzo
VI,
il
quale,
nell’occasione,
sconfisse
una
coalizione
sostenuta
dai
da
Romano,
i
quali,
nel
frattempo,
si
erano
collegati
ai
veronesi
Montecoli.
Poi,
mentre
Ezzelino
II
lottava
contro
una
grave
malattia,
Azzo
si
impadronì
di
Ferrara,
rivolgendo
infine
le
sue
truppe
contro
Vicenza.
Tra
l’altro,
nel
1208
il
signore
Estense
ottenne
dal
papa
il
marchesato
di
Ancona,
passato,
alla
sua
morte
(1213),
prima
al
figlio
Aldobrandino
e
poi
all’altro
figlio
Azzo
VII
Novello
(1215).
Dal
punto
di
vista
di
Ezzelino
II,
l’alleanza
con
i
Montecoli
e
con
Salinguerra
–
diventato
nel
frattempo
suo
genero,
rappresentò
–
come
ha
sottolineato
ancora
il
Castagnetti
– la
scelta
politica
più
consona
per
contrapporsi
“alla
intensa
e
potente
attività
espansionistica
degli
Estensi”.
In
tal
modo
si
venne
accentuando
anche
la
ricerca
di
collegamenti
con
le
famiglie
anti-estensi,
ovunque
queste
si
trovassero.
Fu
allora
che,
con
tutta
probabilità,
prese
definitivamente
forma
il
disegno
di
una
politica
di
potenza
su
base
regionale.
A
porre
momentaneamente
fine
alle
lotte
tra
l’Estense
ed
Ezzelino
il
Monaco
fu
l’intervento
dell’imperatore
Ottono
IV,
in
viaggio
verso
Roma,
il
quale
costrinse
i
contendenti
a
riappacificarsi.
Immediatamente
il
da
Romano
ne
approfittò
per
rinsaldare
il
suo
potere
su
Vicenza,
tenuta
ininterrottamente
dal
1209
al
1211,
e a
capo
della
quale
collocò
due
suoi
fedeli
alleati
lombardi:
Drudo
Buzzacarini
e
Guglielmo
l’Ardito,
che
saranno
anche
tra
i
massimi
alleati
di
Ezzelino
III.
La
preoccupazione
principale
di
costoro
fu
quella
di
sottomettere
l’aristocrazia
feudale.
La
tregua,
però,
fu
alquanto
breve
e
anzi
le
lotte
divamparono
più
feroci
che
mai.
I
prodromi
dell’imminente
scontro
fu
dato
dal
fatto
che
i
vicentini
di
tendenze
anti-ezzeliniane
fuggirono
alla
volta
di
Verona,
mentre
i
veronesi
avversi
agli
Estensi
fecero
il
tragitto
inverso.
Tutto
era
pronto
per
la
guerra.
Nel
1212,
a
Ponte
Alto,
avvenne
lo
scontro,
conclusosi
con
una
schiacciante
vittoria
del
da
Romano.
Tale
risultato
apparve
ancora
più
clamoroso
in
virtù
della
morte
dei
due
grandi
nemici
dei
da
Romano:
Bonifacio
di
Sambonifacio
(10
novembre
1212)
e
Azzo
d’Este
(18
novembre
1212).
A
questo
punto,
sembrò
che
Ezzelino
fosse
realmente
il
padrone
della
Marca.
Infatti,
avendo
già
in
pugno
Treviso
e
Vicenza,
si
insediò
anche
a
Verona
e,
d’accordo
con
i
padovani,
procedette
a
dare
il
colpo
di
grazia
alla
potenza
estense
mediante
la
distruzione
del
castello
di
Este.
Peraltro,
fu
proprio
in
questa
occasione
che
si
mise
in
luce
il
figlio
di
Ezzelino
II,
Ezzelino
III.
Naturalmente
il
dominio
della
famiglia
da
Romano
su
un
territorio
di
tale
vastità
andava
a
toccare
e
sconvolgere
interessi
e
rapporti
locali
consolidati.
Sicché
immediata
fu
la
reazione
dei
potentati
–
comunali
e
non
–
lesi.
Prima
tra
tutti
si
levò
la
voce
del
papa
Innocenzo
III,
che,
in
una
lettera
del
1213,
definiva
il
marchese
d’Este
“difensore
della
Chiesa”,
legittimandolo
nella
sua
funzione
di
opposizione
ai
da
Romano,
mentre
scomunicava
Ezzelino
II.
Della
pronuncia
del
papa
approfittarono
immediatamente
Padova
e
Venezia
(che
ormai
guardava
con
estremo
interesse
alla
terraferma),
le
quali
si
schierarono
contro
lo
scomunicato.
Quasi
nello
stesso
periodo,
sempre
in
funzione
anti-ezzeliniana,
fu
promossa
una
coalizione
che
avrebbe
assicurato
la
pace
per
un
decennio.
Era
sicuramente
un
modo
efficace
per
bloccare
Ezzelino
II e
per
dar
tempo
ai
suoi
avversari,
che
erano
sempre
più
numerosi,
di
riorganizzarsi.
E,
in
effetti,
da
lì a
poco,
Ezzelino,
accerchiato,
fu
costretto
ad
abbandonare
Vicenza
e,
nel
1218,
dovette
lasciare
agli
stessi
vicentini
anche
Marostica.
Tuttavia,
il
tentativo
di
ridimensionarlo,
fino
a
ridurlo
al
rango
di
un
signorotto
pedemontano,
fallì.
Infatti,
sotto
la
guida
del
giovane
Ezzelino
III,
i da
Romano
contrattaccarono
e
riuscirono
a
sconfiggere
i
vicentini
a
Bressanvido,
ritornando
a
essere
padroni
della
città.
Però
sapevano
che
l’accerchiamento
non
era
terminato.
I
nemici
erano
dappertutto
e
loro
avevano
ancora
bisogno
di
tempo
per
organizzare
valide
controffensive
dirette
non
solo
a
difendere
quanto
già
acquisito,
ma a
conquistare
nuovi
territori
e
domini.
Di
questo
stato
di
cose,
all’inizio
del
1219,
approfittarono
i
padovani
che,
prima,
costrinsero
i da
Romano
a
rinunciare
al
castello
di
Campreto
e,
poi,
costruirono
vicino
Onara
un
borgo
fortificato
per
meglio
controllare
le
loro
mosse:
Cittadella.
A
questo
punto,
per
uscire
da
una
impasse
preoccupante,
Ezzelino
II
avviò
una
nuova
‘politica
matrimoniale’.
Fece
sposare
i
due
figli
Alberico
ed
Ezzelino
III
rispettivamente
con
Beatrice,
figlia
di
un
ricco
borghese
locale,
e
Zilia,
sorella
di
Rizzardo
di
Sambonifacio,
che,
a
sua
volta,
ebbe
in
moglie
Cunizza,
sorella
dei
primi
due.
L’intento,
neanche
tanto
occulto,
di
Ezzelino
II,
regista
di
tutti
questi
matrimoni
era
quello
di
aprirsi
la
strada
in
direzione
di
Verona
e
nel
contempo
far
fronte,
con
un’alleanza
militare
straordinaria,
alla
pressione
del
Comune
di
Padova.
Ma,
i
Sambonifacio,
che
miravano
anch’essi
al
dominio
di
Verona,
presero
ben
presto
le
distanze,
mentre
a
Ferrara
tornarono
gli
Estensi,
il
maggior
esponente
dei
quali,
Azzo
VII,
era
divenuto
persino
delegato
di
Federico
II.
Fu
in
questa
situazione
di
grave
instabilità
politica,
sempre
sull’orlo
di
una
guerra,
perennemente
carica
di
tensioni
e di
piccoli
e
grandi
dissidi,
dentro
e
fuori
le
città,
che
Ezzelino
II
decise
di
ritirarsi
in
convento
(1223).
In
realtà,
già
dal
1218
egli
risultava
infirmus
e
nel
1221
aveva
ricevuto
una
lettera
di
felicitazioni
dal
papa
per
aver
rinunciato
alla
‘militia’
e ai
‘desiderii’
del
mondo.
Il
più
vecchio
dei
da
Romano,
stanco,
malato,
desideroso
di
pace
e –
per
certi
versi
–
soddisfatto
dei
domini
acquisiti,
si
ritirò
nel
convento
di
Oliero,
senza
pronunciare
i
voti
monastici,
dopo
avere
provveduto
alla
divisione,
tra
i
due
figli,
degli
ingenti
beni
della
casata,
dei
quali
solo
una
minima
parte
(Godego,
Treville,
Villarozzo,
Loria,
Romano,
Castiglione
e
Angarano)
tenne
per
sé.
Gli
anni
dell’affermazione
del
rampollo
Con
la
divisione
dei
beni,
avvenuta
a
Bassano,
il 5
luglio
1223,
Alberico
ed
Ezzelino
III
entrarono
in
possesso
di
un
vastissimo
patrimonio,
che
divenne
la
base
della
loro
potenza
futura.
Ezzelino
il
Monaco
lasciò
alla
sorte
l’assegnazione
delle
parti.
Ad
Alberico,
fra
beni
feudali
e
allodiali,
toccarono:
Bassano,
Fontaniva,
Angarano,
Rossano,
Cartigliano,
Romano,
Mussolente,
Borso,
Cassanago,
Sant’Ilario,
Solagna
con
tutta
la
gastaldia,
Enego,
Gallio
e i
possedimenti
di
Pieve
di
Arsié
e,
in
Valsugana,
di
Cassola,
di
Vicenza
e
del
vicentino
più
la
metà
di
tutti
i
crediti.
A
ezzelino
toccarono
San
Zenone,
Lediolo,
Crespano,
Bessica,
Pietrafosca,
Loria,
Cismon,
Spineda,
Pagnaro,
Medolo
con
la
gastaldia,
Fontanelle
con
la
gastaldia,
Godego
e
Treville
con
le
loro
curie,
Cortiglione,
San
Martino
di
Lupari,
Treviso,
i
beni
di
Cismone,
Feltre,
Fonzaso,
Belluno,
Cesan,
l’avvocatizia
di
Belluno,
i
beni
del
Patriarcato
di
Aquileia
e
del
Monastero
di
Pero,
con
tutti
i
diritti
su
questi
terreni
e la
metà
dei
crediti.
Intanto,
però,
il
doppio
vincolo
di
parentela
tra
da
Romano
e
Sambonifacio
aveva
messo
in
allarme
i
veronesi
Montecoli,
che
si
sentivano
minacciati.
Ma
non
ci
fu
bisogno
di
addivenire
a
nuovi
scontri
poiché
l’alleanza
tra
le
prime
due
famiglie
si
ruppe
subito.
“Quali
siano
stati
i
veri
motivi
della
rottura
–
afferma
il
Rapisarda
–
non
si
può
dire
con
precisione,
perché
i
cronisti
su
ciò
sono
poco
d’accordo
fra
loro”,
ma
quasi
sicuramente
sono
da
ricercare
nella
rivalità
accesasi
per
il
possesso
di
Verona
e
zone
limitrofe.
Liberatosi
dal
vincolo
dei
Sambonifacio,
Ezzelino
passò
dalla
parte
dei
Montecoli.
Costoro,
assieme
ai
loro
alleati
Quattuorviginti
(transfughi
del
partito
dei
Sambonifacio,
nel
1225,
avevano
preso
le
armi
contro
gli
stessi
Sambonifacio
e,
fatto
prigioniero
il
podestà
Giuffredo
da
Pirovano,
si
erano
impadroniti
di
Verona.
In
tal
modo
Ezzelino,
legato
ancora
a
Salinguerra
e in
rotta
coi
Sambonifacio,
colse
l’occasione
per
inserirsi
nelle
vicende
veronese
e,
schierandosi
coi
Montecoli,
allungò
le
mani
sulla
città.
Il 4
giugno
1226
i
Sambonifacio
vennero
cacciati
e,
al
posto
di
Leone
delle
Carceri,
divenne
podestà
Ezzelino
medesimo.
Secondo
Gerardo
Maurisio,
nell’assumere
quella
determinazione,
agì
su
Ezzelino
il
rancore
verso
i
conti
di
Sambonifacio,
mentre
per
Rolandino
era
stato
lo
stesso
Salinguerra
a
chiedere
aiuto
per
iscritto.
In
realtà,
è
molto
più
verosimile
che
il
da
Romano
volesse
–
come
si è
rilevato
poco
sopra
-
semplicemente
impadronirsi
della
città
e
magari
usarla
come
piattaforma
per
la
conquista
della
zona
pedemontana.
Tanto
più
che
in
quel
momento
i da
Romano,
nella
persona
di
Alberico,
erano
stati
banditi
da
Vicenza
a
opera
del
podestà
bresciano
Lorenzo
Martinengo,
dopo
che
questi
aveva
scoperto
una
congiura
contro
di
lui,
architettata
dallo
stesso
Alberico
e
dai
signori
di
Breganze.
Il
governo
di
Ezzelino
su
Verona
durò
fino
al
settembre
1227,
sostituito
da
Manfredo
di
Cortenuova.
Fu
questa
la
fase
in
cui,
nell’esercizio
della
sua
autorità,
il
podestà
veronese
fu
affiancato
dalla
nuova
istituzione
della
‘Comunanza’.
Quest’organo
collegiale,
nel
quale
erano
rappresentati
tutti
gli
esponenti
delle
fazioni
cittadine,
avrebbe
dovuto
assicurare
la
pace
e la
convivenza
tra
le
partes,
pace
alla
quale
era
interessata
verosimilmente
non
solo
la
cittadinanza
di
Verona,
ma
tutta
la
Lega
Lombarda,
la
quale,
superato
il
contrasto
con
l’Imperatore
e
iniziate
le
pratiche
per
l’amnistia,
aveva
seri
motivi
per
volere
la
pace
in
città:
un
eventuale
accentuarsi
delle
discordie
avrebbe
infatti
avvantaggiato
solo
Federico
II,
al
quale
il
partito
vinto
avrebbe
inevitabilmente
fatto
ricorso.
L’arbitrato
della
Lega
avvenne
a
Nogara
l’8
giugno
1227.
La
pacificazione
tra
le
parti
sembrava
cosa
fatta.
Questo
periodo
di
tregua
portò,
a
distanza
di
un
anno,
alla
stesura
del
nuovo
statuto
cittadino.
Nel
1228,
intanto,
dopo
il
periodo
di
lontananza,
Ezzelino
tornò
a
Treviso,
dove
continuava
a
coltivare
solide
amicizie
come
quelle
dei
Guidotti,
dei
da
Cavaso,
degli
Arnaldi,
dei
da
Vidor
e di
elementi
‘popolari’
come
i
Fabris
e i
Riccardi.
Ripreso
in
mano
il
destino
della
città,
il
da
Romano
rilanciò
le
lotte
per
l’espansione,
soprattutto
contro
i
vescovi
di
Feltre
e
Belluno.
Anche
questi
due
Comuni
vennero
conquistate,
ma
ben
presto
l’intervento
dei
padovani,
tutori
di
quei
vescovi,
coadiuvati
dal
Patriarca
di
Aquileia
e da
Azzo
VII
d’Este,
determinò
la
riconquista
delle
due
città.
Nel
1230,
mentre
si
trovava
a
Treviso,
fu
raggiunto
dalla
notizia
di
alcuni
tumulti
verificatisi
a
Verona,
in
Campo
Marzo,
in
seguito
ai
quali
i
capi
delle
fazioni
contrapposte
erano
stati
condannati
l
confino
a
Venezia
dal
podestà
Ranieri
Zeno.
Ezzelino
si
recò
in
quella
città
e,
con
i
Montecoli
e i
Quattuorviginti,
sconfisse
i
Sambonifacio,
che
difendevano
il
podestà
in
carica,
dei
quali
era
emanazione.
Il
conte
Rizzardo
fu
fatto
prigioniero
- e
per
la
sua
liberazione
venne
mobilitato
persino
il
francescano
Antonio
da
Padova
– e
le
torri
cittadine
abbattute,
volendo
significare
con
ciò
che
Verona
era
nuovamente
delle
forze
filo-ezzeliniane.
Soltanto
ai
Rettori
della
Lega
Lombarda
–
chiamati
in
causa
dai
padovani
– il
da
Romano
si
decise
a
consegnare
il
conte
prigioniero,
dietro
promessa
della
consegna
del
castello
di
San
Bonifacio
e
del
Comune
di
Verona,
cosa
che
poi
non
accadde
e
che
contribuì
a
spingere
Ezzelino
verso
Federico
II.
Infatti,
nel
gennaio
1232,
a
Ravenna,
si
tennero
i
primi
contatti
tra
il
da
romano
e
Salinguerra,
da
un
lato,
e
l’imperatore,
dall’altro.
La
formale
adesione
al
‘partito’
imperiale
avvenne
nella
primavera
di
quello
stesso
anno.
Non
sappiamo
se,
fino
a
quel
momento,
i da
Romano
avessero
affrontato
il
problema
delle
città
comunali
in
un
orizzonte
meramente
localistico,
intra-Marca
in
particolare,
ma è
certo
che
l’alleanza
con
l’imperatore
rappresentò
anche
per
Ezzelino
un
salto
di
qualità
militare
e
politico,
coincidente
peraltro
con
un
radicale
cambiamento
strategico.
Infatti,
già
nel
1226
i da
Romano
avevano
provato
ad
accostarsi
alla
Lega
Lombarda
con
l’obiettivo
di
poter
giocare
un
ruolo
di
condizionamento
e di
indirizzo
sulle
città
lombarde
e
venete.
Ma
soprattutto
i
Comuni
lombardi
non
avevano
nutrito
verso
quella
schiatta
‘straniera’
alcun
sentimento
amichevole
e
anzi
avevano
preferito
l’appoggio
degli
Estensi
e
dei
Sambonifacio
–
‘stranieri’
anch’essi,
ma
verosimilmente
con
connotati
meno
aggressivi.
In
un
primo
momento
il
da
Romano
tentò
addirittura
di
ingraziarsi
il
papa
promettendo
di
consegnargli,
con
gesto
disperato,
il
vecchio
padre
accusato
di
eresia,
ma
senza
successo.
Allora
pensò
di
legarsi
all’imperatore,
il
quale,
in
quel
momento,
si
muoveva
per
l’Italia
con
l’obiettivo
espresso
di
distruggere
le
libertà
comunali.
Tuttavia,
per
attuare
questo
piano
-
che
era
anche
un
forte
programma
politico
-
Federico
II
aveva
bisogno
di
forze
fedeli
in
grado
di
garantirgli
il
controllo
della
situazione
allorché
sarebbe
giunto
il
momento
per
attuare
ciò
che
la
volontà
di
Dio
e
l’eredità
imperiale
di
Roma
imponevano.
Certamente,
vi
erano
città
di
tradizioni
ghibelline
cui
l’imperatore
avrebbe
potuto
appoggiarsi.
Era
questo
il
caso
di
Cremona
e
Parma,
ma
anche
del
Patriarcato
di
Aquileia.
Ma
delle
città
non
poteva
fidarsi
fino
in
fondo:
erano
perennemente
esposte
a
colpi
di
mano
e a
vagolare
da
uno
schieramento
all’altro.
Il
Patriarcato
di
Aquileia,
oltre
tutto,
era
debole
e
isolato,
senza
grandi
garanzie
di
sicurezza,
un
corpo
separato
rispetto
al
blocco
delle
città
guelfe
o
anti-imperiali.
È
qui
che
allora
Federico
si
rende
conto
di
avere
bisogno
della
Marca.
E
questo
per
più
ragioni.
La
prima
era
da
ricercarsi
nella
vastità
del
suo
territorio,
il
quale
–
come
evidenzia
ancora
il
Rapisarda
–
“avrebbe
formato
una
larga
base
per
un
buon
accentramento
di
forze
e,
quel
che
più
contava,
avrebbe
assicurato
la
via
di
Verona
e
dell’Alto
Adige
alle
cavallerie
tedesche,
su
cui
Federico
faceva
tanto
affidamento”.
La
seconda
ragione
riguardava
proprio
la
questione
più
squisitamente
militare.
Infatti,
quando
in
Lombardia
iniziarono
le
prime
lotte,
Federico
–
come
scrive
Eberhardt
Horst
–
poteva
contare
solo
su
“una
forza
di
non
più
di
2000
cavalieri,
frutto
dell’unione
delle
varie
milizie
e
finanziati
dalle
tasse
del
Regno
di
Sicilia
e
dall’oro
della
dote
della
britannica
Isabella”.
In
questo
contesto,
allora,
le
numerose
forze
compatte,
fedeli
e
disciplinate
di
Ezzelino
rappresentarono
un
bene
inestimabile.
Fu
grazie
a
tali
forze
del
“formidabile
Ezzelino”
se
le
truppe
imperiali
poterono
resistere
e
permettere
così
agli
eserciti
delle
città
lombarde
filo-imperiali
di
giungere
indisturbate
a
Verona,
nel
1236.
All’esercito
di
Federico,
poi,
si
aggregarono
“cavalieri
toscani,
fanterie
inglesi,
francesi,
ungheresi
e di
altri
sovrani”,
fino
a
raggiungere
un
effettivo
di
12-13
mila
combattenti.
“Per
soprannumero
–
aggiunge
David
Abulafia
–
Ezzelino
era
un
valente
generale,
come
avrebbe
dimostrato
da
lì a
non
molto
ai
comuni
lombardi
che
appoggiavano
l’imperatore”.
Ma,
come
si
vedrà,
il
da
Romano
era
anche
un
abile
politico
con
un
disegno
chiaro
in
mente:
l’istituzione
di
un
dominio
unico
su
tutte
le
città
della
Marca,
le
quali
sarebbero
state
federate
all’interno
del
grande
progetto
imperiale
di
Federico
II.
Per
dirla
con
Philip
Jones,
l’obiettivo
di
Ezzelino
era
quello
di
fondare
un
“dominium
sub
umbra
imperii
(Rolandino),
con
delegati,
capitanei
e
vicarii
imperii”.
Naturalmente,
dal
suo
punto
di
vista,
non
fu
il
desiderio
disinteressato
di
servire
l’imperatore
a
spingerlo
sulla
strada
di
questa
alleanza,
ma
la
necessità
di
uscire
dalla
situazione
critica
in
cui
si
era
venuto
a
trovare
dopo
l’abbandono
della
Lega.
Il
primo
atto
di
Ezzelino,
dopo
l’alleanza
con
Federico
II,
fu
quello
di
cacciare
il
podestà
di
Verona,
Guidone
di
Rho,
e
sostituirlo
con
un
fedele
seguace
dell’Impero,
il
cremonese
Guglielmo
da
Persico.
Alla
fine
dello
stesso
anno,
con
un
atto
pubblico,
Federico
elogiava
i da
Romano
per
aver
messo
a
disposizione
della
causa
imperiale
la
loro
potenza
e
accordava
loro
la
speciale
protezione
sua
e
dell’Impero.
Inoltre,
fece
scrivere
ai
vescovi
di
Padova,
Vicenza
e
Treviso
per
indurli
ad
annunciare
coram
populo
il
patto
tra
l’Impero
e i
da
Romano.
Subito
dopo
divampò
nuovamente
la
guerra.
Questa
volta
per
il
mantenimento
del
controllo
su
Treviso.
Qui,
i
fratelli
Guecello
e
Biaquino
da
Camino,
in
contrasto
col
Comune
di
Treviso,
controllato
da
Ezzelino,
si
rivolsero
a
Padova,
alla
quale
si
sottomisero,
e a
Conegliano,
città
della
quale
Biaquino
era
primo
procuratore.
In
tal
modo
si
saldò
un’alleanza
strategica
tra
Padova,
Conegliano,
i da
Camino,
cui
in
poco
tempo
aderirono
anche
i
Sambonifacio,
gli
Estensi,
i
Camposampiero,
il
vescovo
di
Feltre
e
Belluno,
il
Patriarca
di
Aquileia
e i
vicentini.
Per
tutta
risposta
i
trevigiani
si
rivolsero
a
Verona,
ai
da
Romano
e al
conte
Guida
da
Vicenza.
La
guerra
scoppiò,
ma
proprio
quando
le
vicende
stavano
volgendo
al
meglio
per
i
trevigiani
e i
da
Romano,
si
pervenne
alla
tregua,
detta
‘dell’Alleluija’,
nella
primavera
del
1233,
grazie
all’intervento
del
frate
Giovanni
da
Vicenza
(o
fra’
Giovanni
da
Schio),
grande
predicatore
e,
verosimilmente,
inviato
di
Gregorio
IX.
Ma
anche
la
tregua
durò
poco.
Nel
1234
Ezzelino,
cacciato
da
Treviso
da
Rizzardo
di
Sambonifacio,
dando
seguito
alla
sua
intenzione
di
metter
le
mani
definitivamente
su
Verona,
ottenne
il
controllo
della
medesima
città.
Però,
non
accettando
incarichi
ufficiali
(si
limitò,
infatti,
a un
brevissimo
periodo
– 11
giorni:
dal
27
giugno
all’8
luglio
– di
rettorato),
impose
come
podestà
il
fedele
modenese
Roberto
dei
Pii.
A
questa
mossa
di
Ezzelino
risposero
immediatamente
i
suoi
nemici,
devastando
ampie
zone
della
bassa
veronese
e
spingendosi
fino
alle
porte
della
città.
Il
da
Romano
resistette,
pur
ridotto
a
malpartito,
finché
non
giunsero,
il
16
maggio
1236,
le
avanguardie
dell’esercito
imperiale,
ossia
500
cavalieri
tedeschi
accompagnati
da
100
arcieri
saraceni.
Il
17
agosto,
poi,
arrivò
anche
Federico,
alla
testa
di
altri
3000
cavalieri.
Presa
Verona,
i
prossimi
atti
del
da
Romano
prevedevano
l’azione
a
oriente
contro
Padova,
Vicenza
e
Treviso,
mentre
Federico
andava
verso
Cremona
per
ricongiungersi
con
le
forze
dei
Comuni
ghibellini
di
Cremona,
Parma,
Modena
e
Reggio
Emilia.
Intanto,
a
Vicenza,
la
situazione
era
alquanto
fluida.
A
controllare
la
città
era
Azzo
d’Este,
anch’egli
filo-imperiale,
come
si
sa,
benché
acerrimo
nemico
di
Ezzelino.
Alla
fine
dell’agosto
1236
Federico
inviò
legati
a
costui
con
la
richiesta
di
obbedienza
da
parte
dei
vicentini.
Azzo
non
li
ricevette
nemmeno
e
ciò
scatenò
l’ira
dell’imperatore,
il
quale
decise
di
puntare
tutto
su
Ezzelino,
rinsaldando
ulteriormente
quell’alleanza
e
quell’amicizia
che
aveva
retto
alle
prove
più
dure.
Sul
piano
politico
venne
dato
immediato
ordine
di
conquista
di
Vicenza.
La
città
resistette
meno
di
tre
mesi.
Il 1
novembre
1236,
Vicenza,
dopo
un
logorante
assedio
da
parte
delle
truppe
ezzeliniane
e
federiciane,
fu
presa,
saccheggiata
e
data
alle
fiamme.
Il
successo
fu
tale
che
Federico,
affidate
Vicenza
e
Verona
al
fedele
alleato,
tornò
in
Germania,
promuovendo,
nei
fatti,
il
da
Romano
“a
suo
alter
ego
–
scrive
Hyde
- a
primo
compagno
su
cui
contare
in
vista
delle
nuove
e
terribili
prospettive
che
aveva
davanti:
non
solo
la
riconquista
di
questa
o
quella
città
ribelle,
ma
l’annientamento,
in
tutta
l’Italia
del
nord,
della
stessa
idea
della
città-stato”.
Pochi
mesi
dopo,
estenuata
dalle
discordie
intestine,
da
intrighi
e
tradimenti,
abbandonata
dagli
Estensi,
incapaci
di
fronteggiare
la
situazione
esplosiva
e
arresisi
all’imperatore,
anche
Padova
cadde,
senza
neanche
tentare
di
difendersi.
Il
25
febbraio
1237
Ezzelino
fece
il
suo
ingresso
trionfale
da
Porta
Altinate.
Una
settimana
dopo,
il 3
marzo,
stesso
destino
toccò
a
Treviso,
la
quale
si
consegnò
spontaneamente
al
da
Romano.
La
città
venne
occupata
da
Gaboardo
di
Arnstein,
in
veste
di
rappresentante
dell’imperatore,
ma
in
realtà
era
nelle
mani
di
Ezzelino
come
le
Padova,
Vicenza
e
Verona.
In
quel
momento
il
da
romano
concentrava
sotto
di
sé
un
potere
immenso
su
un
territorio
di
estensioni
straordinarie.
Ma
non
solo.
Il
suo
era
un’entità
statuale
dai
connotati
originali,
fondata
sull’intreccio
e la
composizione
di
quattro
delle
più
grandi,
attive
e
forti
città
dell’epoca.
Era
l’esempio
di
come
l’epoca
delle
città-stato
–
come
le
chiama
Hyde
–
stava
per
finire
o
sarebbe
potuta
finire.
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