arte
TINTORETTO IL TERRIBILE DEVOTO
SCAMPATO ALLA PESTE AL SERVIZIO DI SAN
ROCCO / PARTE II
di Marialuisa Dus
Per Tintoretto gli anni Sessanta sono un
periodo di gloriosa creatività, genera
figli e pitture in quantità. Nel 1560
nasce il primogenito Domenico, destinato
a rilevare l’attività del padre, poi
Marco, Gerolima, Giovanni Battista,
Ottavio e, negli anni Settanta e
Ottanta, Lucrezia e Laura. Tintoretto
quasi quarantenne sposa Faustina
Episcopi. Madre, moglie, padrona e
amministratrice di casa, la giovanissima
donna consente a Tintoretto di dedicarsi
alla pittura lavorando senza tregua.
Marietta, invece, nata da una relazione
precedente con una donna straniera,
forse tedesca, muore a soli trentasei
anni; detta da tutti Tintoretta, sua
discepola, diventa presto un’ammirata
ritrattista.
Tintoretto e i notturni dedicati a San
Rocco
A questo periodo di febbrile ricerca
artistica appartiene San Rocco in
prigione confortato da un angelo. Il
telero del 1567 è stato concepito per
fronteggiare il dipinto del 1549 San
Rocco risana gli appestati, noto
anche come San Rocco in ospedale.
Lunghi all’incirca sei metri e larghi
tre, i due notturni orizzontali
costituiscono un dittico imponente.
Stupefacenti scene teatrali dove figure
gesticolanti, toccate da luce
artificiale, si dimenano nel dramma e
implorano aiuto. Il dolore affligge i
corpi degli ammalati e le anime dei
condannati. Negli oscuri luoghi della
pena il malato soffre, il delinquente si
ribella e il pentito chiede grazia
divina. Il devoto Tintoretto mette in
scena il tema del risanamento.
Il dipinto notturno conferisce dignità
al mistero delle tenebre e all’incanto
della notte. I lumi artificiali
restituiscono il visibile indorato e
l’invisibile che si perde nell’oscurità.
La luce crea gerarchie fra le cose,
esalta e smorza. Al variare della fonte
luminosa, della sua forza e della sua
distanza, i colori si vivacizzano o si
spengono, si rinnova la resa plastica.
L’ombra governa l’iperrealismo della
scena. Il contrasto tra definito e
indefinito dona fedeltà fotografica e
rende il racconto coinvolgente. Tra
immagine e spettatore il rapporto si fa
più intimo.
Tintoretto certamente conosceva il
Martirio di San Lorenzo di Tiziano
del 1548 e la Liberazione di San
Pietro di Raffaello del 1512-13,
prime pitture notturne assieme al
Sonno di Costantino di Piero della
Francesca del 1458-66. Il «picciol
torchio» che – Michelangelo
Buonarroti asserisce – «tolle la vita
della notte» apre la strada alla
ricerca luministica nell’arte a venire.
Tintoretto sperimenta la pittura
notturna così da anticipare con i
racconti religiosi ambientati in
gattabuie e taverne i maestri del Lume
dell’arte barocca e con gli episodi
biblici immersi nel Creato i maestri del
Sublime dell’arte romantica. Nel dittico
dedicato alle Meditazioni della
Vergine, dipinto per la Scuola
Grande di San Rocco, trionfa il lirismo
dei paesaggi notturni ottocenteschi.
.
Madonna in meditazione,
1582-87, olio su tela, 425 x 211 cm
Scuola Grande di San Rocco, Venezia.
.
Madonna leggente,
1582-87, olio su tela, 425 x 209 cm
Scuola Grande di San Rocco, Venezia
A esaltare il naturalismo dei notturni
dedicati a San Rocco, istantanee dai
toni mistici e dimessi, sono soluzioni
antiaccademiche: concitati gesti carici
di sentimento, arditi effetti
chiaroscurali e robustezza plastica,
ripresa più nella forma che nella
possanza dai modelli tosco-romani. La
disperazione infiamma i singoli episodi
delle due composizioni che si dispiegano
con vivace armonia in un interno cupo.
Il tormento si placa nell’aura
spirituale del Santo che in ospedale
benedice l’appestato e in prigione trova
conforto nel messaggero divino.
Con realismo e pietà umana il dittico
presenta gli episodi più importanti
della vita del Santo. Gli spazi bui e
disadorni dell’ospedale e del carcere
rievocano gli interni fuligginosi delle
locande, dove Tintoretto ambienta le sue
Ultime cene. Sguardi
supplichevoli di volti contriti
s’incrociano in cerca di conforto. Gli
ignudi di Michelangelo rivivono in
figure ondeggianti che si muovono nel
lividore del male. Infermi seduti su
sgabelli e tavolacci, sdraiati a terra e
distesi su letti disfatti. Alle figure
maschili seminude, ripiegate nel dolore,
fanno da contrappunto quelle femminili,
giovani donne, acconciate alla moda,
infermiere dei malanni del corpo e della
mente. La floridezza della sanità
contrasta con l’annichilimento della
malattia. D’improvviso la bellezza del
corpo si guasta. A ferire il vigore non
è la commovente vecchiaia ma il male, il
morbo e la corruzione. Ammorbati e
disobbedienti si assistono a vicenda per
superare la pena che li affligge.
Tintoretto, uomo di fede, sintetizza con
modernità narrativa due situazioni
deliranti dell’esistenza umana.
.
San Rocco risana gli appestati,
1549, olio su tela, 307 x 673 cm
Chiesa di San Rocco, Venezia
.
San Rocco in carcere confortato da un
angelo,
1567, olio su tela, 300 x 670 cm
Chiesa di San Rocco, Venezia
Una pittura d’azione dentro
un’architettura formata da cavità
notturne. «Le cognizioni delle ombre
e dei lumi acquistate con tanta
industria» da Tintoretto, che
Giannatonio Moschini ricorda nella
Guida per la città di Venezia del
1815, si riversano in uno spazio
profondo, strutturato prospetticamente
che accoglie un tumulto di figure che si
torcono e si tendono. La vivacità delle
posture assunte dai corpi avvalora il
tono espressionista della pittura. Il
dittico è un inno al corpo. Il rapporto
tra figura e ambiente è risolto con
arditi effetti di luce e di scorcio.
L’artificioso gioco di ombre e lumi
esalta le forme, i gesti e i colori e
coinvolge lo spettatore. Tintoretto nel
suo studio – racconta il biografo
vicentino Ridolfi – aggiusta e illumina
in un piccolo teatro di legno marionette
di cera, cartapesta e gesso ricreando la
scena da dipingere. Lo storico dell’arte
Roberto Longhi, insofferente del
Tintoretto «macchinista che si sporge
un po’ troppo oltre le quinte, ciò che
non è mai buon teatro» riconosce al
pittore veneziano una «natura
geniale, colma in principio d’idee
bellissime per favole drammatiche da
svolgersi entro la scenografia di luci e
ombre rapidamente viranti».
Nell’ospedale la luce artificiale inonda
le figure in primo piano così tanto da
sbiancare il pavimento; in lontananza,
nell’oscurità, illuminato da una flebile
luce di candela, un gruppetto si
appresta a tumulare un cadavere. Nel
carcere invece la luce divina illumina
dall’alto il centro della scena, dove
San Rocco si apre alla Grazia. Sulla
destra dietro un’ampia inferriata, la
luce di una lanterna appesa al soffitto
rischiara la buia cella dove s’intravede
l’ombra di un uomo in piedi.
Nelle due tele dedicate a San Rocco tra
le tinte spente e bruciate, tanto care a
Tintoretto, lampeggiano i colori
squillanti della pittura del Veronese.
Macchie di vivace colore punteggiano il
dominante monocromatismo degli
incarnati: sono le vesti svolazzanti che
coprono le nudità. Interessato più al
gesto che all’anatomia, Tintoretto
restituisce immediatezza dipingendo
abiti mossi e corpi agitati. Una pittura
sintetica e moderna che emoziona,
animata da una voce interiore che
Tintoretto imprigiona sulla tela come un
regista.
L’alito vibrante che muove gli appestati
di San Rocco è lo stesso che anima gli
sciancati di Sant’Agostino. Della pala
d’altare dipinta nel 1549 per la chiesa
vicentina di San Michele Ridolfi mette
in evicenza i «parecchi ignudi
accomodati in alcuni scorsi dottamente
condotti». Come da tradizione
iconografica nei quadri di Tintoretto
volteggiano i santi che da morti
compiono il miracolo, sopra le teste dei
devoti malati, smarriti dall’apparizione
divina. Volteggia San Marco,
Sant’Agostino e anche l’angelo in
morbide vesti turchine che visita il
giovane Rocco in prigione. Nella pittura
aerea di Tintoretto la figura sospesa
ritorna e, col passar degli anni, con
sempre maggior insistenza. Le macchie
tintorettiane vanno via via
rabbuiandosi, si alleggeriscono, perdono
peso fino a volteggiare nell’aria come
baluginanti fantasmi.
.
Sant’Agostino risana gli sciancati,
1549, olio su tela, 255 x 175 cm
Pinacoteca di Palazzo Chiericati,
Vicenza
.
Erezione del serpente di bronzo,
1575-76, olio su tela, 840 x 520 cm
Scuola Grande di San Rocco, Venezia
Tintoretto dipinge i due teleri per la
Chiesa di San Rocco a distanza di quasi
vent’anni. Nel pittore del pentimento
persistono l’arditezza e la furia
creativa. Con il tempo la pennellata si
fa più energica, aumenta la ruvidezza
del segno. Il secondo Tintoretto si
mostra più maturo, studia di meno e
produce di più, definisce un catalogo di
tipi interscambiabili. Ritorna sul tema
del notturno e dell’ambientazione
interna ma le figure perdono rotondità,
diventano instabili, smagriscono e
invecchiano assieme al loro artefice.
«Quell’hospitio è ripieno di donne e
uomini infermi. Alcuni saliti sopra
panche si sfasciano le ferite; altri
languenti si veggono tratti per terra in
iscorci maravigliosi, in guisa che pare
eschino co’ piedi fuor della tela;
alcuni vecchi vengono sostenuti da
giovani, e donne sollevate ne’ letti,
che fan sembianti di raccomandarsi alla
pietà del Santo».
Ridolfi descrive così la prima
composizione apprezzandone la qualità di
rappresentarsi con «mestizia
appropriata al luogo». Il secondo
componimento invece lo definisce un «curioso
capriccio» e della scena mette in
risalto i «pezzi incatenati, co’
ceppi ai piedi, e d’altri ancora (oltre
agli infermi) che spuntano fuori col
capo dalle ferrate collocate nel piano,
ai quali vien posto il cibo dagli
spitalieri».
Fra crocchi d’infermi e incatenati
emerge la figura di San Rocco con la
testa illuminata dal nimbo raggiante che
nelle tenebre riluce come segno divino
di speranza. L’aureola, molto più accesa
nel Santo guaritore, sembra ravvivarsi
nel Santo malato all’arrivo dell’angelo.
Non manca, in entrambe le scene, il
fedele compagno del giovane pellegrino.
Due teleri, due cani, due razze, il più
mansueto a pelo lungo nell’ospedale, il
più guardingo a pelo raso nel carcere.
San Rocco in ospedale dà le spalle allo
spettatore, mostra il tabarrino e si
china sul malato che esibisce le piaghe
infette. Nell’avvicinarsi al giovane il
mantello del Santo si apre lasciando
intravedere i calzoni e la giubba
giallo-blu sottostanti. Tuona al centro
della scena il corpo illuminato
dell’appestato. Alle sue spalle due
uomini aiutano l’infermo che fatica a
levar la gamba. Dentro sagome buie di
vestiti scuri, risaltano i loro volti
arrossati e le loro mani gesticolanti.
Poco sopra i due assistenti, il buio
fondale si rasserena in uno squarcio
sulla natura. All’interno di una nicchia
voltata e lievemente illuminata, una
finestrella a lunetta con inferriata
inquadra un lembo di cielo azzurro su
cui si stagliano le chiome verdi di una
coppia di alberi.
Astanti in primo piano, ai lati della
scena due donne introducono lo
spettatore all’interno dell’ospedale.
Con trecce bionde raccolte sul capo e
abiti fluttuanti, guardano al cuore
della scena laddove la miracolosa
guarigione sta per avvenire. I loro
candidi volti appaiono ravvivati dal
rossore della giovinezza. Le faccende
che le occupano non distolgono la loro
attenzione. La cortigiana di destra è
pronta ad alleviar la sete portando su
un vassoio a chi è arso di febbre
un’ampolla d’acqua fresca. La cortigiana
di sinistra, con lo sguardo rivolto al
luogo del miracolo, risveglia la
curiosità dell’infermo ai suoi piedi che
torce la testa per ammirare con i propri
occhi.
Ancora in forza per credere nella
salvezza sono due vecchi: un’anziana
donna intenta a sollevar l’amica dal
letto e un uomo barbuto con giubba
verdastra che inginocchiato assiste un
giovane sofferente. Al centro del gruppo
di destra dardeggia il rosso sangue del
drappo che copre le gambe della donna a
letto. Alla base di questa composizione
piramidale di figure, un uomo con
turbante, seduto a terra a gambe
incrociate e testa abbassata, pensieroso
fissa il disegno a scacchiera del
pavimento in attesa di uno slancio per
alzarsi.
..
San Rocco risana gli appestati,
1549, particolare
Il Santo benedice con il segno della
croce il giovane malato
.
San Rocco risana gli appestati,
1549, particolari
Donne e vecchi assistono gli infermi
San Rocco in cella non indossa il
tabarro dentro il quale è chiuso
all’arrivo in ospedale. Del Santo
prigioniero si vedono le vesti, la
mantellina giallo-arancio, la tunica
color vinaccia e le calze blu-scuro. A
mettere in risalto l’accesa cromia degli
abiti è il bianco della tunica del
vecchio che tutto chino sopra il Santo
si mostra disorientato. Nuvole scure
retro illuminate incorniciano la triade
formata dal Santo e dalla coppia di
uomini barbuti che accanto a lui
manifestano meraviglia di fronte alla
visita inattesa. La scena centrale,
sovrastata dall’imponente angelo, appare
racchiusa da due figure maschili in
piedi con busto incurvato e bacino
lievemente inclinato disposte alle
estremità, l’una del letto l’altra del
tavolo.
La prigione presenta una spazialità meno
profonda dell’ospedale, si accorciano le
diagonali sceniche lungo cui si
dispongono i personaggi. Il componimento
appare più disorganico e l’impaginazione
meno accademica. Persiste la visione
dilatata sulla scena, tuttavia il
cromatismo luministico si smorza e si fa
più essenziale.
A sinistra lungo la parete della cella
stanno due uomini incatenati, il più
vicino costretto a star seduto infuria,
il più lontano in piedi, leggermente
chino colloquia con un esterno
attraverso un oculo. I movimenti dei due
carcerati si equilibrano. La coppia
rievoca l’episodio dei due giovani
malati, l’uno in piedi l’altro seduto
sul medesimo letto, che guardano con
preoccupazione i loro corpi tempestati
di piaghe arrossate. Ritornano così,
come una costante, le figure
complementari, protagoniste all’interno
del componimento di scenette a se
stanti.
Ai piedi dell’incatenato ribelle, da una
segreta sbuca la testa di un giovane con
il braccio destro mozzato della mano. La
testa del ragazzo è perno compositivo.
L’episodio narrato si risolve in tre
teste allineate e due corpi scorciati in
maniera antitetica. A sinistra un
prigioniero riverso sull’ammattonato
trapassa la grata con un braccio per
avanzare del cibo a un compagno
mostrando la nuca e i muscoli della
schiena. A destra un prigioniero, più
vecchio e più prossimo allo spettatore,
disteso spalanca le braccia in segno di
stupore esibendo i piedi e il petto.
Sono due le donne che abitano la cella
di San Rocco, fanno parte del gruppetto
raccolto intorno al tavolo imbandito di
sola tovaglia. L’una volante insegue
l’angelo, l’altra indifferente alla
venuta, seduta conversa con il
prigioniero che le sta accanto.
L’episodio ha tutto il sapore di una
scena di locanda, mancano soltanto vini
e vivande.
.
San Rocco in carcere confortato da un
angelo,
1567, particolare
Il Santo si apre alla Grazia
.
San Rocco in carcere confortato da un
angelo,
1567, particolare
Prigionieri incatenati e pentiti
.
San Rocco in carcere confortato da un
angelo,
1567, particolare
Arrivo del messaggero divino
Tintoretto e la Morte nera
Dopo la peste del 1347-48 giunta con il
naviglio mercantile dalla Dalmazia, il
morbo continua a flagellare Venezia. Con
l’ondata del 1423 viene istituito il
primo ospedale per l’assistenza e
l’isolamento degli infetti. Nell’isola
di Santa Maria di Nazareth, poco
distante dal Lido di Venezia, nasce il
Lazzaretto vecchio, così detto dal 1470.
Nel 1468, nella Laguna Nord nell’isola
chiamata Vigna Murada, proprietà
dei monaci benedettini, viene
fondato un nuovo lazzaretto, luogo di
contumacia per le navi sospette
provenienti dal Mediterraneo.
Nel Cinquecento la peste ritorna più
volte a Venezia decimando nel 1575-77 un
quarto della popolazione. Tintoretto
conosce bene il terribile contagio che
serpeggia in città, spesso i primi a
morire sono i lavoratori dell’industria
tessile, i tintori di seta. Nel 1840
il medico Angelo Antonio
Frari afferma che Venezia per le
continue invasioni del contagio «dovette
sentire prima d’ogni altra nazione di
Europa il bisogno di stabilire un mezzo
di provvedimento sanitario capace di
preservare la Capitale e i Veneti Stati
dall’invasione di un morbo crudele».
E, a riguardo della peste penetrata in
Germania dall’Oriente, giunta a Venezia
nell’estate del 1575, nel celebre libro
Della peste e della pubblica
amministrazione sanitaria Frari
ricorda che l’epidemia «nel dicembre
del 1575 sembrava estinta, ma nel marzo
1576 rincrudelì con maggior ferocia di
prima».
Nell’estate del 1576 muoiono molti
veneziani, mogli e figli di pittori,
artisti e artigiani, amici di
Tintoretto, prima i popolani poi i
nobili. La fuga in terraferma ha inizio
in primavera. A giugno in città muoiono
cento persone ogni giorno, un mese dopo
scarseggiano medici, preti, avvocati e
magistrati, i cadaveri rimangono
insepolti sulle fondamenta, le botteghe
chiuse, le case serrate e i canali
brulicano d’imbarcazioni che trasportano
morti e sospetti. Nella Venezia isolata
regna lo spettacolo della morte, le
calli sono popolate da beccamorti e
ladri. Molte le case sequestrate, tante
quelle vuote. La figlia di Francesco
Sansovino muore mentre lui e la moglie,
confinati in quarantena, superarono la
malattia. Muoiono anche il pittore
Orazio Vecellio e il padre Tiziano, il
giovane al lazzaretto, il vecchio a
casa, forse di febbre.
Quell’anno Tintoretto rimane a Venezia
per lavorare mentre la sua famiglia si
trasferisce nella proprietà di campagna
a Carpanedo, in terraferma dove il morbo
arriva più tardi. Quando nell’estate del
1575 la peste stava per abbattersi su
Venezia, Tintoretto si era offerto di
dipingere il quadro di mezzo e l’intero
soffitto della Sala Superiore della
Scuola Grande di San Rocco promettendo
di consegnare la tela centrale un anno
dopo. Dipinge instancabilmente rintanato
nel suo studio muovendosi in città
soltanto per riscuotere soldi, firmare
contratti e consegnare quadri.
È il 1576: a giugno consegna alcuni
ritratti e i cartoni per i mosaici della
Basilica di San Marco, a luglio dalla
Scuola del Santissimo Sacramento ottiene
l’incarico di dipingere tre teleri per
la chiesa di Santa Margherita, ad
agosto, in occasione della festa di San
Rocco consegna alla Scuola omonima l’Erezione
del serpente di bronzo. Il soggetto
di grande attualità è simbolo della
guarigione, per gli ebrei dal castigo
dei serpenti, per i veneziani dal
castigo della peste.
Al telero eseguito per il soffitto della
Sala Superiore seguono la Caduta
della manna e il Mosè fa
scaturire l’acqua dalla roccia.
Opere di grande effetto prospettico,
raffiguranti gli episodi biblici citati
da Alvise Mocenigo nell’orazione
pubblica tenuta l’8 settembre del 1576
in Piazza San Marco, occasione in cui il
doge supplica la fine della pestilenza e
fa voto di costruire una Chiesa dedicata
al Santissimo Redentore alla Giudecca.
In concomitanza della fine della peste,
nel novembre del 1577 l’impresa promessa
da Tintoretto alla Scuola Grande di San
Rocco giunge a compimento. Tintoretto
chiede compenso delle spese non delle
fatiche, e ai confratelli avanza
un’offerta nuova, la proposta finale. «Volendo
dimostrar l’amor grando ch’io porto a
ditta veneranda nostra scola per
devocion ch’io ho nel glorioso messer
san rocho da desiderio di veder essa
scola finita […] mi obligo dedicar el
restante della mia vita al suo servicio».
Tintoretto quasi sessantenne si
garantisce una rendita, un vitalizio di
cento ducati l’anno e in cambio offre un
gran lavoro che compie per sé, per la
famiglia e per ringraziare l’amato San
Rocco. Lavorerà per la Scuola ancora per
un altro decennio.
Scampato alle petecchie negre
della peste, il devoto depentor
veneziano rende gloria al Santo
protettore degli appestati e realizza il
capolavoro della sua vita, una Sistina
in Laguna. I teleri per la Scuola Grande
suggellano in un trionfante sposalizio
il primo incontro tra Tintoretto e San
Rocco avvenuto nella Chiesa dedicata al
Santo. |