arte
TINTORETTO, IL TERRIBILE DEVOTO
SCAMPATO ALLA PESTE, AL SERVIZIO DI SAN
ROCCO / PARTE I
di Marialuisa Dus
«Qua tuti i venti, Maistro e Siroco,
/ Conduse la gran Nave tentoresca / In
‘sto profondo Mar, che sola pesca./
Basta a dir: L’è la Scuola de San Roco.
/ Chi avesse vinto el nostro Tentoreto /
Quando el fece ‘sti quadri che xè qua, /
Con che bravura e che facilità, /
S’averia visto un spirito foleto».
Così, in versi in lingua veneziana, nel
1660 nel poema la Carta del navegar
pitoresco, lo scrittore e incisore
Marco Boschini loda la vivacità
innovativa di Tintoretto. L’irrequieto
artista veneziano si allontana dalla
compostezza classica rinascimentale per
lanciare la pittura veneta nella
dimensione mistica barocca con un
linguaggio manierista e una tecnica
moderna. Il suo veloce pennello mostra
il divino che abita nel quotidiano,
impressiona e commuove.
Tintoretto è cronista anche quando è
pittore del sacro. Il carattere
d’improvvisatore e il dono della
facilità segnano il destino figurativo
della sua pittura, intrisa di creatività
e realismo. Tintoretto anticipa il
colorismo avanguardista. Insofferente
alle regole, libera il linguaggio
pittorico dal colorito armonico della
tradizione precedente e con teatralità
effigia l’attualità politica e religiosa
della sua amata città, Venezia.
Straordinario propagandista del
messaggio caritatevole delle Scuole,
grandi e piccole, apre la pittura
veneziana del Cinquecento alla
modernità. Il colto patrizio affianca il
folle carcerato, nessun’anima è esclusa
dalla sua devota pittura.
Figlio primogenito del bresciano
Battista Comin, Jacomo Robusti
(1519-1594) nasce e muore a Venezia.
Jacomo, così chiamato dai concittadini e
dalla figlia Marietta, prende il nome
d’arte dal mestiere del padre, tintore
di panni di lana e seta. Il soprannome
Tentor con cui firma i primi
quadri, alternando i nomi Jacomo e
Jacobus, muterà poco dopo nel
vezzeggiativo Tentoretto.
Chiamato anche “grano di pepe” per
essere persona vivace e piccola, Jacomo
ufficializza il suo nome nel 1566 con la
Crocefissione dipinta per
la Sala dell’Albergo della Scuola Grande
di San Rocco. Sulla tela compare la
firma Jacobus Tinctorectus facebat.
Tintoretto e la Scuola Grande di San
Rocco
«Il più terribile cervello che abbia
avuto mai la pittura», così lo
storico aretino Giorgio Vasari nel 1568
descrive il pittore veneziano nelle sue
Vite. «Stravagante,
capriccioso, presto e risoluto»
l’ombroso artista nel 1547 trasferisce
la piccola bottega di San Cassian,
parrocchia dov’è cresciuto, a Canareggio
dove abitano il cadorino Tiziano
Vecellio, il veronese Bonifacio de’
Pitati e il trevisano Paris Bordon. Due
anni dopo per il presbiterio della
chiesa di San Rocco esegue il primo dei
teleri dedicati alle storie del Santo
francese. Nella Venezia a volo
d’uccello di Jacopo de’ Barbari del 1500
la chiesa di San Rocco troneggia
solitaria. Nel sestiere di San Polo la
fabbrica della Scuola Grande, di poco
successiva, non figura ancora. Spicca
invece, poco distante, l’imponente
Basilica di Santa Maria Gloriosa dei
Frari.
Mentre la nuova sede della Scuola va
innalzandosi tra il 1517 e il 1560,
Tintoretto lavora alla decorazione della
chiesa che, con l’attigua Scoletta,
è sede primitiva della congrega
veneziana. Tra gli anni Cinquanta e
Sessanta dipinge quattro episodi della
vita di San Rocco raffigurando il Santo
in ospedale mentre risana gli appesati,
in carcere quando riceve conforto da
un angelo, mentre benedice gli
animali e al momento della sua cattura.
Nella prima metà degli anni Ottanta al
ciclo pittorico si aggiunge San Rocco
nel deserto, tela attribuita solo in
parte al maestro. Nelle portelle
dell’antico organo compare San Rocco
presentato al Papa, opera tarda, di
bottega realizzata vent’anni dopo le
tele degli sportelli dell’Armadio degli
argenti.
Nato a Montpellier fra il 1345 e 1350,
Rocco rinuncia alle ricchezze di
famiglia per viaggiare come pellegrino
in Italia. Colpito dal morbo mentre cura
gli appestati nei pressi di Piacenza,
sulla via di ritorno a casa, trova
rifugio nel bosco e guarisce grazie al
soccorso di un cane che lo assiste
visitandolo quotidianamente. Accusato di
spionaggio, Rocco muore a Voghera in
prigione alcuni anni dopo, poco più che
trentenne. Divenuto emblema del Santo,
nell’iconografica classica il cane è
rappresentato accanto al pellegrino
mentre lecca le piaghe o con un pezzo di
pane in bocca rubato alla mensa del
padrone. Il corpo del Santo, divenuto
presto popolare, giunge a Venezia nel
1485 trovando sistemazione definitiva
cinque anni dopo nella chiesa a lui
dedicata. San Rocco diventa compatrono
della città nel 1576 quando in Laguna
imperversa la peste.
Il primo telero realizzato per la
chiesa, San Rocco risana gli
appestati, inaugura una nuova
stagione per Tintoretto che quindici
anni dopo lo vede impegnato in
un’impresa quasi sovraumana per oltre
due decenni. La commissione del 1549 si
rivela un debutto senza seguito
immediato. L’artista viene ricompensato
ma la collaborazione interrotta e la
richiesta di ammissione alla
confraternita cade in dimenticanza.
Tintoretto diventa confratello della
Scuola soltanto nel 1565, dopo essersi
aggiudicato con astuzia la decorazione
del soffitto della Sala dell’Albergo con
l’ovato San Rocco in gloria.
.
San Rocco in gloria,
1564, olio su tela, 240 x 360 cm
Scuola Grande di San Rocco, Venezia
I rapporti con la confraternita si
riaccendono nel 1564 quando il consiglio
direttivo della Scuola indice un
concorso pubblico per i migliori pittori
presenti a Venezia. Tintoretto anticipa
di qualche giorno i suoi rivali; tra gli
invitati ci sono: Paolo Veronese,
Giuseppe Salviati, Andrea Schiavone e
Federico Zuccari. Mentre i colleghi sono
intenti a eseguire bozzetti – racconta
Vasari – Tintoretto prende le misure
dell’opera e dipinge la tela
sistemandola dove stabilito. Con
tristizia e pazzia, il
ribelle pittore si assicura la
commessa e, il giorno in cui i
confratelli si riuniscono per scegliere
i bozzetti, alla loro contrarietà,
stupiti nel vedere l’opera già
aggiustata, risponde che quello è il suo
modo di disegnare, non sa far altrimenti
e che se non vogliono pagargli l’opera e
le sue fatiche le dona loro. L’opera
viene accettata e il concorso annullato.
Dopo le pitture realizzate per la Scuola
di San Marco e la Scuola del Santissimo
Sacramento di San Marcuola, è la volta
dei teleri per la Scuola di San Rocco.
Le Fraternite scandiscono le fasi
cruciali della prolifica carriera di
Tintoretto che fin dagli arbori aspira a
diventare l’artista di San Rocco. La
Scuola Grande di San Rocco, fondata nel
1478, diventa il tempio della sua
pittura. Tintoretto realizza la
gigantesca decorazione dei saloni della
maestosa fabbrica: dipinge il ciclo
della Passione di Cristo per la Sala
dell’Albergo tra il 1564 e il 1566, le
scene dell’Antico e Nuovo Testamento per
la Sala Superiore tra il 1576 e il 1581
e gli episodi della vita della Vergine e
dell’infanzia di Cristo per la Sala
Inferiore tra il 1583 e il 1587.
Il rapporto che lega Tintoretto alla
Scuola Grande di San Rocco, nato con le
commesse per la chiesa omonima, si
rafforza nella metà degli anni Sessanta
per trasformarsi in un sodalizio stabile
dieci anni dopo. Nel 1581 in Venetia
città nobilissima et singolare
il letterato Francesco, figlio del
celebre architetto Jacopo Sansovino,
descrive la fabbrica della Scuola come «nobilissima
per struttura e con bellissime e
artificiose scale, sommamente arricchita
di pitture […] tutto di mano di Jacomo
Tintoretto, fratello e provigionato
della detta Scuola o Fraterna alla quale
ha voluto dimostrare con cortese animo
quanto egli fosse amorevole e grato con
l’industria del suo artificio».
Tintoretto versus Tiziano
Affermata la supremazia artistica a
Venezia nel 1516 con la pala dell’Assunta
dei Frari, l’ambizioso
Tiziano Vecellio sceglie di lavorare per
le corti signorili italiane, la corte
del Papa e quelle imperiali. Nel 1533
dall’imperatore Carlo V ottiene il
titolo di Conte Palatino e di Cavaliere
dello Sperone d’Oro. Dalla fine degli
anni Quaranta in poi trascura il mercato
veneziano impegnato con gli Asburgo. Il
giovane Tintoretto approfitta delle
ripetute assenze in Laguna di Tiziano,
scalza il collega rivale e diventa il
ritrattista dei veneziani, il pittore
dei dogi. Effigia procuratori, senatori,
magistrati, intellettuali e cortigiane.
Girolamo Priuli divenuto doge nel 1559
gli affida il ritratto.
Al contrario del patriziato veneziano, i
principi e i re tollerano scadenze
lunghe, affini ai ritmi lenti e ai modi
raffinati dell’aristocratico pittore
cadorino. Il Tintorello, così
chiamato nella cerchia dell’Aretino, è
invece uomo di umili origini
disinteressato a diventare artista di
corte. «Tintoretto è Venezia. E anche
se Venezia, serena cortigiana, ha
frequentato e corteggiato altri pittori
dopo di lui, non l’ha mai dimenticato né
trascurato […] nacque a Venezia e dalla
laguna non si mosse, se non brevemente»:
così battezzano il pittore gli storici
Renzo e Giovanni Carlo Federico Villa in
una recente monografia sull’artista.
La rivalità tra Tiziano e Tintoretto si
manifesta da subito: il giovane
veneziano fu scacciato per invidia dal
maestro cadorino dieci giorni dopo
l’arrivo in bottega. Il biografo
seicentesco Carlo Ridolfi ricorda che
Tiziano «presagì da quei principi che
costui potesse un giorno, per certo che
di gratia che vi scorse eccedente la
condizione di quell’età, recarle
molestia nell’arte».
La ritrattistica palesa il temperamento
opposto dei due pittori. I personaggi
tintorettiani turbano, interrogano,
trasudano inquietudine, nulla
condividono con la serenità aulica di
quelli tizianeschi. Tintoretto recupera
da Tiziano l’impaginazione ma non la
fusione coloristica, qualità
estranea allo spirito ardente del
pittore veneziano. Il modello
linguistico è manierista: sensibilità
nervosa e luci improvvise. Volti dalla
forte caratterizzazione fisionomica che
sgusciano da sfondi bui, sguardi
perforanti di uomini canuti.
L’esaltazione del corpo presente nella
pittura narrativa scompare nel ritratto.
Alle mani è data poca importanza, queste
si mostrano appena abbozzate. Tintoretto
cattura l’anima dei personaggi che
posano in abito d’ufficio attento alla
resa luministica degli incarnati
anticipando la ritrattista seicentesca.
In Giovinezza di Tintoretto del
1950 lo storico dell’arte Rodolfo
Pallucchini ravvisa nei ritratti del
furioso veneziano «l’accento
particolare della sua arte […] il tono
fantastico ed espressionista della sua
pittura».
.
Ritratto di senatore (Marco Grimani),
1576-1583 circa, olio su tela, 77 x 63
cm
Museo Nazionale del Prado, Madrid
.
Jacopo Sansovino
1571, olio su tela, 70 x 65,5 cm
Galleria degli Uffizi, Firenze
Mentre nel 1548 Tiziano, pittore
ufficiale della Repubblica di Venezia,
soggiorna ad Augusta da Carlo V,
nell’antica Scuola Grande di San Marco
si mostra in pubblico il Miracolo
dello schiavo. Il rivoluzionario
telero suscita scalpore tra i
confratelli e seduce gli intellettuali.
Il giovane Tintoretto esplode sulla
scena veneziana. Nuovi l’impaginazione,
il disegno e il colore, il dipinto
esibisce con insolita arditezza la
personalità di Tintoretto che cita
Michelangelo e Raffaello disponendo a
semicerchio in uno spazio scenico una
trentina di personaggi, figure muscolose
in movimento pulsanti d’emozioni.
Innovativa la centralità dello schiavo
nudo preferito al santo che, figurato da
tergo, scende in picchiata dal cielo con
appresso il libro del Vangelo e mostra i
piedi nudi, rievocazione del Dio
Creatore di astri e piante della
Sistina. Il principale carnefice è un
turco, figura che a Venezia nel
Cinquecento rappresenta il pericolo, il
nemico, il torturatore.
A cantare le lodi dell’opera, pur con
qualche cautela sulla prestezza, è il
letterato Pietro Aretino, amico e
compare di Tiziano, per la cui casa
Tintoretto pochi anni prima aveva
dipinto le storie di Apollo e Marsia e
di Mercurio e Argo. Nel 1876 lo
scrittore francese Pierre Jules
Théophile Gautier definisce il genio
veneziano «il re dei violenti» e
considera il San Marco «una
delle tele più ardite e più possenti […]
la pittura è di tono così sostenuto,
così brusca nelle opposizioni di chiari
e scuri, così vigorosa nel colore
locale, così aspra e turbolenta nel
tocco, che persino i più truci quadri di
Caravaggio o di Ribera, al confronto,
sembrano all’acqua di rose».
.
Miracolo dello schiavo,
1548, olio su tela, 415 x 541 cm
Gallerie dell’Accademia, Venezia
Tra gli artisti che Henri Focillon
annovera nel saggio Estetica dei
visionari c’è Tintoretto. Lo storico
dell’arte lo definisce «possente
ordinatore di forme, poeta delle voluttà
d’Italia, e nello stesso tempo
visionario ossessionato da una luce che
Venezia non gli dà. L’ardore caldo e
pacato di Tiziano e la gamma argentea
del Veronese non lo contengono per
intero. Negli ultimi anni del
Rinascimento italiano, su colossi del
tipo michelangiolesco, drappeggiati in
stupefacenti orpelli orientali, egli
concentra dapprima una luce dorata,
greve, quasi untuosa, densa a forza di
profusione».
Focillon si sofferma sui procedimenti
creativi e riporta l’attenzione sul tema
della luce, sullo studio che di questa
fanno gli artisti animati da forza
profetica. Principe di questa cerchia di
geni fantasiosi è l’architetto veneziano
Giambattista Piranesi, maestro dell’arte
del bianco e nero. Venezia nutre gli
spiriti immaginativi che «non vedono
l’oggetto, lo visionano».
Noto anche come San Marco libera lo
schiavo, il grande telero precede di
un anno San Rocco risana gli
appestati, pittura con cui
Tintoretto trentenne compie il
suo ingresso nella Scuola di San Rocco.
I confratelli non esitano a sottrarre il
nuovo talento alla concorrenza, lo
chiamano e gli affidano il loro patrono.
Gli scorci audaci, i contrasti timbrici,
la gestualità acrobatica, le tensioni
dinamiche, le illuminazioni violente
trasmigrano così da San Marco a San
Rocco. A far da sfondo a entrambe le
scene è la città di Venezia: la solare
Piazza San Marco e lo spettrale
Lazzaretto vecchio. Come un drammaturgo
Tintoretto registra la capitale della
Repubblica di Venezia nei momenti di
gloria e di calamità.
Nel restituire l’evento miracoloso si
muove tra realtà e immaginazione. Non
mancano note di realismo, volti
veneziani e pezzi d’architettura
dell’epoca. Tra i personaggi astanti
alla discesa di San Marco, che spezza
gli arnesi della tortura, si riconoscono
alcuni confratelli seminascosti, certi
soldati, una donna con un bambino in
braccio e diversi orientali. L’intensità
drammatica della scena è affidata alla
spazialità e al movimento. La teatralità
regna in una scenografia profonda e in
una vivida gestualità. Le mani levate ne
sono un esempio. |