[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

165 / SETTEMBRE 2021 (CXCVI)


arte

TINTORETTO, IL TERRIBILE DEVOTO

SCAMPATO ALLA PESTE, AL SERVIZIO DI SAN ROCCO / PARTE I

di Marialuisa Dus

 

«Qua tuti i venti, Maistro e Siroco, / Conduse la gran Nave tentoresca / In ‘sto profondo Mar, che sola pesca./ Basta a dir: L’è la Scuola de San Roco. / Chi avesse vinto el nostro Tentoreto / Quando el fece ‘sti quadri che xè qua, / Con che bravura e che facilità, / S’averia visto un spirito foleto».

 

Così, in versi in lingua veneziana, nel 1660 nel poema la Carta del navegar pitoresco, lo scrittore e incisore Marco Boschini loda la vivacità innovativa di Tintoretto. L’irrequieto artista veneziano si allontana dalla compostezza classica rinascimentale per lanciare la pittura veneta nella dimensione mistica barocca con un linguaggio manierista e una tecnica moderna. Il suo veloce pennello mostra il divino che abita nel quotidiano, impressiona e commuove.

 

Tintoretto è cronista anche quando è pittore del sacro. Il carattere d’improvvisatore e il dono della facilità segnano il destino figurativo della sua pittura, intrisa di creatività e realismo. Tintoretto anticipa il colorismo avanguardista. Insofferente alle regole, libera il linguaggio pittorico dal colorito armonico della tradizione precedente e con teatralità effigia l’attualità politica e religiosa della sua amata città, Venezia. Straordinario propagandista del messaggio caritatevole delle Scuole, grandi e piccole, apre la pittura veneziana del Cinquecento alla modernità. Il colto patrizio affianca il folle carcerato, nessun’anima è esclusa dalla sua devota pittura.

 

Figlio primogenito del bresciano Battista Comin, Jacomo Robusti (1519-1594) nasce e muore a Venezia. Jacomo, così chiamato dai concittadini e dalla figlia Marietta, prende il nome d’arte dal mestiere del padre, tintore di panni di lana e seta. Il soprannome Tentor con cui firma i primi quadri, alternando i nomi Jacomo e Jacobus, muterà poco dopo nel vezzeggiativo Tentoretto. Chiamato anche “grano di pepe” per essere persona vivace e piccola, Jacomo ufficializza il suo nome nel 1566 con la Crocefissione dipinta per la Sala dell’Albergo della Scuola Grande di San Rocco. Sulla tela compare la firma Jacobus Tinctorectus facebat.

 

Tintoretto e la Scuola Grande di San Rocco

 

«Il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura», così lo storico aretino Giorgio Vasari nel 1568 descrive il pittore veneziano nelle sue Vite. «Stravagante, capriccioso, presto e risoluto» l’ombroso artista nel 1547 trasferisce la piccola bottega di San Cassian, parrocchia dov’è cresciuto, a Canareggio dove abitano il cadorino Tiziano Vecellio, il veronese Bonifacio de’ Pitati e il trevisano Paris Bordon. Due anni dopo per il presbiterio della chiesa di San Rocco esegue il primo dei teleri dedicati alle storie del Santo francese. Nella Venezia a volo d’uccello di Jacopo de’ Barbari del 1500 la chiesa di San Rocco troneggia solitaria. Nel sestiere di San Polo la fabbrica della Scuola Grande, di poco successiva, non figura ancora. Spicca invece, poco distante, l’imponente Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari.

 

Mentre la nuova sede della Scuola va innalzandosi tra il 1517 e il 1560, Tintoretto lavora alla decorazione della chiesa che, con l’attigua Scoletta, è sede primitiva della congrega veneziana. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta dipinge quattro episodi della vita di San Rocco raffigurando il Santo in ospedale mentre risana gli appesati, in carcere quando riceve conforto da un angelo, mentre benedice gli animali e al momento della sua cattura. Nella prima metà degli anni Ottanta al ciclo pittorico si aggiunge San Rocco nel deserto, tela attribuita solo in parte al maestro. Nelle portelle dell’antico organo compare San Rocco presentato al Papa, opera tarda, di bottega realizzata vent’anni dopo le tele degli sportelli dell’Armadio degli argenti.

 

Nato a Montpellier fra il 1345 e 1350, Rocco rinuncia alle ricchezze di famiglia per viaggiare come pellegrino in Italia. Colpito dal morbo mentre cura gli appestati nei pressi di Piacenza, sulla via di ritorno a casa, trova rifugio nel bosco e guarisce grazie al soccorso di un cane che lo assiste visitandolo quotidianamente. Accusato di spionaggio, Rocco muore a Voghera in prigione alcuni anni dopo, poco più che trentenne. Divenuto emblema del Santo, nell’iconografica classica il cane è rappresentato accanto al pellegrino mentre lecca le piaghe o con un pezzo di pane in bocca rubato alla mensa del padrone. Il corpo del Santo, divenuto presto popolare, giunge a Venezia nel 1485 trovando sistemazione definitiva cinque anni dopo nella chiesa a lui dedicata. San Rocco diventa compatrono della città nel 1576 quando in Laguna imperversa la peste.

 

Il primo telero realizzato per la chiesa, San Rocco risana gli appestati, inaugura una nuova stagione per Tintoretto che quindici anni dopo lo vede impegnato in un’impresa quasi sovraumana per oltre due decenni. La commissione del 1549 si rivela un debutto senza seguito immediato. L’artista viene ricompensato ma la collaborazione interrotta e la richiesta di ammissione alla confraternita cade in dimenticanza. Tintoretto diventa confratello della Scuola soltanto nel 1565, dopo essersi aggiudicato con astuzia la decorazione del soffitto della Sala dell’Albergo con l’ovato San Rocco in gloria.

 

 

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San Rocco in gloria, 1564, olio su tela, 240 x 360 cm

Scuola Grande di San Rocco, Venezia

 

I rapporti con la confraternita si riaccendono nel 1564 quando il consiglio direttivo della Scuola indice un concorso pubblico per i migliori pittori presenti a Venezia. Tintoretto anticipa di qualche giorno i suoi rivali; tra gli invitati ci sono: Paolo Veronese, Giuseppe Salviati, Andrea Schiavone e Federico Zuccari. Mentre i colleghi sono intenti a eseguire bozzetti – racconta Vasari – Tintoretto prende le misure dell’opera e dipinge la tela sistemandola dove stabilito. Con tristizia e pazzia, il ribelle pittore si assicura la commessa e, il giorno in cui i confratelli si riuniscono per scegliere i bozzetti, alla loro contrarietà, stupiti nel vedere l’opera già aggiustata, risponde che quello è il suo modo di disegnare, non sa far altrimenti e che se non vogliono pagargli l’opera e le sue fatiche le dona loro. L’opera viene accettata e il concorso annullato.

 

Dopo le pitture realizzate per la Scuola di San Marco e la Scuola del Santissimo Sacramento di San Marcuola, è la volta dei teleri per la Scuola di San Rocco. Le Fraternite scandiscono le fasi cruciali della prolifica carriera di Tintoretto che fin dagli arbori aspira a diventare l’artista di San Rocco. La Scuola Grande di San Rocco, fondata nel 1478, diventa il tempio della sua pittura. Tintoretto realizza la gigantesca decorazione dei saloni della maestosa fabbrica: dipinge il ciclo della Passione di Cristo per la Sala dell’Albergo tra il 1564 e il 1566, le scene dell’Antico e Nuovo Testamento per la Sala Superiore tra il 1576 e il 1581 e gli episodi della vita della Vergine e dell’infanzia di Cristo per la Sala Inferiore tra il 1583 e il 1587.

 

Il rapporto che lega Tintoretto alla Scuola Grande di San Rocco, nato con le commesse per la chiesa omonima, si rafforza nella metà degli anni Sessanta per trasformarsi in un sodalizio stabile dieci anni dopo. Nel 1581 in Venetia città nobilissima et singolare il letterato Francesco, figlio del celebre architetto Jacopo Sansovino, descrive la fabbrica della Scuola come «nobilissima per struttura e con bellissime e artificiose scale, sommamente arricchita di pitture […] tutto di mano di Jacomo Tintoretto, fratello e provigionato della detta Scuola o Fraterna alla quale ha voluto dimostrare con cortese animo quanto egli fosse amorevole e grato con l’industria del suo artificio».

 

Tintoretto versus Tiziano

 

Affermata la supremazia artistica a Venezia nel 1516 con la pala dell’Assunta dei Frari, l’ambizioso Tiziano Vecellio sceglie di lavorare per le corti signorili italiane, la corte del Papa e quelle imperiali. Nel 1533 dall’imperatore Carlo V ottiene il titolo di Conte Palatino e di Cavaliere dello Sperone d’Oro. Dalla fine degli anni Quaranta in poi trascura il mercato veneziano impegnato con gli Asburgo. Il giovane Tintoretto approfitta delle ripetute assenze in Laguna di Tiziano, scalza il collega rivale e diventa il ritrattista dei veneziani, il pittore dei dogi. Effigia procuratori, senatori, magistrati, intellettuali e cortigiane. Girolamo Priuli divenuto doge nel 1559 gli affida il ritratto.

 

Al contrario del patriziato veneziano, i principi e i re tollerano scadenze lunghe, affini ai ritmi lenti e ai modi raffinati dell’aristocratico pittore cadorino. Il Tintorello, così chiamato nella cerchia dell’Aretino, è invece uomo di umili origini disinteressato a diventare artista di corte. «Tintoretto è Venezia. E anche se Venezia, serena cortigiana, ha frequentato e corteggiato altri pittori dopo di lui, non l’ha mai dimenticato né trascurato […] nacque a Venezia e dalla laguna non si mosse, se non brevemente»: così battezzano il pittore gli storici Renzo e Giovanni Carlo Federico Villa in una recente monografia sull’artista.

 

La rivalità tra Tiziano e Tintoretto si manifesta da subito: il giovane veneziano fu scacciato per invidia dal maestro cadorino dieci giorni dopo l’arrivo in bottega. Il biografo seicentesco Carlo Ridolfi ricorda che Tiziano «presagì da quei principi che costui potesse un giorno, per certo che di gratia che vi scorse eccedente la condizione di quell’età, recarle molestia nell’arte».

 

La ritrattistica palesa il temperamento opposto dei due pittori. I personaggi tintorettiani turbano, interrogano, trasudano inquietudine, nulla condividono con la serenità aulica di quelli tizianeschi. Tintoretto recupera da Tiziano l’impaginazione ma non la fusione coloristica, qualità estranea allo spirito ardente del pittore veneziano. Il modello linguistico è manierista: sensibilità nervosa e luci improvvise. Volti dalla forte caratterizzazione fisionomica che sgusciano da sfondi bui, sguardi perforanti di uomini canuti. L’esaltazione del corpo presente nella pittura narrativa scompare nel ritratto. Alle mani è data poca importanza, queste si mostrano appena abbozzate. Tintoretto cattura l’anima dei personaggi che posano in abito d’ufficio attento alla resa luministica degli incarnati anticipando la ritrattista seicentesca. In Giovinezza di Tintoretto del 1950 lo storico dell’arte Rodolfo Pallucchini ravvisa nei ritratti del furioso veneziano «l’accento particolare della sua arte […] il tono fantastico ed espressionista della sua pittura».

 

 

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Ritratto di senatore (Marco Grimani), 1576-1583 circa, olio su tela, 77 x 63 cm

Museo Nazionale del Prado, Madrid

 

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Jacopo Sansovino 1571, olio su tela, 70 x 65,5 cm

Galleria degli Uffizi, Firenze

 

Mentre nel 1548 Tiziano, pittore ufficiale della Repubblica di Venezia, soggiorna ad Augusta da Carlo V, nell’antica Scuola Grande di San Marco si mostra in pubblico il Miracolo dello schiavo. Il rivoluzionario telero suscita scalpore tra i confratelli e seduce gli intellettuali. Il giovane Tintoretto esplode sulla scena veneziana. Nuovi l’impaginazione, il disegno e il colore, il dipinto esibisce con insolita arditezza la personalità di Tintoretto che cita Michelangelo e Raffaello disponendo a semicerchio in uno spazio scenico una trentina di personaggi, figure muscolose in movimento pulsanti d’emozioni. Innovativa la centralità dello schiavo nudo preferito al santo che, figurato da tergo, scende in picchiata dal cielo con appresso il libro del Vangelo e mostra i piedi nudi, rievocazione del Dio Creatore di astri e piante della Sistina. Il principale carnefice è un turco, figura che a Venezia nel Cinquecento rappresenta il pericolo, il nemico, il torturatore.

 

A cantare le lodi dell’opera, pur con qualche cautela sulla prestezza, è il letterato Pietro Aretino, amico e compare di Tiziano, per la cui casa Tintoretto pochi anni prima aveva dipinto le storie di Apollo e Marsia e di Mercurio e Argo. Nel 1876 lo scrittore francese Pierre Jules Théophile Gautier definisce il genio veneziano «il re dei violenti» e considera il San Marco «una delle tele più ardite e più possenti […] la pittura è di tono così sostenuto, così brusca nelle opposizioni di chiari e scuri, così vigorosa nel colore locale, così aspra e turbolenta nel tocco, che persino i più truci quadri di Caravaggio o di Ribera, al confronto, sembrano all’acqua di rose».

 

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Miracolo dello schiavo, 1548, olio su tela, 415 x 541 cm

Gallerie dell’Accademia, Venezia

 

Tra gli artisti che Henri Focillon annovera nel saggio Estetica dei visionari c’è Tintoretto. Lo storico dell’arte lo definisce «possente ordinatore di forme, poeta delle voluttà d’Italia, e nello stesso tempo visionario ossessionato da una luce che Venezia non gli dà. L’ardore caldo e pacato di Tiziano e la gamma argentea del Veronese non lo contengono per intero. Negli ultimi anni del Rinascimento italiano, su colossi del tipo michelangiolesco, drappeggiati in stupefacenti orpelli orientali, egli concentra dapprima una luce dorata, greve, quasi untuosa, densa a forza di profusione».

 

Focillon si sofferma sui procedimenti creativi e riporta l’attenzione sul tema della luce, sullo studio che di questa fanno gli artisti animati da forza profetica. Principe di questa cerchia di geni fantasiosi è l’architetto veneziano Giambattista Piranesi, maestro dell’arte del bianco e nero. Venezia nutre gli spiriti immaginativi che «non vedono l’oggetto, lo visionano».

 

Noto anche come San Marco libera lo schiavo, il grande telero precede di un anno San Rocco risana gli appestati, pittura con cui Tintoretto trentenne compie il suo ingresso nella Scuola di San Rocco. I confratelli non esitano a sottrarre il nuovo talento alla concorrenza, lo chiamano e gli affidano il loro patrono. Gli scorci audaci, i contrasti timbrici, la gestualità acrobatica, le tensioni dinamiche, le illuminazioni violente trasmigrano così da San Marco a San Rocco. A far da sfondo a entrambe le scene è la città di Venezia: la solare Piazza San Marco e lo spettrale Lazzaretto vecchio. Come un drammaturgo Tintoretto registra la capitale della Repubblica di Venezia nei momenti di gloria e di calamità.

 

Nel restituire l’evento miracoloso si muove tra realtà e immaginazione. Non mancano note di realismo, volti veneziani e pezzi d’architettura dell’epoca. Tra i personaggi astanti alla discesa di San Marco, che spezza gli arnesi della tortura, si riconoscono alcuni confratelli seminascosti, certi soldati, una donna con un bambino in braccio e diversi orientali. L’intensità drammatica della scena è affidata alla spazialità e al movimento. La teatralità regna in una scenografia profonda e in una vivida gestualità. Le mani levate ne sono un esempio.  

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