N. 62 - Febbraio 2013
(XCIII)
timor Leste, storia recente di un "paradiso"
parte I - il 1975
di Gianrigo Marletta
Jakarta,
febbraio
2013.
Vi
è,
all’estremo
orientale
dell’arcipelago
più
grande
del
mondo,
un’isola
tagliata
a
metà
porta
che
il
nome
di
Timor
–
che
in
lingua
locale
significa
“Est”.
La
metà
orientale
dell’isola
–
quindi
Timor
Timor,
ossia
“Est
Est”
–
oggi
si
chiama
Timor
Leste.
Dalle
spiagge
di
borotalco,
le
acque
cristalline
e le
fertili
verdi
colline,
Timor
Leste
è un
paradiso
remoto
oggi
popolato
da
un’etnia
tanto
semplice,
quanto
povera.
Un
popolo
che
ha
sofferto
la
pena
di
occupazioni
e
guerre
civili
durate
per
ben
cinque
secoli,
a
cui
dal
mese
scorso
(gennaio
2013)
sono
state
finalmente
consegnate
le
redini
del
proprio
destino.
Un
Paese
che
dovrà
reggersi
sulle
proprie
gambe,
ora
che
la
stampella
dell’Organizzazione
delle
Nazioni
Unite
si è
ufficialmente
ritirata.
Parte
prima:
1975
Similmente
all’isola
caraibica
de
La
Spagnola,
divisa
tra
Repubblica
Domenicana
(ex
colonia
spagnola)
e
Haiti
(ex
colonia
francese),
il
destino
dell’isola
di
Timor
venne
spaccato
a
metà
da
una
linea
dritta
di
confine,
che
nei
secoli
separò
gli
olandesi
dai
portoghesi.
Un’occupazione
durata
500
anni
e
finita
il
secolo
scorso
con
la
ritirata
di
entrambe
le
colonie.
In
quelle
lontane
terre
del
Pacifico
finalmente
sbocciarono
le
nuove
repubbliche
indipendenti.
Il
28
novembre
del
1974,
liberandosi
dal
Portogallo,
fu
il
turno
di
Timor
Leste.
Passarono
diversi
giorni,
meno
di
trenta,
affinché
il
sogno
d’indipendenza
per
i
Timoresi
si
trasformasse
in
un
altro
incubo
sanguinolento.
Sotto
gli
occhi
impotenti
di
una
Nazione
appena
liberata
altresì
poverissima,
apparvero
d’improvviso
i
plotoni
dell’esercito
indonesiano,
che
dalle
colline
a
ovest
approdava
per
“unificare”
l’isola
sotto
la
stessa
bandiera
rosso-bianca.
Suharto,
il
dittatore
che
per
trent’anni
governò
sull’arcipelago
indonesiano,
un
po’
per
fame
di
risorse,
un
po’
per
paura
dell’influenza
comunista
Timorese
–
gloriosa
dall’indipendenza
appena
strappata
–
scavalcò
i
confini
tra
i
due
Paesi,
invadendo
così
quella
metà
orientale
dell’isola.
Seguì
un
massacro
che
non
risparmiò
né
donne,
né
bambini,
né
giornalisti.
La
competizione
tra
i
vari
giganti
televisivi
australiani
era
già
feroce
nel
1975.
I
protagonisti
della
storia
che
segue
furono
cinque
giornalisti
australiani
appartenenti
ai
due
network
principali
del
loro
Paese:
Channel
7 e
Channel
9.
La
breve
distanza
tra
Darwin
(capoluogo
dell’Australia
del
nord)
e
Dili
(capitale
di
Timor
Leste)
–
che
di
poco
supera
i
700
km –
e
l’abbondanza
di
risorse
naturali
–
quali
gas
e
petrolio
–
risultarono
due
buoni
motivi
per
stuzzicare
l’attenzione
dei
media
australiani
sulle
tragiche
vicende
vissute
dai
vicini
di
casa.
Appena
ricevuta
la
notizia
dell’imminente
invasione,
Channel
7
prontamente
inviò
a
Timor
Leste
tre
dei
suoi
giovani
corrispondenti:
Greg
Shackleton,
29
anni;
Tony
Stewart,
21
anni
e
Gary
Cunningham,
27
anni.
Di
conseguenza
Channel
9
spedì
due
dei
suoi:
Brian
Peters,
24
anni
e
Malcolm
Rennie,
29
anni.
Arrivati
nella
capitale
Dili,
i
tre
reporter
di
Canale
7
ottennero
una
jeep,
assunsero
una
guida
e
partirono
per
il
tortuoso
viaggio
lungo
strade
sterrate,
serpeggiando
tra
le
montagne,
verso
il
confine
con
l’Indonesia.
Loro
malgrado,
furono
presto
raggiunti
dagli
altri
due
di
Canale
9.
La
competizione
rincorreva
lo
stesso
scoop:
catturare
la
presa
della
frontiera.
Il
primato
sulla
notizia
era
ormai
perso
e a
quel
punto
conveniva
unire
le
forze
e
affrontare
il
resto
dell’avventura
insieme.
Nacque
così
il
gruppo
che
entrò
nella
storia
come
i
“Balibo
5”.
Cameramen,
tecnici
del
suono
e
cronisti,
i
cinque
raggiunsero
la
loro
destinazione
dopo
pochi
giorni
in
sella
alle
jeep.
Balibo
era
(ed
è
tuttora)
un
piccolo
villaggio
appoggiato
in
cima
a
una
collina
che
si
affaccia
sul
confine
tra
Timor
indonesiano
e
Timor
Leste.
E
proprio
da
Balibo
furono
filmate
le
loro
ultime
riprese.
La
bobina
fu
poi
spedita
tramite
un
“piccione”,
ossia
quella
persona
a
cui
viene
affidato
il
compito
di
recarsi
in
città
per
trasmettere
in
patria
il
materiale
raccolto
al
fronte.
Nessuno
avrebbe
mai
immaginato
che
quel
servizio
per
Channel
7,
mandato
forse
in
tempo
per
il
notiziario
dell’indomani,
sarebbe
stato
per
loro
l’ultimo.
L’inquadratura
incorniciava
il
ventinovenne
Greg
Shackleton
col
microfono
alla
mano
e
gli
occhi
diretti
all’obiettivo
della
telecamera.
Lo
sguardo
di
sfida
verso
colui
che
era
seduto
dall’altra
parte
del
cavo,
lo
spettatore
medio
sprofondato
comodamente
sul
divano
di
casa,
a
qualche
centinaio
di
chilometri
di
distanza:
“Ieri
sera
è
successa
una
cosa
che
ci
ha
scosso
molto
profondamente.
Qualcosa
di
così
lontano
dalle
nostre
esperienze
da
australiani,
eppure
tanto
interconnessa
con
l’atmosfera
di
questo
posto.
Sarà
per
noi
molto
difficile
trasmetterla
a
voi,
nei
salotti
in
Australia,
ma
ci
proveremo.
Ci
hanno
portati
in
questo
minuscolo
villaggio
di
nativi
da
Malayana,
perché
ci
hanno
detto
che
durante
la
notte
Malayana
non
è
sicura.
Quando
siamo
arrivati,
il
Secondo
in
Comando
–
che
parla
pochissimo
inglese
– si
è
rivolto
a
noi
in
maniera
urgente
dicendoci
che
il
Comandante
voleva
parlare
con
noi.
Nell’ora
successiva,
seduti
sui
loro
tappeti
di
tessuto
intrecciato,
sotto
un
tetto
di
paglia
in
una
capanna
senza
mura,
eravamo
il
bersaglio
di
una
raffica
di
domande
da
parte
di
uomini
consapevoli
del
fatto
che
domani
potrebbero
essere
morti,
e
che
non
capiscono
perché
al
resto
del
mondo
questo
non
interessa”.
Shackleton
è
seduto
su
una
cassa
di
legno.
Sullo
sfondo
una
capanna
di
paglia.
A
questo
punto
il
cameraman
entra
con
lo
zoom
fino
a
stringere
l’inquadratura
in
un
primo
piano
del
reporter.
“Perché,
chiedono,
gli
indonesiani
ci
invadono?
Perché,
chiedono,
se
gli
indonesiani
credono
che
Fretilin
(il
movimento
indipendentista)
sia
comunista,
non
inviano
una
delegazione
a
Dili
per
constatarlo?
Perché,
chiedono,
gli
australiani
non
ci
stanno
aiutando?
Quando
i
giapponesi
ci
invasero,
essi
ci
aiutarono.
Chi,
chiedono,
ripagherà
per
i
terribili
danni
alle
nostre
case?".
La
mia
risposta
principale
fu
che
l’Australia
non
avrebbe
inviato
nessuna
truppa,
impossibile.
Però
suggerii
che
questa
invasione
sarebbe
potuta
essere
presentata
all’ONU,
questo
era
possibile.
A
quel
punto,
il
Secondo
in
Comando
si
alzo
in
piedi
ed
esclamò:
‘Compagno
giornalista’
– mi
strinse
la
mano,
il
resto
del
gruppo
mi
strinse
la
mano
e ci
applaudì,
solo
perché
eravamo
australiani.
Vogliono
solo
questo,
l’interesse
delle
Nazioni
Unite
verso
quello
che
sta
succedendo
qui.
Ieri
sera
l’emozione
era
così
forte
che
quasi
riuscivamo
a
toccare
il
calore
nell’aria
con
una
mano.
Greg
Shackleton,
da
un
villaggio
senza
nome,
che
ricorderemo
per
sempre,
nella
Timor
portoghese”.
Qualche
ora
dopo
Shackleton,
Stewart,
Cunningham,
Peters
e
Rennie
vennero
trucidati
dall’esercito
indonesiano.
I
dettagli
dei
fatti
che
seguono
furono
ricostruiti
dai
vari
testimoni
che
vissero
quei
momenti
di
delirio
e
confusione.
Fatti
che
mai
saranno
chiariti
con
certezza
poiché
raccontati
da
schieramenti
opposti:
indonesiani
intenti
a
sopprimere
il
ricordo
di
un
quintuplice
omicidio
e
timoresi,
che
da
quell’evento
ne
trassero
ulteriore
martirio.
Fatti
azzardati
e
raccontati
anche
in
un
film.
I
primi
a
raggiungere
il
villaggio
furono
i
colpi
di
mortaio.
Telecamere
in
spalla
e
microfoni
alla
mano,
i
cinque,
come
da
manuale,
corsero
in
direzione
dei
colpi.
Trovarono
riparo
dietro
a un
muro
alto
circa
un
metro.
Dall’altra
parte
si
stendeva
una
vallata
tagliata
dalla
linea
invisibile
del
confine.
I
loro
obiettivi
ripresero
figure
umane
in
siluette
che
avanzavano
in
fretta.
Milizia
ed
esercito
–
armati
fino
ai
denti
–
marciavano
a
piedi
dritti
verso
il
muro.
Negli
anni
Settanta
tra
i
giornalisti
vigeva
ancora
la
cieca
fiducia
sulla
neutralità
della
loro
presenza.
A
quei
tempi
era
difficile
da
immaginare
che
un
reporter
potesse
essere
preso
di
mira.
E
invece
i
colpi
di
mitraglia
iniziarono
a
scolpire
proprio
quel
muro
dietro
cui
si
erano
appiccicati.
Balzarono
in
piedi
e si
precipitarono
in
una
fuga
disperata
in
direzione
opposta,
trovando
rifugio
nell’edificio
abbandonato
che
li
aveva
ospitati
per
la
notte.
Una
struttura
semplice
e
grezza.
Quattro
muri
di
cemento
con
qualche
apertura,
oggi
conosciuta
come
la
“Casa
Cinese”.
Greg
Shackleton
la
notte
prima
vi
aveva
dipinto
all’esterno
la
bandiera
australiana
con
della
vernice
rossa
e
sotto,
in
caratteri
giganteschi,
aveva
scritto
“AUSTRALIA”.
Un
avvertimento
che,
nel
caso,
li
avrebbe
tenuti
in
salvo,
pensò.
Si
rinchiusero
nella
“Casa
Cinese”
e
aspettarono.
Non
passò
molto
tempo
affinché
l’esterno
si
saturasse
di
uomini
armati
intenti
a
setacciare
l’aria.
Dentro
la
casa
tremore,
adrenalina
e
paura.
Domande
bisbigliate
sul
cosa
fare.
"Ce
l’hanno
con
noi
o
cercano
solo
membri
del
Fretilin?".
Uno
di
loro
decise
di
uscire,
tanto
vale
discutere
e
spiegare
loro
che
siamo
solo
dei
giornalisti.
Varcò
la
soglia,
mani
bene
in
alto
e in
vista.
Un
colpo
di
pistola
alla
testa,
cadde
sul
posto.
Gli
uomini
armati
entrarono
e
fecero
fuoco
sui
restanti
quattro.
Tre
morirono
seduta
stante
con
il
sangue
che
schizzava
sui
muri.
Uno
riuscì
a
scappare
verso
il
bagno
e ci
si
rinchiuse
a
chiave.
Un
soldato
sfondò
la
porta
e lo
trafisse
ripetutamente
con
il
coltello.
Con
l’intenzione
di
eliminare
ogni
traccia
l’esercito
indonesiano
bruciò
i
corpi
insieme
alle
bobine
che,
sicuramente,
un
altro
piccione
avrebbe
riportato
a
Dili
quel
pomeriggio
stesso.
Quello
fu
il
giorno
che
segnò
l’invasione
indonesiana.
I
cinque
giornalisti
furono
uccisi
proprio
perché
testimoni
internazionali
di
un
atto
violento
e
illegale
da
parte
di
una
Nazione
degna
di
rispetto.
L’occupazione,
che
tra
carestie
e
violenze
portò
alla
morte
circa
un
quarto
della
popolazione
Timorese,
durò
fino
all’ottobre
del
1999.