N. 4 - Aprile 2008
(XXXV)
TIBET
LA MARCIA DEL RITORNO
di Stefano De Luca
Il
10 marzo, anniversario della rivolta di Lhasa del 1959,
migliaia di tibetani hanno protestato contro la Cina. Da
Dharamsala, cittadina indiana dove il Dalai Lama vive in
esilio da quando, nei giorni della rivolta, vi si
rifugiò per evitare di essere arrestato dalle autorità
cinesi, un centinaio di esuli tibetani sono partiti per
la marcia del ritorno, la cui conclusione è
prevista con il loro rientro in Tibet l'8 di agosto,
quando si inaugureranno i giochi Olimpici di Pechino.
La marcia è stata organizzata dal
Tibetan Youth Congress e da altre organizzazioni non
governative tibetane che operano parte in Europa e parte
in India. Il Tyc, in particolare, reclama a gran voce
l’indipendenza del Tibet, giudicando troppo debole la
posizione del Dalai Lama, che chiede per la sua regione
una “genuina autonomia”.
La polizia ha cercato di bloccare la
marcia comunicando ai manifestanti che non potranno
superare i confini del distretto di Kangra, quello nel
quale si trova Dharamsala.
Mentre i tibetani in esilio organizzavano
la marcia, centinaia di monaci hanno dimostrato a Lhasa:
secondo fonti non governative, 60 di essi sarebbero
stati arrestati dalle autorità cinesi.
“Ieri pomeriggio a Lhasa - ha
dichiarato l’11 marzo il portavoce del ministero degli
Esteri di Pechino Qin Gang - i monaci di alcuni
templi, istigati e incoraggiati da un gruppetto di
persone, hanno intrapreso delle attività illegali
minacciando così la stabilità sociale”.
Da quel momento, su Lhasa è calato il
buio. Nei giorni seguenti si sono rincorse le voci di
violenti scontri tra i tibetani e le forze dell’ordine
cinesi, confermate da alcuni filmati che hanno
cominciato a circolare sul web. Poi, il 14 marzo, la
notizia delle prime vittime degli scontri: una ragazza
di 16 anni ed un monaco. Il centro per le emergenze
mediche di Lhasa ha diffuso notizie di violenze ancora
più vaste, dichiarando che le vittime degli scontri
sarebbero “numerose”.
Lo stesso giorno alcune decine di
tibetani hanno manifestato al grido di “free Tibet”
davanti al Palazzo di vetro a New York, criticando allo
stesso tempo l’incapacità dell’Onu di intervenire nel
loro Paese: il diritto di veto cinese al consiglio di
sicurezza, di fatto, impedisce di intraprendere ogni
azione a difesa dei diritti del popolo tibetano.
Il 15 marzo il governo tibetano in esilio
a Dharamsala ha parlato di 30 morti accertati ed ha
chiesto alle Nazioni Unite un rapido intervento “prima
che il brutale regime cinese uccida altri innocenti”.
Tutti i membri del parlamento tibetano in esilio hanno
iniziato lo sciopero della fame.
Secondo il vice procuratore generale
cinese Sun Qian i disordini sono stati opera di “un
pugno di monaci” che hanno attuato un’iniziativa di
protesta “premeditata dalla cricca del Dalai Lama”.
Da Dharamsala il Dalai Lama ha parlato di
“genocidio culturale” condotto dai cinesi nei
confronti del popolo tibetano. Scopo della Cina sarebbe
non solo quello di controllare il Tibet, ma di estirpare
la cultura e le radici culturali tibetane soppiantandole
con quelle della Cina dominante. Ha poi ribadito che i
tibetani chiedono “autonomia e non separazione”,
confermando la sua posizione moderata che mira a
raggiungere un accordo con Pechino.
Il Dalai Lama ha poi lanciato un appello
affinché non vengano boicottate le prossime Olimpiadi,
come hanno invece richiesto in molti come segnale
dell’interesse internazionale alle violenze in corso in
Tibet.
Per capire il clima di tensione che si
respira a Pechino alla vigilia dei giochi olimpici,
basti pensare che il sito internet youtube é stato
oscurato in Cina dopo che è stato diffuso un video che
mostra le immagini degli scontri di Lhasa.
Il Dalai Lama il 19 marzo ha voluto
incontrare le associazioni che hanno organizzato la
marcia del rientro chiedendo di interrompere la marcia
stessa come segnale di voler far cessare le violenze. Il
Dalai Lama ha fatto sapere che il suo è solo un
consiglio, spetta agli organizzatori decidere.
Dhondup Lhadar Pochungtsang, segretario
generale del Tibetan Youth Congress, ha detto di non
voler commentare l'incontro, ma che avrebbe presto fatto
sapere la loro risposta in merito. Due giorni dopo la
decisione: la marcia è sospesa per un mese nella
speranza di "nuovi sviluppi positivi" per il
Tibet. |