N. 85 - Gennaio 2015
(CXVI)
Il mito di Theuth
la nascita della scrittura
di Paolo Scollo
È
una
tarda
mattina
d’estate
e il
giovane
Fedro,
del
demo
attico
di
Mirrinunte,
sta
facendo
ritorno
dalla
casa
di
Morico,
dove
ha
assistito
a
una
conferenza
dell’oratore
Lisia.
Durante
il
tragitto
si
imbatte
in
Socrate
che,
curioso
di
conoscere
i
contenuti
del
discorso
di
Lisia,
propone
di
avviarsi
verso
il
fiume
Ilisso,
a
sud
dell’acropoli
di
Atene,
in
modo
da
discorrere
al
riparo
dalla
calura
estiva.
Fedro
accetta
e i
due
si
incamminano.
In
seguito,
all’ombra
di
un
grande
platano,
dove
piacevole
giunge
la
brezza
della
sorgente,
decidono
di
fermarsi.
E
tale
locus
amoenus
-
distante
dalla
dimensione
urbana
ed
estraneo
a
Socrate
che,
per
sua
stessa
ammissione,
non
nutre
interessi
per
alberi
e
campagna
in
quanto
non
possono
fornirgli
alcun
insegnamento
- diviene
correlativo
oggettivo
di
una
discussione
incentrata
su
Eros,
anticipando
e a
un
tempo
predisponendo
al
contatto
diretto
con
il
divino.
Ed è
questa
l’immagine
con
cui
si
apre
il
Fedro,
il
dialogo
platonico
che,
nel
corso
dei
secoli,
ha
esercitato
notevole
fascino
e
interesse
sia
per
profondità
e
ricchezza
di
contenuti
sia
per
spunti
di
riflessione.
Per
molti
interpreti
questo
dialogo
costituisce
infatti
la
sintesi
sublime
e
raffinata
del
pensiero
di
Platone.
E
non
a
torto.
Vengono
qui
affrontate
le
tematiche
su
cui
il
filosofo
si è
a
lungo
interrogato,
quali
ad
esempio
la
natura
di
Eros,
la
vita
ultraterrena
dell’anima,
l’iperuranio,
il
rapporto
tra
oralità
e
scrittura.
Di
singolare
valore
è la
sezione
conclusiva
del
dialogo,
in
cui
vengono
illustrate
le
origini
della
scrittura
attraverso
il
mito
di
Theuth.
Osserviamola
da
vicino.
Theuth,
divinità
egiziana
manifestazione
locale
del
greco
Hermes,
si
reca
a
Tebe
per
donare
al
re
Thamus
le
sue
invenzioni,
fra
cui
rientra
anche
la
scrittura.
Giunto
al
cospetto
del
sovrano,
Theuth
vanta
le
straordinarie
virtù
della
parola
scritta:
«Questa
conoscenza,
o
re,
renderà
gli
Egiziani
più
sapienti
e
più
capaci
di
ricordare,
perché
è
stata
inventata
come
farmaco
per
la
sapienza
e
per
la
memoria»
(Phaedr.,
274
e 5
- 7)
Ma
Thamus
ribatte:
«O
Theuth,
sommo
esperto
di
tecniche,
altro
è la
capacità
di
concepire
una
tecnica,
altro
è
giudicare
il
danno
e il
vantaggio
che
essa
arreca
a
chi
la
adopererà.
Quello
che
tu,
in
qualità
di
padre
delle
lettere
e
dell’alfabeto,
ora
dici
per
affetto
nei
loro
confronti,
è il
contrario
di
ciò
che
esse
sono
in
grado
di
fare»
(274
e 8
-
275
a
3).
Nell’immagine
del
sovrano,
la
scrittura
rivela
evidenti
limiti.
In
primo
luogo,
non
contribuisce
ad
incrementare
la
memoria
di
chi
ne
fa
uso
ma,
al
contrario,
induce
nelle
anime
l’oblio
per
mancanza
di
esercizio
della
memoria:
«affidandosi
alla
scrittura,
essi
richiameranno
alla
mente
non
più
attingendo
all’interno
di
se
stessi,
ma a
segni
esterni»
(275
a 6
-
7).
Theuth
ha
trovato
un
farmaco
non
per
la
memoria,
ma
per
richiamare
alla
memoria.
Di
qui
l’apostrofe
a
Theuth
che,
diffondendo
sapienza
apparente,
genera
allievi
«per
lo
più
ignoranti
e
insopportabili
da
frequentare,
perché
apparentemente
sapienti
ma
non
veramente
dotti»
(275
a 11
- b
3).
La
conoscenza
vera
e
profonda
non
è
generata
dalla
scrittura,
ma
dall’oralità.
La
scrittura
non
è un
rimedio
contro
l’oblio,
ma
un
semplice
strumento
utile
alla
memoria
per
richiamare
dati
e
informazioni.
Si
tratta
di
una
conoscenza
effimera,
incerta
e
labile.
Non
è
dunque
la
conoscenza
in
sé.
A
tal
proposito
Socrate-Platone
spiega
poi
che
la
scrittura
possiede
un
aspetto
inquietante,
che
la
rende
simile
alla
pittura.
Le
immagini
dipinte
ci
si
pongono
innanzi
come
esseri
viventi,
tuttavia,
se
interrogate,
tacciono
solennemente.
E
così
anche
i
discorsi.
Si
potrebbe
avere
l’impressione
che
parlino
oppure
che
abbiano
la
capacità
di
pensare.
Eppure,
una
volta
interrogati,
seguitano
a
fornire
sempre
la
medesima
risposta.
Una
volta
fissato
entro
una
forma
scritta,
il
discorso
circola
indistintamente
tra
chi
è
capace
di
accoglierlo
e
chi
non
è in
grado
di
recepirne
il
contenuto.
Inoltre,
se
maltrattato
e
offeso,
il
discorso
non
riesce
a
difendersi,
per
cui
ha
bisogno
del
sostegno
dell’autore.
La
scrittura
produce
dimenticanza
in
chi
la
esercita:
crea
parvenza
di
sapere,
ma
non
sapere
in
sé.
È
impossibile
non
scorgere
dietro
queste
affermazioni
l’eco
del
passo
del
Protagora
in
cui
Platone
sottolinea
la
freddezza
del
testo
scritto
rispetto
alla
ricerca
filosofica,
ossia
al
dialogo.
Il
discorso
scritto
è
espressione
del
discorso
vivente
di
colui
che
è
sapiente,
ovvero
di
una
copia
perfetta
dell’oralità,
così
come
gli
oggetti
dell’arte
possono
suscitare
in
noi
l’immagine
di
cose
vive
e
reali,
ma
restano
più
lontani
dal
vero
delle
cose
in
sé
(328
e 5
ss.).
Illuminante
è
poi
il
passo
della
VII
Epistola
in
cui
Platone
muove
una
prima
accusa
nei
confronti
di
tutti
coloro
che,
come
il
tiranno
di
Siracusa
Dionigi,
non
hanno
mostrato
rispetto
per
le
conoscenze
apprese,
divulgandole
e
pretendendo
di
scrivere
su
problemi
su
cui
egli
stesso
si
interroga
continuamente.
Platone
spiega
infatti
che
la
conoscenza
nasce
all’improvviso,
dopo
lunga
frequentazione,
sull’oggetto
della
ricerca.
Nel
momento
in
cui
penetra
nell’anima,
il
sapere
diviene
scintilla
che
nutre
e
illumina
l’anima,
quindi
se
stesso.
E
tale
acquisizione
non
può
essere
né
detta
né
fissata
dalla
scrittura,
perché
è
una
conoscenza
aperta:
un
sapere
destinato
a
diffondersi
fra
le
anime,
ma
certo
non
comunicabile
in
forma
oggettiva.
Ma
torniamo
al
Fedro.
Successivamente,
per
indicare
che
l’oralità
impone
la
massima
serietà
mentre
la
scrittura
è
una
forma
di
gioco,
Socrate-Platone
ricorre
all’immagine
dei
giardini
di
Adone,
recipienti
in
cui
i
Greci
erano
soliti
piantare,
durante
la
stagione
estiva,
semi
in
grado
di
germogliare
e di
sfiorire
con
estrema
rapidità.
In
questo
celere
ed
effimero
ciclo
vitale
era
percepito
il
richiamo
alla
morte
prematura
di
Adone,
giovane
amato
da
Afrodite.
Di
qui
l’origine
del
nome.
In
questo
passo
del
Fedro
vengono
distinte
due
tipologie
di
agricoltori:
l’agricoltore
che
semina
in
un
recipiente
chiuso,
ossia
nei
giardini
di
Adone,
al
fine
di
ottenere
velocemente
piante
esteriormente
belle,
ma
che
hanno
vita
breve
e
non
danno
frutto;
l’agricoltore
che,
al
contrario,
semina
in
un
terreno
idoneo
e ha
pazienza
di
attendere
la
maturazione
dei
frutti.
Tale
metafora
allude
alla
differenza
tra
coloro
che
fissano
per
gioco
il
sapere
mediante
la
scrittura
e
coloro
che,
invece,
affidano
il
sapere
al
discorso
orale
attraverso
la
dialettica.
La
scrittura
è un
piacere,
un
diletto:
il
filosofo
può
intrattenersi
con
i
suoi
scritti,
ma
se
non
alimenta
il
discorso
vivente,
quindi
l’oralità,
non
può
essere
considerato
tale.
Entusiasmante
è
giocare
con
i
discorsi,
ma
più
produttivo
è
ricercare
il
sapere
nell’anima
attraverso
l’arte
dialettica.
In
tal
modo
vengono
piantati
nell’anima
discorsi
in
grado
di
generare
altre
verità.
E la
parola
filosofica
si
pone
quale
unico
mezzo
per
poter
percorrere
il
sentiero
che
dal
mondo
sensibile
conduce
alla
dimensione
dell’essere.
Questa
sezione
si
pone
perfettamente
in
linea
con
la
distinzione
tra
discorso
buono
e
discorso
cattivo
posta
nella
parte
iniziale
del
Fedro.
Qui
Platone
delinea
le
caratteristiche
dell’arte
dei
discorsi,
ossia
l’oratoria,
affermando
che
il
discorso
ben
fatto
deve
anzitutto
essere
dotato
di
corpo,
proprio
come
un
essere
vivente,
quindi
deve
essere
unitario
e
articolato
in
modo
perfetto,
perseguendo
il
verisimile
e
offrendo
una
visione
d’insieme.
Infine
deve
possedere
due
requisiti
fondamentali:
la
diairesis,
la
suddivisione
delle
idee
in
base
ad
articolazioni
naturali;
la
synopsis,
la
ricomposizione
in
un’unica
idea,
così
da
chiarire
l’oggetto
dell’insegnamento.
Questa
pagina
del
Fedro
è
altamente
significativa.
Platone
mostra
di
conoscere
gli
strumenti
necessari
per
la
preparazione
di
discorsi,
in
quanto
ha
avuto
modo
di
apprenderli
direttamente
dai
trattati
dei
sofisti.
In
ogni
caso,
non
manca
di
sottolineare
l’insufficienza
di
tali
strumenti:
usare
le
espressioni
adeguate
non
è
impresa
agevole.
La
conoscenza,
intesa
come
capacità
di
penetrare
nell’essenza
delle
cose
mediante
metodo
dialettico,
è
più
importante
della
dote
naturale
e
dell’esercizio.
Questa
capacità
si
esprime
nel
collegare
gli
elementi
costitutivi
del
discorso.
La
conoscenza
del
retore
non
riguarda
solo
l’oggetto
del
discorso,
ma
anche
il
soggetto,
cioè
il
destinatario.
Ogni
discorso
deve
essere
appropriato
all’anima
di
colui
che
si
intende
persuadere.
Chi
compone
e
pronuncia
discorsi
deve
preoccuparsi
di
assecondare
i
gusti
dei
padroni
che
sono
buoni
e
che
discendono
da
buoni,
ossia
gli
dèi
(274
a 1
-
2).
In
sintesi,
per
Platone
l’oratore
ideale
deve
conoscere
l’argomento
di
cui
si
parla,
cercando
di
collegare
in
modo
opportuno
ogni
parte
del
discorso.
In
queste
affermazioni
è di
certo
racchiusa
una
condanna
nei
confronti
della
falsa
dialettica
esercitata
dai
Sofisti,
logografi
di
professione
e
tecnici
nell’arte
della
persuasione,
convinti
che
«non
sia
necessario
per
chi
sta
per
diventare
oratore
apprendere
ciò
che
è
veramente
giusto,
ma
piuttosto
ciò
che
sembra
giusto
alla
moltitudine
di
coloro
che
giudicheranno»
(260
a 2
-
4).
In
tal
modo
si
limitano
a
ostentare
solennità
senza
esprimere
nulla
di
sensato
o di
vero,
ottenendo
fama
attraverso
l’inganno
di
qualche
omuncolo
(242
e
-243
a).
La
discussione
tra
Socrate
e
Fedro
è
ormai
giunta
al
termine
ma,
prima
di
abbandonare
il
luogo
incontaminato
che
ha
ospitato
le
loro
voci,
il
filosofo
invita
il
giovane
a
offrire
una
preghiera
al
dio
Pan:
«Caro
Pan
e
voi
altri
dèi
di
qui,
concedetemi
di
essere
bello
interiormente
e
che
quanto
mi
viene
dall’esterno
sia
in
armonia
con
ciò
che
ho
dentro.
Possa
io
ritenere
ricco
il
sapiente
e
possedere
tanto
oro
quanto
il
saggio»
(279
b10
- c
4).
Attraverso
tale
invocazione
Socrate-Platone
esprime
il
desiderio
di
raggiungere
un
equilibrio
interiore
fra
anima
e
corpo,
in
quanto
solo
la
luce
spirituale
consente
di
utilizzare
correttamente
le
tecniche.
Soltanto
la
luce
interiore
può
donare
energia
vitale
ai
discorsi.
L’immersione
nella
natura
ha
dunque
prodotto
nei
due
interlocutori
una
vera
e
propria
rigenerazione.
Adesso,
con
questa
rinnovata
energia,
è
possibile
fare
ritorno
alla
dimensione
sociale
e
urbana.
Di
qui
l’esortazione
di
Socrate
a
Fedro:
«Andiamo!»
(279
c
8).