N. 143 - Novembre 2019
(CLXXIV)
SUI PIONIERI DELL’OBIEZIONE DI COSCIENZA IN ITALIA
IL CONTRIBUTO DEI TESTIMONI DI GEOVA AL PACIFISMO ITALIANO
di
Matteo
Pierro
La
storia
dell’obiezione
di
coscienza
al
servizio
militare
nell’Italia
moderna
è
durata
meno
di
un
secolo.
Eppure,
fin
dagli
albori
del
Cristianesimo,
per
molti
cittadini
dell’Impero
Romano
divenuti
cristiani
fu
inconcepibile
prestare
servizio
militare
a
causa
dei
dettami
della
propria
coscienza.
In
effetti,
la
storia
dimostra
che
nei
primi
secoli
dopo
Cristo
nessun
cristiano
faceva
il
soldato
e
nessun
soldato,
diventato
cristiano,
continuava
a
svolgere
il
servizio
militare.
Le
parole
pronunciate
da
Gesù
la
notte
prima
di
morire
“tutti
quelli
che
prendono
la
spada
moriranno
di
spada”
erano
una
chiara
indicazione
di
quale
doveva
essere
l’atteggiamento
dei
suoi
seguaci
nei
confronti
del
servizio
militare
e
della
guerra.
Essi
furono
disposti
ad
anteporre
gli
obblighi
imposti
dalla
propria
coscienza
ai
doveri
richiesti
dallo
Stato
anche
se
far
questo
poteva
costare
caro.
Uno
dei
primi
obiettori
di
coscienza
fu
Massimiliano
di
Tebessa.
Pur
essendo
figlio
del
veterano
Fabio
Vittore,
rifiutò
di
arruolarsi
nell'esercito
romano.
Durante
il
processo
egli
rispose
al
proconsole
Dione
che
cercava
di
indurlo
a
diventare
soldato:
“Non
faccio
il
soldato.
Tagliami
pure
la
testa,
io
non
faccio
il
soldato
per
questo
mondo,
ma
servo
il
mio
Dio”.
E
alla
domanda
su
chi
lo
avesse
indotto
a
non
imbracciare
le
armi
egli
rispose:
“La
mia
coscienza
e
colui
che
mi
ha
chiamato”.
Per
tale
presa
di
posizione
Massimiliano
venne
giustiziato
il
12
marzo
dell'anno
295
d.C.
Nell’Italia
moderna
si
dovette
attendere
lo
scoppio
della
prima
guerra
mondiale
per
osservare
una
presa
di
posizione
così
netta
nei
confronti
del
servizio
militare.
Uno
dei
primi
obiettori
di
coscienza
di
cui
si
abbia
notizia
fu
Remigio
Cuminetti.
Egli
nacque
a
Porte
di
Pinerolo
nel
1890.
Nei
primi
anni
del
XX
secolo
entrò
a
far
parte
degli
Studenti
Biblici,
nome
con
il
quale
in
quegli
anni
erano
noti
i
Testimoni
di
Geova.
.
Remigio
Cuminetti
con
sua
moglie
Geltrude
Albina
Protti
Nel
1915,
quando
l’Italia
entrò
in
guerra
Remigio
lavorava
presso
le
officine
RIV
di
Villar
Perosa.
Questa
fabbrica
fu
considerata
ausiliaria
di
guerra
e
perciò
fu
imposto
agli
operai
di
mettere
un
bracciale
e
considerarsi
militarizzati.
Il
Cuminetti
avrebbe
potuto
accettare
questo
status
ed
evitare
di
essere
chiamato
alle
armi
nella
carneficina
che
sarebbe
diventata
la
Grande
Guerra.
Ma
Remigio
si
chiese:
“Posso
io
fare
la
volontà
di
Dio
al
quale
mi
son
consacrato
e in
pari
tempo
contribuire
alla
guerra
e
disubbidire,
sia
pure
indirettamente,
ai
comandamenti:
‘Non
uccidere’,
e
‘Ama
il
tuo
prossimo
come
te
stesso’?
Non
sono
forse
i
Tedeschi
e
gli
Austriaci
mio
prossimo
come
lo
sono
i
Francesi,
gl’Inglesi,
i
Russi?”
La
risposta
fu
netta
ed
esplicita.
Il
rifiuto
di
contribuire
allo
sforzo
bellico
gli
fece
ricevere
la
chiamata
di
leva.
Rifiutando
anche
il
servizio
militare
venne
arrestato
e
processato
dal
tribunale
militare
di
Alessandria
il
quale,
il
18
agosto
1916,
lo
condannò
a
tre
anni
e
due
mesi
di
reclusione.
Ma
le
autorità
militari
non
lo
lasciarono
in
pace.
Remigio
venne
prelevato
più
volte
dal
carcere
per
essere
costretto
a
fare
il
soldato.
In
ogni
occasione
subì
maltrattamenti
e
derisioni.
Fu
addirittura
inviato
al
manicomio
affinché
fosse
dichiarato
pazzo
ma i
medici
non
poterono
far
altro
che
appurarne
la
lucidità
mentale
e
rispedirlo
al
Corpo
di
appartenenza.
In
una
circostanza
un
ufficiale
ordinò
a
due
soldati
di
preparargli
lo
zaino
e
quindi
caricarglielo
sulle
spalle
insieme
a
tutto
l’altro
equipaggiamento
bellico.
Venne
prese
sotto
braccio
e
condotto
in
prima
linea
ma
anche
lì
egli
rifiutò
di
combattere.
Infine,
dopo
altri
mesi
di
prigionia,
fu
portato
al
fronte
per
fargli
trasportare
i
feriti.
Quando
venne
a
sapere
che
un
ufficiale
ferito
si
trovava
davanti
alla
trincea
senza
aver
più
la
forza
di
ritirarsi
e
che
nessuno
osava
andarlo
a
prendere,
Remigio
si
offrì
per
portare
in
salvo
l’uomo.
Riuscì
nell’impresa,
ma
rimase
egli
stesso
ferito
a
una
gamba.
Per
tale
azione
gli
fu
assegnata
la
medaglia
d’argento
al
valor
militare,
ma
lui
rifiutò
l’onorificenza
dicendo
che,
prima
di
tutto,
non
aveva
compiuto
quell’atto
per
guadagnarsi
un
ciondolo,
bensì
per
amor
del
prossimo.
Durante
il
regime
fascista
gli
obiettori
di
coscienza
testimoni
di
Geova
non
ebbero
vita
facile.
Attenzionati
dall’OVRA
alcuni
di
essi
furono
processati
dal
famigerato
Tribunale
Speciale
Fascista
ricevendo
lunghe
condanne
detentive.
Il
motivo
era
sempre
lo
stesso
come
si
evince
dalla
circolare
del
Ministero
dell’Interno
n.
441
del
13
marzo
1940.
In
essa
si
legge
che
i
testimoni
di
Geova
“stimano
illecita
qualsiasi
guerra
e
non
riconoscono
allo
Stato
il
diritto
di
assoggettare
i
cittadini
al
servizio
militare,
al
quale
i
fedeli
devono
sottrarsi
con
ogni
mezzo”.
Nel
dopoguerra
la
situazione
non
migliorò.
Spesso
si
ricorda
soprattutto
il
caso
di
Pietro
Pinna
e di
pochi
altri
che
rifiutarono
di
indossare
la
divisa
per
motivi
politici
ma
si
omette
di
riferire
che
il
gruppo
più
numeroso
di
obiettori
che
affollarono
i
reclusori
italiani
era
quello
dei
testimoni
di
Geova.
In
alcuni
periodi
la
loro
percentuale
superò
il
90%
dei
detenuti
obiettori.
L’obiezione
di
coscienza
era
vista
ancora
come
una
sorta
di
tradimento
della
Patria.
Chi
rifiutava
la
leva
riceveva
pesanti
condanne
al
carcere
e
dopo
averle
scontate
veniva
di
nuovo
richiamato
alle
armi.
Un
ulteriore
rifiuto
significava
una
condanna
ancora
più
pesante.
Il
Messaggero
del
7
settembre
1957
raccontava
per
esempio
la
vicenda
di
Antonio
Dinardo
di
Pescara.
Si
legge:
“Un
obiettore
di
coscienza
seguace
della
setta
di
Jehova
è
stato
condannato
per
la
terza
volta.
Si
tratta
di
Antonio
Dinardo...
il
quale
non
vuole
saperne
di
indossare
la
divisa
e di
impugnare
le
armi,
sia
pure
per
addestramento.
è
stato
condannato
una
prima
volta
a un
anno
di
reclusione,
una
seconda
a un
anno
e 2
mesi
e
ora
a
due
anni
e 8
mesi
di
reclusione.
Il
Dinardo
ha
mantenuto
la
sua
posizione
dichiarando
di
non
voler
trasgredire
i
principi
della
sua
fede
per
nessun
motivo.
Egli
ha
ascoltato
la
sua
terza
condanna
(terza
e
forse
non
ultima
se
ancora
rifiuterà
di
prestare
servizio
militare)
con
assoluta
impassibilità”.
.
Antonio
Dinardo
(il
secondo
in
piedi
da
destra)
con
altri
testimoni
di
Geova
detenuti
per
obiezione
di
coscienza
Questa
notizia
dà
un’idea
dei
patimenti
che
in
quegli
anni
subivano
gli
obiettori.
In
teoria
si
poteva
essere
condannati
all’infinito
se
non
interveniva
qualche
causa
che
rendesse
gli
obiettori
non
idonei
al
servizio
militare.
Nemmeno
il
matrimonio
e
avere
una
prole
esentava
dal
ricevere
altre
condanne.
La
figlia
di
Antonio
Dinardo
nata
fra
le
seconda
e la
terza
detenzione,
chiese
alla
madre
chi
fosse
quell’uomo
che
ora
abitava
con
loro
quando
egli
venne
rimesso
in
libertà.
La
situazione
cominciò
a
migliorare
solo
negli
anni
‘80
quando
gli
obiettori
cominciarono
ad
essere
condannati
ad
un
solo
periodo
di
detenzione
di
solito
pari
al
tempo
che
avrebbero
trascorso
come
militari
di
leva.
Per
un
giovane
testimone
di
Geova
di
quegli
anni,
come
chi
scrive
quest’articolo,
l’arrivo
della
chiamata
alle
armi,
il
rifiutarsi
di
indossare
la
divisa,
il
processo
e la
conseguente
condanna
era
un
appuntamento
al
quale
ci
si
preparava
fin
da
prima
di
diventare
maggiorenni.
Le
città
dove
esistevano
i
reclusori
militari
(Bari,
Cagliari,
Gaeta,
Palermo,
Peschiera
sul
Garda,
Roma,
Santa
Maria
Capua
Vetere
e
Sora)
divennero
molto
ben
note
ai
familiari
degli
obiettori
di
tutte
le
regioni
italiane
lì
reclusi.
I
detenuti
potevano
ricevere
visite
di
un’ora
solo
una
volta
a
settimana.
Spesso
i
colloqui
avvenivano
in
parlatori
con
precauzioni
degne
di
carceri
di
massima
sicurezza.
A
Sora,
dove
tutti
i
detenuti
erano
obiettori
di
coscienza
testimoni
di
Geova,
ad
esempio,
per
un
periodo
fu
possibile
vedere
i
propri
cari
solo
attraverso
un
piccolo
vetro
blindato
e
parlare
con
loro
esclusivamente
tramite
un
telefono.
Evidentemente
lo
scopo
delle
autorità
carcerarie
era
quello
di
fiaccare
il
morale
dei
detenuti.
Così
come
quando
venne
diramata
una
direttiva
che
aveva
l’obiettivo
di
far
partecipare
i
reclusi
per
motivi
di
coscienza
all’addestramento
militare.
Solo
il
rifiuto
in
massa
da
parte
degli
obiettori
e
l’assoluzione
di
un
detenuto
sottoposto
a
processo
per
averlo
rifiutato
fece
recedere
da
tale
iniziativa.
A
seguito
dell’aumento
esponenziale
dei
testimoni
di
Geova
italiani,
crebbe
anche
il
numero
degli
obiettori
di
coscienza
detenuti.
In
alcuni
periodi
essi
sfiorarono
le
1000
unità.
Durante
la
presidenza
di
Sandro
Pertini
molti
vennero
da
lui
graziati.
Il
presidente
della
Repubblica
conservava
un
buon
ricordo
dei
testimoni
di
Geova
suoi
compagni
di
prigionia
a
Ventotene.
Nel
1998
le
cose
cominciarono
finalmente
a
cambiare.
Il
Governo
Italiano
approvò
una
legge
che
sancì
il
pieno
riconoscimento
giuridico
dell'obiezione
di
coscienza.
Essa
non
era
più
considerata
un
beneficio
concesso
dallo
Stato,
ma
diventava
un
diritto
della
persona.
Il
Servizio
Civile
rappresentò
un
modo
alternativo
di
"servire
la
patria",
permettendo
così
a
tanti
giovani
di
evitare
la
reclusione.
Nel
2005
venne
abolita
la
leva
obbligatoria
ponendo
così
fine
all’obiezione
di
coscienza
al
servizio
militare
in
Italia
dove
i
Testimoni
ne
furono
i
pionieri
e la
stragrande
maggioranza.