N. 128 - Agosto 2018
(CLIX)
Note storiche sulle proprietà collettive
Le
origini
medievali
delle
terre
comuni
di
Alfredo
Incollingo
Con
la
legge
n.
168
del
20
novembre
2017
la
Repubblica
italiana
ha
riconosciuto
ufficialmente
le
proprietà
collettive
e i
diritti
di
uso
civico
della
terra.
Dagli
albori
dell’età
moderna
gli
Stati
nazionali
e la
giurisprudenza
hanno
tentato
di
eradicare
tutte
le
forme
di
proprietà
che
non
si
conformassero
alla
concezione
borghese
e
individualistica
del
possesso.
La
norma
n.
544
del
Codice
Civile
francese
del
1804
così
recitava:
“La
proprietà
è il
diritto
di
godere
e
disporre
delle
cose
nella
maniera
la
più
assoluta,
purchè
non
se
ne
faccia
un
uso
vietato
dalle
leggi
o
dai
regolamenti”.
Era
inaccettabile,
alla
luce
del
diritto
moderno,
qualsiasi
visione
comunitaria
del
possesso.
Le
proprietà
collettive
presupponevano
un’antropologia
differente,
che
poneva
la
comunità
e
non
l’individuo
in
relazione
con
la
terra.
Un
bosco
o un
pascolo
potevano
essere
di
esclusivo
godimento
di
un’intera
collettività,
che
vi
esercitava
un
utilizzo
razionale
volto
ad
assicurare
il
non
deperimento
del
suolo.
I
demani
comuni
hanno
origini
antiche:
li
si
vuole
di
discendenza
romana
o,
secondo
la
pandettistica
tedesca,
vengono
considerati
un
lascito
dei
popoli
germanici.
Entrambe
le
culture
conoscevano
forme
di
gestione
comunitaria
della
terra
per
sopravvivere
in
territori
difficili
e
disabitati.
Anche
gli
italici,
soprattutto
gli
Etruschi,
annoveravano
nel
loro
diritto
la
gestione
collettiva
del
suolo.
In
Germania,
per
esempio,
le
tribù
traevano
le
risorse
naturali
nelle
foreste
circostanti
i
loro
villaggi,
indispensabili
per
tutti
i
singoli
membri
della
comunità.
La
proprietà
privata,
come
noi
oggi
la
concepiamo,
non
poteva
emergere
spontaneamente,
perché
avrebbe
limitato
la
disponibilità
di
beni
per
il
resto
della
tribù.
Nell’antica
Roma,
in
età
repubblicana,
quando
si
fondava
una
nuova
colonia,
si
permetteva
ai
coloni
il
libero
utilizzo
di
una
parte
delle
terre
pubbliche,
sottoforma
di
ager
compascuus,
ad
esempio,
affinchè
provvedessero
autonomamente
ai
loro
fabbisogno.
In
alcune
regioni
dell’Impero
Romano,
soprattutto
in
Italia,
queste
istituzioni
giuridiche
sopravvivvero
nella
Tarda
Antichità
e
furono
ereditate
dall’Alto
Medioevo
come
consuetudini
locali,
consolidate
e in
grado
di
resistere
alle
prevaricazioni
dei
signori
feudali.
Le
proprietà
collettive
laziali
o
della
dorsale
appenninica
si
svilupparono
in
piena
età
feudale,
a
partire
dal
IX
secolo,
quando
i
vassalli
del
papa
o
dell’imperatore
concedevano
ai
loro
sudditi
il
diritto
di
usufruire
liberamente
di
una
parte
dei
feudi.
Dove
le
proprietà
collettive
avevano
un’orgine
ben
più
antica,
presentavano
sistemi
di
gestione
della
terra
già
formalizzati,
garantendo
la
piena
autonomia
delle
comunità
rurali.
È il
caso,
ad
esempio,
della
Regola
di
Cortina
d’Ampezzo,
in
Veneto,
il
cui
statuto
risale
però
al
XII
secolo.
I
feudatari
tentarono
di
usurparle
per
riportare
sotto
il
proprio
controllo
i
villaggi
indipendenti.
Nella
maggior
parte
dei
casi
le
terre
collettive
si
svilupparono
a
partire
da
concessioni
fatte
direttamente
dal
feudatario
e da
monasteri.
Una
delle
maggiori
preoccupazioni
dell’aristocrazia
feudale
era
la
sopravvivenza
dei
coloni
e
della
servitù
della
gleba,
soprattutto
in
periodi
di
carestia
o
durante
le
epidemie.
Affinchè
costoro
provvedessero
autonomamente
alla
propria
sussistenza,
gli
abati
e i
feudatari
erano
soliti
concedere
parte
del
proprio
patrimonio
fondiario
alle
comunità
rurali.
Queste
potevano
così
usufruire
liberamente
dei
beni
naturali,
come
assegnatari
del
dominio
utile
del
fondo.
Il
dominio
nominale,
di
fatto,
rimaneva
prerogativa
del
feudatario
o
del
monastero.
Si
parla
tuttora
di
legnatico,
se
gli
intestatari
della
proprietà
collettiva
godono
del
diritto
di
raccogliere
legna;
pascolatico,
se è
stato
concesso
il
libero
pascolo;
fungatico
e
seminatico,
per
la
raccolta
di
funghi
o
per
la
semina.
Agli
inizi
del
Settecento
e
per
tutto
l’Ottocento
si
tentò
di
affrancare
queste
terre
dai
vincoli
comunitari
e
consetudinari,
che
nei
fatti
limitava
la
proprietà
privata
e i
grandi
latifondi.
Come
avvenne
per
molti
lasciti
dell’età
medievale,
i
moderni
provarono
a
eradicare,
non
sempre
riuscendovi,
sistemi
socio
–
economici
e
ambientali
che
avevano
garantito
la
sopravviveza
di
intere
comunità
locali
e la
preservazione
del
suolo
e
del
paesaggio.
Nonostante
la
legge
n.
1766
del
16
giugno
1927
avesse
fornito
gli
strumenti
per
liquidare
le
proprietà
collettive,
queste
resistettero
e
con
la
normativa
n.
168
del
20
novembre
2017
hanno
oggi
ottenuto
un
pieno
riconoscimento
giuridico.
Riferimenti
bibliografici:
Grossi
Paolo,
Un
altro
modo
di
possedere:
l’emersione
di
forme
alternative
di
proprietà
alla
coscienza
giuridica
postunitaria,
Giuffrè,
Milano,
2017;
Marinelli
Fabrizio,
Un’altra
proprietà.
Usi
civici,
assetti
fondiari
collettivi,
beni
comuni,
Pacini
Editori,
Pisa,
2016.
