N. 138 - Giugno 2019
(CLXIX)
TERRA TUNISINA
Tra
integrazione
e
dialogo
di
Enrico
Costa
L’articolo che
segue
è un
omaggio
per
ricordare
il
professor
Enrico
Costa,
che
ha
scritto
questo
pezzo ad
hoc per
InTunisia,
monografia
dedicata
alla
Tunisia
nell'ambito
di
InStoria - quaderni di percorsi storici. Era il 2011, e i suoi ricordi e i pensieri
costituiscono,
oggi, una
preziosa testimonianza
storica,
da
non
ndimenticare
e
utile
a
riflettere,
con
il
senno
di
poi,
su
quanto
avvenne
nei
giorni
della
cosiddetta
rivoluzione dei
gelsomini.
A
Mohamed
Bouazizi,
laureato
tunisino
di
26
anni,
disoccupato,
al
quale
non
si è
consentito
di
vivere
neanche
facendo
l’ambulante
Ai
giovani
Thelja
Amaimia
e
Fouad
Ben
Ali,
dell’Università
Mediterranea
di
Reggio
Calabria,
perché
gli
sia
consentito
di
lavorare
per
la
loro
Tunisia
Dicembre
(2010)
e
gennaio
(2011)
li
ho
passati
con
gli
occhi
puntati
sulla
Tunisia,
che
considero
il
mio
secondo
Paese,
e
con
il
cuore
pulsante
per
il
destino
della
sua
gente.
E
come
fai
a
non
essere
in
ansia
per
i
popoli
che
si
affacciano
sul
Mediterraneo,
l’antico
Mare
Nostrum,
non
nel
senso
imperialista
di
quando
Roma
dominava
il
mondo
allora
conosciuto,
ma
nel
senso
di
‘nostro’,
appartenente
a
tutti
coloro,
sud
europei
e
nord
africani,
e
popoli
dell’asia
minore,
che
su
di
esso
si
affacciano?
Come
fai
a
non
fremere
al
pensiero
di
quel
ragazzo
di
Sidi
Bouzid
vicino
Kasserine,
spirato
il 5
gennaio
[2011],
dopo
essersi
dato
fuoco
il
17
dicembre?
Laureatosi
con
enormi
sacrifici
personali
e
familiari
ma
poi
privato
della
possibilità
stessa
di
esercitare
la
professione
per
la
quale
si
era
preparato,
precario
al
punto
di
sopravvivere
da
ambulante
senza
licenza,
suicidatosi
dopo
il
sequestro
della
‘bancarella’
e
della
speranza
di
sopravvivere
con
dignità.
Come
fai
a
non
essere
solidale
se
in
Tunisia,
a
Sousse
(o
Susa),
a
140
km
dalla
capitale
Tunisi,
hai
vissuto
e
lavorato
e
hai
avuto
i
tuoi
figli
–
tra
il
1968
e il
1973
–
quando
avevi
la
stessa
età
di
Mohamed?
Come
fai
a
non
solidarizzare
ancora
oggi,
con
quella
Tunisia
che
nel
tuo
piccolo
hai
cercato
di
aiutare
a
crescere
e a
svilupparsi?
La
mia
generazione
il
‘68
lo
aveva
già
fatto
cinque
anni
prima,
nel
‘63
– ad
Architettura
a
Roma,
a
Valle
Giulia
–
quando
con
un’occupazione
‘vera’
cambiammo
faccia
alla
scuola,
facemmo
‘chiamare’
da
Venezia
e da
Firenze
tre
Professori
del
calibro
di
Luigi
Piccinato,
Ludovico
Quaroni
e
Bruno
Zevi,
con
i
quali
si
cambiò
modo
di
insegnare
e di
studiare
(con
Zevi
mi
sarei
laureato,
perché
mi
ero
iscritto
con
la
passione
per
la
storia,
mentre
Quaroni
e
Piccinato
mi
accesero
la
fiamma,
e la
passione,
per
la
Città
e
per
il
Territorio).
Ma
ciò
che
sono,
lo
sono
diventato
grazie
anche
al
mio
secondo
Paese,
ciò
che
ho
imparato,
nel
contatto
con
un’umanità
vera,
lo
debbo
in
gran
parte
ai
miei
cinque
anni
tunisini.
Non
vi
ho
approfondito
l’urbanistica
attraverso
sofisticati
studi
post
laurea,
non
vi
ho
insegnato
all’Università
–
che
del
resto
quando
mi
trasferii
a
Sousse
ancora
non
c’era
– ma
vi
ho
appreso
l’urbanistica
della
vita,
della
povera
gente,
di
chi
voleva
evolversi,
ma
partiva
da
un’arretratezza
strutturale
aggravata
dal
colonialismo,
di
chi
non
aveva
sufficienti
risorse
e
sul
territorio
cercava
risposte
a
bisogni
primari,
la
casa
innanzi
tutto.
Quando
arrivai
erano
gli
anni
tumultuosi
ed
esaltanti
della
fine
del
colonialismo
(l’indipendenza
tunisina
dalla
Francia
risaliva
al
20
marzo
1956),
del
terzomondismo
di
Nehru,
di
Tito,
di
Nasser
e di
Bourguiba,
dell’affacciarsi
sulla
scena
mondiale
di
paesi
per
lo
più
postcoloniali,
dall’India
alla
Jugoslavia,
dall’Egitto
alla
Tunisia.
Erano
gli
anni
della
durissima
lotta
di
liberazione
algerina
(e
del
film
La
battaglia
di
Algeri
di
Gillo
Pontecorvo).
E
quei
popoli
non
potevi
starli
a
guardare,
non
potevi
esimerti
dall’aiutarli
per
quello
che
conoscevi,
per
il
mestiere
che
possedevi
e
per
quanto
e
come
sapevi
farlo.
Il
regime
di
allora,
perché
quello
di
Habib
Bourguiba,
era
un
regime
in
senso
stretto:
una
conduzione
autoritario-paternalista,
non
particolarmente
corrotto,
almeno
fino
agli
anni
Settanta,
e
certo
non
corrotto
come
quello
di
Ben
Alì,
un
regime
che
comunque
aveva
almeno
tre
conquiste
al
suo
attivo.
Tre
conquiste
per
quegli
anni
assolutamente
rivoluzionarie:
l’abolizione
della
poligamia,
la
parità
fra
la
donna
e
l’uomo
anche
sul
lavoro,
e
una
diffusione
senza
precedenti
dell’istruzione,
oltre
all’avvio
di
una
sanità
moderna
e
una
dovuta
attenzione
alla
pianificazione
urbanistica.
Con
il
suo
successore
Zine
El-Abidine
Ben
Ali,
che
depose
Bourguiba
il 7
novembre
1987
(da
cui
gli
orrendi
monumenti
sparsi
ovunque,
grandi
oggetti
a
forma
di
‘7’
che
più
che
esprimere
un’idea
democratico-rivoluzionaria
o
dittatoriale,
ti
facevano
pensare
a
quella
specie
di
gassosa
americana
chiamata
7Up),
tutto
cambiò,
e la
corruzione
del
clan
Ben
Ali
assunse
dimensioni
intollerabili
per
una
popolazione
sempre
più
povera
e
priva
di
prospettive.
E i
risultati
si
sono
potuti
drammaticamente
constatare.
In
un
primo
momento,
si è
parlato
di
“rivolta
del
pane”,
ma
poi,
perché
non
di
solo
pane
vive
l’uomo,
anche
se
la
fame
non
mancava,
di
“rivoluzione
dei
gelsomini”.
Chi
non
conosce,
o
conosce
poco
la
Tunisia,
non
si
rende
conto
di
quanto
il
profumo
dei
gelsomini
che
–
nei
giardini,
sparsi
sui
tavoli
da
lavoro,
o
raccolti
in
mazzetti
elaborati,
che
scambiati
fra
amici,
portati
appoggiati
sull’orecchio
e
rivolti
all’ingiù,
con
i
gambi
inseriti
e
fissati
sotto
il
bordo
del
copricapo
tradizionale
di
colore
rosso
(la
morbida
shashia
o
chéchia,
o il
più
imponente
fez
a
tronco
di
cono)
ti
fanno
sostare
e
muovere
avvolti
da
un
profumo
leggero
e
rilassante
–
assecondando
la
disponibilità
a
parlarsi,
a
confrontarsi,
a
ragionare
assieme
sognando
del
futuro
e
del
cambiamento
possibile.
E
ora,
si
spera,
col
profumo
di
gelsomino
che
si
diffonde
nell’aria,
che
per
tanti
tunisini
parlarsi,
confrontarsi,
ragionare,
e
persino
sognare,
non
sarà
più
proibito.
Ma
quale
Tunisia
ho
trovato
e
conosciuto
dal
1968
al
1973?
Arrivato
a
Tunisi
per
la
prima
volta
al
porto
della
Goulette
(proprio
lì,
in
italiano
Goletta,
si
sono
aggregati
nuclei
di
resistenza
italiana
al
nazifascismo
e da
quella
cittadina
giungeva
in
Italia
Claudia
Cardinale,
la
siciliana
nata
e
cresciuta
in
Tunisia,
con
la
sua
sfolgorante
bellezza
mediterranea,
subito
catturata
dai
Monicelli
e
dai
Germi,
dai
Fellini
e
dai
Visconti,
maestri
del
cinema
italiano
per
i
loro
Soliti
ignoti
e Un
maledetto
imbroglio,
Otto
e
mezzo,
Rocco
e i
suoi
fratelli
e Il
Gattopardo).
Ti
immergevi
poi
nei
colori,
negli
odori
e
nei
sapori
della
Medina
di
Tunisi,
nelle
sue
“memorie
romane”
e
del
Museo
Nazionale
del
Bardo
con
i
suoi
straordinari
mosaici
romani
e di
Cartagine,
che
ti
fanno
venire
una
voglia
matta
di
conoscere
le
altre
città
romane
nordafricane.
Poi
a
Sousse,
dove
sai
di
trovare
un
Museo
della
Kasbah
quasi
all’altezza
del
Bardo
della
capitale,
una
El
Djem
con
l’imponente
Colosseo
degli
imperatori
Gordiani,
ma
anche
Roberto
Rossellini
che
vi
sta
preparando
gli
Atti
degli
Apostoli,
nell’ambientazione
di
Sousse
che
diverrà
più
tardi
la
Gerusalemme
del
Gesù
di
Nazareth
di
Zeffirelli.
Ma
soprattutto
una
realtà
socio-antropologica
non
ancora
contaminata
da
modelli
consumistici,
e
una
Medina
con
i
suoi
gioielli
architettonici
del
Medioevo
islamico,
allora
in
corso
di
restauro,
dalla
Grande
Moschea
al
Ribat,
straordinario
esempio
di
monastero-fortezza,
alla
Grande
Moschea
di
Kairouan,
terza
Città
Santa
dell’Islam.
E
poi
ti
attendono
i
lavori
in
corso,
il
restauro
dei
percorsi
a
rampe
e
gradoni
di
una
incredibile
Medina
tutta
cinta
di
mura,
la
conclusione
del
cantiere
del
Ribat,
il
lancio
turistico
di
Sousse
e di
El
Kantaui
(un
settore,
il
turismo,
destinato
a un
grande
sviluppo,
visto
che
oggi
con
i
circa
5
milioni
di
visitatori
fornisce
il
20%
delle
entrate
del
paese),
e i
villaggi
delle
aree
pre
desertiche,
come
quelli
vicino
a
Kairouan
e a
Kasserine.
Insomma,
per
un
neo
laureato,
un
mondo
intero.
Un
mondo
di
lavoro,
di
piani,
di
scambi,
e un
mondo
che
non
si
esaurisce
nel
territorio
che
ti
hanno
affidato,
ma
che
si
apre
su
milletrecento
chilometri
di
costa,
un
paese
non
molto
popolato
(al
mio
arrivo,
nel
1968,
gli
abitanti
della
Tunisia
erano
poco
più
di
4.933.000,
mentre
oggi
sono
circa
10.600.000),
ma
sovraffollato
rispetto
alle
scarse
risorse
di
materie
prime.
Un
mondo
fatto
di
gente
povera,
ma
piena
di
speranze...
e di
cose
che
non
ti
devi
assolutamente
perdere:
dal
deserto
del
Sahara,
che
occupa
il
40%
della
superficie
della
Tunisia,
con
le
grandi
Oasi
di
Nefta
e di
Tozeur,
oltre
all’Oasi
costiera
di
Gabès,
le
più
piccole
ma
forse
più
spettacolari
Oasi
di
montagna,
dalla
grande
isola
di
Djerba
e
l’arcipelago
delle
Kerkennah
ai
luoghi
turistici
più
rilevanti
e
frequentati
come
Hammamet,
Monastir
e la
stessa
Sousse,
fino
a
siti
archeologici
spesso
spettacolari
come
Cartagine,
El
Djem,
Boulla
Regia,
Sbeitla,
Dougga,
Thuburbo
Majus
e
Kerkouane.
Senza
trascurare
l’enogastronomia
(piatti
squisiti
come
Cuscus,
Tajine,
Molokhej,
Mechouia
e
Briq,
e
vini
come
i
rossi
Tyna,
Thibar
e
Magon,
e i
bianchi
Coteaux
de
Carthage
e
Muscat
sec
de
Kelibia),
compresa
la
tipica
pasticceria
(Samsa,
Adlia,
Baklawa,
Kaak
Anbar,
Kaak
Tressé,
Mlabes,
Machmoum,
Miniardise
Jiljlane
e
Makroud),
i
liquori
(Thibarine
e
Boukha)
e,
come
bevanda
naturale
tradizionale,
il
Laghmi,
cioè
la
linfa
estratta
dalla
palma,
servita
senza
particolari
trattamenti.
E
poi
tutto
il
Maghreb,
con
a
est
della
Tunisia
la
Libia,
e a
ovest
l’Algeria,
il
Marocco
e la
Mauritania.
Quando
arrivi,
l’arabo
non
lo
conosci,
e
non
è
detto
che
riesci
ad
apprenderlo,
ma
distingui
chiaramente
parole
che
ti
sono,
almeno
in
parte,
familiari.
Al
mercato
del
pesce
i
venditori
gridavano
“triglia,
triglia!”
(triglie),
“sgombri,
sgombri!”
(sgombri),
“soubia,
soubia!
(seppie),
tu
stupito
apprezzavi
e
appena
familiarizzavi
ti
dicevano,
in
arabo
parlato,
“taliani/tunisini
kif
kif!”,
dove
kif
kif
starebbe
per
‘uguali’,
per
amici
e
fratelli,
come
se
altri
europei,
nella
memoria
del
colonialismo,
né
uguali,
né
amici
né
fratelli
lo
erano,
né
lo
sarebbero
stati.
E
allora
vai,
con
le
tracce
di
italiano
nell’arabo
parlato:
ratsa
(per
razza);
guirra
(per
guerra);
basta
(per
basta);
fatcha
(per
faccia,
viso);
mizirya
(per
miseria),
la
condizione
comune
di
tanti
arabi
e
italiani
di
un
tempo;
jornata
(salario
di
una
giornata;
bala
(pala);
feeshta
(per
festa/festività);
cougina
(per
cucina);
forshita
(per
forchetta);
tassa
(per
tazza);
gazouza
(per
gassosa);
shroubo
(per
sciroppo,
bevanda
dolce);
jilat
(per
gelato);
sigaro
(sigaretta);
bousta
(per
busta
da
lettera);
qwattro
(per
quadro
o
cornice);
stamba
(per
stampa);
coubirta
(per
coperta);
cabbout
(per
cappotto);
sabbat
(per
ciabatta,
calzatura);
calcitta
(calza);
blassa
(per
piazza);
trino
(per
treno);
makina
(per
macchina,
automobile);
carraba
(per
macchina,
automobile);
carrita
(per
carretta);
rouba
fikia
(roba
vecchia);
e
poi
gatt,
gattous
(per
gatto);
babbaghayou
(per
pappagallo);
farfattou
(per
farfalla);
zanzana
(per
zanzara)…
Insomma,
ci
si
capiva,
ci
si
voleva
capire,
perché,
condividendo
miserie
e
sofferenze
alla
base
della
piramide
sociale
di
una
società
coloniale,
ci
si
scambiava
anche
il
vocabolario
di
base.
E ci
si
capiva
da
molto
prima
dell’epoca
del
protettorato
francese.
E ci
si
capiva,
tra
tunisini
e
italiani,
perché
entrambi
dominati,
e
subalterni,
all’epoca
del
protettorato
francese,
quando
gli
italo-tunisini
erano
considerati
pericolosi
(le
peril
italien)
per
gli
interessi
della
potenza
coloniale.
Oltre
ovviamente
alla
popolazione
autoctona,
composta
soprattutto
da
arabi,
ma
anche
da
berberi.
Nel
1926
i
francesi
censirono
173.281
europei,
e
fra
questi
gli
italiani
erano
89.216,
più
dei
71.020
francesi
(oltre
a
8.396
maltesi).
Erano
tanti,
e
invisi
ai
francesi,
gli
italiani
di
Tunisia,
quasi
tutti
nati
in
Tunisia
da
siciliani
arrivati
nell’800
con
barche
di
fortuna,
e
destinati
inesorabilmente
a
calare
dopo
il
maggio
1943,
con
la
vittoria
in
Tunisia
del
generale
De
Gaulle
e
degli
alleati,
e la
conseguente
politica,
attraverso
la
chiusura
di
giornali
e
scuole,
di
ridimensionamento
della
presenza
italiana:
84.935
nel
1946,
solo
3.000
nel
2005,
quasi
tutti
nell’area
metropolitana
di
Tunisi.
Ma
gli
italiani
in
quel
paese
nord
africano
c’erano
già
da
prima
dell’800.
Prima
ancora
che
l’isola
di
Tabarka,
di
fronte
all’omonima
città
sulla
costa
nord
della
Tunisia,
dal
1540
al
1742,
appartenesse
per
concessione
del
Bey
di
Tunisi
alla
famiglia
genovese
dei
Lomellini,
della
cerchia
di
Andrea
Doria
–
che
si
radicò
su
quel
territorio
dedicandosi
alla
coltivazione
e
alla
lavorazione
del
corallo,
garantendo
così
una
base
per
i
commerci
genovesi
–
erano
frequenti
anche
relazioni
più
minute
fra
Sicilia
e
Tunisia.
In
particolare
a
Sousse
– fu
emozionante
rileggerla
proprio
nella
città
dove
vivevo
–
era
ambientata
la
seconda
novella
della
quinta
giornata
del
Decameron
di
Boccaccio:
«
Gostanza
ama
Martuccio
Gomito,
la
quale,
udendo
che
morto
era,
per
disperata
sola
si
mette
in
una
barca,
la
quale
dal
vento
fu
trasportata
a
Susa
».
Chissà
se,
sette
secoli
fa,
anche
la
siciliana
Gostanza
approdata
tutta
impaurita
a
Susa
con
la
sua
barca
lasciata
andare
alla
deriva
in
cerca
di
morte,
risvegliandosi
abbia
sentito
i
pescatori
che
si
trovavano
nei
pressi
gridarsi
l’un
l’altro
“triglia,
triglia!”
(triglie)
“sgombri,
sgombri!”
(sgombri),
“soubia,
soubia!
(seppie),
o se
la
popolana
che
la
soccorse,
dopo
averla
tranquillizzata
parlandole
con
“favella
latina”
le
abbia
anche
aggiunto,
con
parlata
semplice,
“taliani/tunisini
kif
kif!”,
cioè
uguali,
cioè
amici
e
fratelli?
Tutto
ciò,
tra
Lipari,
Susa
e
Tunisi,
in
un
Mediterraneo
di
pace,
dove
ci
si
capisce
anche
parlando
lingue
comuni,
e
dove
valori
come
umanità,
solidarietà
e
accoglienza,
prevalgono
sugli
egoismi
e
sulle
differenze
più
costruite
che
fondate.
Mi
si
potrebbe
domandare:
perché,
dopo
cinque
anni
in
cui
sei
stato
bene,
e
hai
lavorato
in
un
clima
di
accoglienza
e di
solidarietà,
te
ne
sei
andato?
La
risposta
è
quasi
telegrafica:
se
vuoi
bene
a un
popolo,
lo
devi
aiutare
ma
non
ti
devi
sostituire
a
loro,
soprattutto
quando
possono
fare
da
soli.
Bastò
una
cena
settembrina,
a
casa
di
un
amico
neo
ingegnere
tunisino
laureato
in
Francia,
una
cena
a
quattro,
lui
e la
moglie
francese,
io
con
mia
moglie
Lucia,
direttrice
del
“Bureau
d’Urbanisme
de
Sousse”.
Erano
entrambi
disoccupati,
cercavano
lavoro
senza
trovarlo,
e
noi
non
potevamo
aiutarli.
Bastò
uno
sguardo
fra
noi,
e la
decisione
di
tornare
in
Italia
fu
naturale.
Non
fummo
immediatamente
sostituiti
da
personale
tunisino,
al
nostro
posto
si
avvicendarono
altri
italiani,
ma
di
lì a
poco
il
Bureau
fu
diretto
da
un
Tunisino.
Andarcene
fu
un
atto
d’amore
per
quella
gente,
per
quel
Paese.
Ma
torniamo
all’oggi,
anzi
al
domani
della
Tunisia,
dopo
la
cacciata
di
Zine
El-Abidine
Ben
Ali
e la
caduta
del
suo
regime
corrotto,
autoritario
e
antidemocratico.
Cosa
c’è
dietro
l’angolo?
Si è
parlato
di
un
possibile
“Rinascimento
di
Tunisi”,
anche
se
di
un
rinascimento
difficile.
Un
rinascimento
legato
anche
a
Facebook
e
alla
straordinaria
azione
informativa,
e di
contro
informazione,
resasi
possibile
attraverso
la
rete.
Lo
spero,
glielo
auguro,
se
lo
meritano.
Se
lo
sono
guadagnato
con
almeno
220
morti,
e
anche
di
più,
il
prezzo
della
democrazia
e
della
libertà.
Non
lo
sapremo
mai
se
le
vittime
sono
state
di
più
di
220.
Soprattutto
non
ce
lo
dirà
il
Ministero
degli
Interni,
quello
che
era
chiamato
il
“Ministero
del
Terrorismo”.
Staremo
a
vedere
con
la
doverosa,
e
fiduciosa,
attenzione.
Si
sente
parlare
di
giovani,
cui
il
regime
agonizzante
chiuse
scuole
e
università,
bloccando
l’istruzione
fino
a
nuovo
ordine,
che
vorrebbero
una
società
basata
su
valori
islamici,
ma
senza
dittatura,
in
altre
parole
un
“modello
turco”.
E
perché
no,
visto
i
passi
avanti
che
i
turchi
stanno
compiendo
sulla
via
dell’Europa,
e ai
quali
sono
stati
risparmiati
i
guai
e il
rischio
bancarotta
che
hanno
fatto
soffrire
i
vicini
e
storici
rivali
greci?
Il
partito
del
presidente
è
finito,
e la
stessa
sorte
spetta
al
sindacato
di
regime.
La
tv
di
Stato
“T7”
– il
cui
nome
necessariamente
rievocava
la
“rivoluzione”
di
Ben
Ali
– ha
già
perso
l’imbarazzante
‘7’
chiamandosi
“National
One”
e
assieme
alla
privata
“Hannibal
Tv”,
sono
molto
più
libere
di
prima,
e
cercano
di
fare
vera
informazione,
fuori
dell’ingessata
ufficialità
cui
erano
abituate,
mostrando
immagini
sulla
vera
Tunisia,
quella
che
la
gente
soffre
ogni
giorno,
che
prima
non
avrebbero
mai
potuto
mostrare.
Nelle
strade,
nelle
scuole
e
nelle
università,
e
nei
tanti
caffè
di
Tunisi,
si
respira
un’aria
decisamente
più
libera,
anche
se
qualcuno
teme
che
gli
islamisti
più
radicali
possano
impossessarsi
di
una
libertà
conquistata
dal
basso
e
non
concessa
dall’alto.
Una
libertà
ancora
tutta
da
costruire,
ma
ben
incamminata.
Un
popolo
vaccinato
contro
gli
estremismi,
con
un’impronta
laica
che
è
quella
che
dall’indipendenza
in
poi
non
è
mai
stata
messa
in
discussione.
E
cinquantacinque
anni
non
sono
certamente
pochi.