N. 116 - Agosto 2017
(CXLVII)
Il
restauro
in
italia
principi
di
riferimento
e prassi
operativa
di
Maria
Laura
Corradetti
In Italia, gli interventi di restauro si ispirano alla lezione di Cesare Brandi che nel 1939 ha fondato l’Istituto Centrale del Restauro (ICR). I suoi principi sono poi stati di riferimento per la Carta di Restauro 1972, l’unica con valore normativo, con la quale si è inteso tradurre la sua teoria in indicazioni operative.
Senza
addentrarsi
eccessivamente
nell’argomento,
si
può
sintetizzare
dicendo
che
i
punti
cardine
del
suo
insegnamento
sono
3:
si
restaura
solo
la
materia
di
cui
è
fatta
l’opera
d’arte
/il
rispetto
dell’istanza
storica/il
rispetto
dell’istanza
artistica.
A
fronte
di
questi
3
paradigmi
il
restauro,
nel
rispetto
della
fisicità
del
manufatto
e
nell’intento
di
non
alterare
il
suo
essere
un
documento
storico
e
artistico,
deve
possedere
una
serie
di
requisiti
che
ne
hanno
sancito
il
carattere.
Infatti
la
prassi
operativa
conseguente
a
tale
approccio
critico
si
rifà
ai
criteri
del
minimo
intervento,
della
distinguibilità
a
vista,
della
reversibilità
(o
ritrattabilità),
della
compatibilità
fisico-chimica
delle
metodologie
e
dei
materiali
scelti
con
la
natura
materica
del
bene
culturale
e
con
il
suo
stato
di
conservazione
proprio,
nel
rispetto
dell’istanza
storica
e di
quella
estetica,
dove
quest’ultima
non
è
fine
a se
stessa,
ma
in
rapporto
con
la
prima
e
funzionale
alla
leggibilità
dell’opera
d’arte.
Nel
tempo
questa
sorta
di
vademecum
è
stato
poi
perfezionato
affiancando
alla
parola
“reversibilità”
il
termine
“ritrattabilità”,
giacché
non
sempre
c’è
la
possibilità
concreta
di
rimuovere
un
prodotto
usato
in
un
precedente
restauro.
Perciò
a
fronte
di
questo
limite,
adesso
la
scelta
si
orienta
su
materiali
che
in
fase
di
invecchiamento
non
formino
sottoprodotti
nocivi
e
che
permettano
eventuali
future
azioni
conservative.
Il
riferimento
alla
riconoscibilità
del
restauro
parte
dal
proposito
di
rispettare
e
preservare
l’autenticità
dell’oggetto
nella
sua
veste
di
documento
storico
e di
manufatto
artistico.
In
altre
parole,
ciascun
restauro
sarà
calibrato
sulle
caratteristiche
materiche
e
conservative
dell’opera
d’arte
che
necessita
del
restauro,
e
sui
traguardi
che
si
desiderano
ottenere
con
quel
preciso
intervento
senza
mai,
tuttavia,
alterare
il
suo
essere
testimonianza
storico-artistica.
In
questo
senso
il
concetto
di
minimo
intervento
è
inteso
come
il
metodo
da
adottare
per
raggiungere
determinati
risultati
riducendo
il
più
possibile
l’invasività
dell’intervento
stesso,
poiché
un
restauro
è,
in
ogni
caso,
un’operazione
che
interviene
sulla
fisicità
dell’oggetto.
Non
a
caso
Giuseppe
Basile
(nel
1976
entrò
come
funzionario
storico
d’arte
all’ICR
dove
rimase
fino
al
2009.
Dal
1987
ha
diretto
il
Servizio
per
gli
interventi
sui
Beni
artistici
e
storici)
riconosceva
che
«Non
esiste,
insomma,
un
intervento
di
restauro,
per
quanto
esemplare,
che
lasci
l’opera
del
tutto
indenne:
essa
ne
esce
comunque
più
fragile
di
prima,
o
perché,
qualcosa
è
stato
sottratto
o
perché,
al
contrario,
sono
stati
immessi
dei
prodotti
con
i
quali
i
materiali
che
la
costituiscono
dovranno
stabilire
un
nuovo
equilibrio»
(Basile
G.,
Che
cos’è
il
restauro?,
Roma,
1989,
p.
61).
Trattandosi
di
principi
operativi,
questi
per
definizione
saranno
ugualmente
validi
per
qualsiasi
prodotto
artistico.
Tra
l’altro,
spesso
e
volentieri,
le
opere
sono
composite,
cioè
sono
la
risultanza
di
vari
tipi
di
materiali
diversi
anche
per
origine
(organica/inorganica).
Se
la
teoria
brandiana
è
applicabile
su
qualunque
oggetto
artistico,
a
prescindere
cioè
dalla
sua
connotazione
materica,
tuttavia
sarà
prevista
una
differenziazione
in
termini
di
procedure
e
prodotti
da
utilizzare
in
ciascun
restauro,
perché
necessariamente
questi
dovranno
essere
compatibili
con
le
caratteristiche
fisico-chimiche
dell’opera
sulla
quale
si
interviene.
Se
così
non
fosse,
il
restauro
anziché
essere
funzionale
alla
salvaguardia
dell’opera,
si
risolverebbe
in
un’azione
deleteria,
laddove
l’intervento
non
fosse
la
risposta
concreta
alle
informazioni
ottenute
dalle
indagini
conoscitive
di
quel
specifico
oggetto
artistico.
D’altronde
ciò
che
non
è
compatibile
non
può
che
rivelarsi
dannoso.
Va
da
sé
che
solamente
attraverso
uno
studio
propedeutico
sugli
aspetti
materici,
costruttivi,
storico-artistici
dell’opera
d’arte
oggetto
di
restauro
sarà
possibile
individuare
e
analizzare
correttamente
i
suoi
eventuali
problemi
conservativi
e
progettare
il
restauro,
coerentemente
e
compatibilmente
ai
risultati
che
si
possono
raggiungere
nel
rispetto
dei
3
vincoli
sopraddetti.
Stabilito
che
la
condizione
sine
qua
non
per
intraprendere
un
restauro
è
un’analisi
completa
dell’opera,
occorrerà
allora
individuare
le
cause
di
degrado
che
si
possono
classificare
tra
cause
intrinseche
e
cause
estrinseche.
Tra
le
prime
si
includono:
·
natura
chimico/fisica
delle
materie
prime
·
natura
chimico/fisica
delle
tecniche
di
realizzazione
·
luogo
e
destinazione
d’uso
mentre
le
seconde
sono:
·
naturali
ad
azione
prolungata
(includono
tutti
quei
fenomeni
naturali
ad
azione
prolungata
e/o
reiterata
nel
tempo:
umidità
-
fattori
meteorologici
e
climatici
-
agenti
biodeteriogeni
-
inquinamento
naturale).
·
naturali
ad
azione
improvvisa
(terremoti
–
alluvioni
–
incendi
–
frane
-
aggressione
animale
distinta
da
quella
dei
microrganismi
a
motivo
della
sua
occasionalità
e
della
natura
prevalentemente
fisica
del
meccanismo
di
degrado
innescato).
·
antropiche
ad
azione
diretta
(atti
vandalici
–
attentati
–
guerre
–
incuria
–
abbandono
–
modifiche
-
cambi
di
destinazione
d’uso
-
errati
interventi
di
restauro
-
turismo
culturale
di
massa).
·
antropiche
ad
azione
indiretta
(ad
es.
l’inquinamento
atmosferico,
subsidenze,
frane,
ecc.).
Inoltre
questa
casistica
può
arricchirsi
di
ulteriori
correlazioni
modificando
il
parametro
primario
e
applicando,
piuttosto,
la
distinzione
tra
cause
fisiche
(meccaniche/termoigrometriche/radiative),
biologiche
(micro
e
macrorganismi)
e
chimiche
(acqua
e
sostanze
presenti
nell’ambiente)
ottenendo
progressivamente
un
quadro
sempre
più
dettagliato
e
veritiero.
Tuttavia
non
è
così
semplice
discernere
schematicamente
la
cause
di
degrado
poiché
i
fattori
che
vi
concorrono,
che
per
comodità
esplicative
sono
convenzionalmente
suddivisi
nelle
diverse
tipologie
sopra
elencate,
possono
interagire
tra
loro
anche
in
rapporti
quantitativi
variabili
perdendo
quei
caratteri
di
autonomia
che
per
astrazione
potremmo
attribuire
loro.
Queste
classificazioni,
cioè,
hanno
un’utilità
puramente
orientativa,
in
quanto
nella
realtà
dei
fatti
i
vari
processi
degenerativi
sono
spesso
la
concomitanza
di
fenomeni
sia
chimici,
che
fisici,
che
biologici;
nel
senso
che,
per
esempio,
un
fenomeno
di
natura
biologica
può
accelerare
un
degrado
di
natura
fisica.
Effettivamente
non
è
semplice
decodificare
i
processi
di
degrado
per
gli
innumerevoli
fattori
che
interagiscono,
tra
cui,
appunto,
la
tipologia
del
manufatto.
Questa
ha
un
forte
peso
sulle
dinamiche
di
degrado
che
si
possono
attivare.
Così,
ad
esempio,
nei
dipinti
su
tavola
le
variazioni
di
temperatura
e di
umidità
relativa
(U.R.),
oltre
a
favorire
un
attacco
biologico
e
trasformazioni
chimiche,
provocano
danni
fisici
di
una
certa
entità.
L’igroscopicità
dei
loro
supporti
porterà
ad
assorbimento
e
poi
cessione
dell’umidità
con
annessa
dilatazione
e
contrazione
del
legno,
che
reiterate
nel
tempo
possono
provocare
deformazioni,
fessurazioni
e
fratture.
Questi
fenomeni
compromettono
anche
l’integrità
degli
strati
preparatori
e
della
superficie
pittorica.
I
primi,
a
base
di
colle
animali
e
(in
genere)
di
gesso,
al
mutare
della
U.R.,
subiscono
fenomeni
di
rigonfiamento
e
ritiro
che
ripetuti
portano
a
una
progressiva
perdita
di
coesione
(indebolimento
della
preparazione)
e di
adesione
(distacchi
dal
film
pittorico
e
dal
supporto).
Il
colore,
invece,
meno
sensibile
alle
escursioni
termo-igrometriche
e
fisicamente
più
rigido,
non
è in
grado
di
assecondare
i
movimenti
del
supporto
e
della
preparazione.
Il
che
porterà
a
distacco,
sollevamento
sino
a
caduta
della
pellicola
pittorica.
Nel
caso
degli
affreschi
un’eccessiva
umidità
(per
infiltrazione,
per
risalita
capillare,
ecc.)
genera
una
serie
di
effetti
riconducibili
a
fenomeni
fisici,
biologici
e
chimici
innescati
dall’acqua,
solitamente
unita
a
inquinanti
per
lo
più
atmosferici,
a
scapito
dello
strato
di
calce
e
della
superficie
pittorica
(es.
efflorescenze/infestazione
biologica/solfatazione/carbonatazione).
Gli
esempi
potrebbero
proseguire,
l’importante
è
comprendere
come
le
problematiche
conservative
siano
consequenziali
anche
alla
tipologia
dei
materiali
e
alle
modalità
di
esecuzione
dell’opera
da
restaurare.
Di
fatto,
conoscendo
le
varie
tecniche
artistiche
e il
loro
comportamento
in
determinati
contesti
ambientali,
è
possibile
prospettare,
in
linea
di
massima,
quali
interventi
vadano
progettati
per
il
recupero
delle
opere
d’arte
realizzate
con
quelle
medesime
tecniche.
Poi,
sicuramente,
vi
saranno
altri
elementi
di
disturbo,
come,
ad
esempio,
antiche
pratiche
manutentive
e di
restauro
fatte,
magari,
con
materiali
inappropriati.
Senza
entrare
troppo
nello
specifico,
alla
luce
delle
informazioni
ottenute
si
delinea
la
tipologia
operativa
del
restauro
la
cui
complessità,
poi,
non
risiede
nell’aspetto
strettamente
tecnico,
ma
nella
difficoltà
di
renderlo
riconoscibile
e
rimuovibile,
garantendo
l’autenticità
della
preesistenza
restaurata
e il
mantenimento
della
sua
unità
figurativa,
evidenziando
così
le
problematiche
insite
in
un
intervento
che
rimanga
fedele
ai
noti
parametri
dell’istanza
storica
ed
estetica.
Di
contro,
i
restauri
offrono
l’opportunità
di
approfondire
le
conoscenze
sotto
l’aspetto
stilistico
ed
esecutivo,
e,
in
generale,
sul
passato
di
un’opera.
Si
verifica,
in
sostanza,
un
incremento
di
dati
che,
affinandosi
vicendevolmente
e
talora
confutando
false
certezze,
permettono
di
rafforzare
e
razionalizzare
le
informazioni
in
nostro
possesso.
Infatti
il
restauro
è un
altro
strumento
per
lo
studio
e la
revisione
critica
arrivando
talora
a
una
nuova
interpretazione
dell’oggetto.
Oggigiorno
il
rapporto
che
si
instaura
tra
le
indagini
preliminari,
il
progetto
di
restauro
e
l’intervento
effettivo
di
restauro
non
è
necessariamente
di
tipo
consequenziale,
quando
cioè
il
restauro
succede
in
un
ipotetico
percorso
operativo
di
tipo
lineare,
ma
questo
rappresentando
spesso
una
nuova
fonte
di
conoscenza,
configura
allora
il
legame
come
un
percorso
circolare
nel
quale
può
esservi
scambio
paritetico
di
informazioni
tale
da
portare
a
tarare
diversamente
quello
che
era
il
progetto
di
restauro
iniziale.
Sia
chiaro,
poi,
che
un
intervento
di
restauro,
per
quanto
condotto
secondo
tutti
gli
accorgimenti
possibili,
non
può
garantire
una
resa
illimitata
nel
tempo.
Ogni
categoria
artistica
richiederà
precise
azioni
di
salvaguardia
circa
la
sua
fruizione.
Qualora
non
vengano
rispettate
tali
precauzioni,
inevitabilmente
si
paleseranno
fenomeni
di
degrado.
Sebbene
molto
sia
stato
fatto
con
questa
codificazione
operativa
del
restauro,
è
bene
tener
presente
che
la
tutela
del
bene
culturale
si
raggiunge
soprattutto
nella
conoscenza
di
quali
siano
i
parametri
(micro)ambientali
richiesti,
partendo
dal
presupposto
(e
dal
buon
senso)
che
la
sua
longevità
deriva
dall’impedire
l’instaurarsi
dei
processi
di
degrado
e
non
dagli
interventi
di
restauro.
L’osservazione
quasi
banale
che
prevenire
è
meglio
che
curare
condensa,
però,
in
poche
parole,
il
diktat
cui
gli
organi
preposti
alla
salvaguardia
del
patrimonio
culturale
dovrebbero
rifarsi
nella
programmazione
e
investimento
delle
risorse
messe
a
loro
disposizione.
Tra
l’altro
nel
preservare
l’ambiente,
se
fu
quello
che
produsse
e/o
accolse
quel
determinato
oggetto
artistico,
si
realizza
in
toto
il
rispetto
del
valore
artistico
e
storico
di
quel
medesimo
oggetto:
«Attaccare
un
quadro
ad
una
parete,
togliergli
o
mettergli
una
cornice;
mettere
o
levare
un
piedistallo
ad
una
statua,
toglierlo
dal
suo
posto
o
creargliene
uno
nuovo:
aprire
uno
spiazzo
o un
largo
ad
un’architettura,
addirittura
smontarlo
e
rimontarlo
altrove;
ecco
altrettante
operazioni
che
si
pongono
come
altrettanti
atti
di
restauro,
e
naturalmente
non
solo
come
atti
positivi,
anzi,
il
più
delle
volte,
decisamente
negativi,
come
quelli
contrassegnati
dallo
smontaggio
e
rimontaggio
in
altro
luogo
di
un’architettura»
(C.
Brandi
[a
cura
di
M.
Cordaro],
Il
restauro
Teoria
e
pratica
1939-1986,
Roma,
1994,
p.
79).