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N. 81 - Settembre 2014 (CXII)

La teoria dei poteri impliciti
Storie di potere - PARTE I

di Laura Ballerini

 

Ciò che muove il potere è la volontà di conservarsi ed espandersi. Per questo sono stati inventati numerosi escamotage che consentono a un’autorità di aumentare i propri poteri e allargare la sfera delle proprie competenze.

 

Spesso è capitato che un ente prendesse dei provvedimenti non previsti o interferisse in questioni che non gli spettavano per portare a termine il compito per il quale era stato istituito: “il fine giustifica i mezzi”, o, detta in maniera meno machiavellica, le teoria dei poteri impliciti.

 

La cosiddetta dottrina dei poteri impliciti riguarda la teoria generale del diritto e può venire in rilievo quando si vanno a definire le competenze (e i limiti) di un potere pubblico o privato. Ogni organo potrebbe ampliare la sfera dei propri poteri per perseguire il fine assegnatogli, con il limite che non violi divieti espressi.

 

Le sue prime applicazioni risalgono già al diritto romano, che ne vanta molti esempi, conservati anche grazie all’opera della Scuola bolognese dei glossatori. Allora come oggi, si poteva determinare una competenza non espressamente attribuita, ritenendola implicita poiché strumentale, necessaria o consequenziale al fine di esercitare poteri esplicitamente conferiti.

 

La patria natia della teoria di poteri impliciti sono gli Stati Uniti, nei quali ha avuto molto importanza ed ha un importante ruolo tutt’oggi.

 

In età moderna, infatti, la consacrazione di tale teoria avvenne con la Costituzione degli Stati Uniti d’America, in vigore dal 1789, la quale all’articolo 1, sezione 8, ultimo comma, contempla la possibilità di “Porre in essere tutte le leggi necessarie e opportune [necessary and proper] per l’esercizio dei poteri predetti”. In questo modo ogni organo dell’esecutivo dispone non solo dei poteri espressamente attribuitigli dalle norme costituzionali, ma anche di tutti i poteri necessari per l’esercizio dei poteri espressi.

 

Fu l’allora segretario del Tesoro Alexander Hamilton (1755-1804) a insistere per l’inserimento di questa disposizione, così da rendere conforme alla Costituzione l’istituzione della Banca degli Stati Uniti, gestrice degli affari federali: il pilastro centrale dell’amministrazione finanziaria di Hamilton, intorno alla quale vi furono molti scontri tra i partiti.

 

Ma se i poteri di tale clausola (che poi prese il nome di Necessary and Proper Clause) erano impliciti, allora perché inserirla? Hamilton rispondeva che la presenza espressa di questa clausola era necessaria per tutelare le azioni del governo “da coloro che volevano evadere dalla legittima autorità dell’Unione servendosi di cavilli”.

 

Il riconoscimento dei poteri impliciti venne rinsaldato dalla Corte Suprema statunitense, che con una sentenza del 1819 conferì al Governo una discrezionalità più ampia.

 

Tale sentenza riguardò il caso McCulloch v. Maryland, dove per la prima volta venne conferita all’autorità centrale la possibilità di espandersi fino anche a ridurre la sfera di azione degli Stati federati.

 

La questione era sorta poiché nel 1817 la Seconda Banca degli Stati Uniti aprì una filiale a Baltimora, nel Maryland, dove eseguiva trasferimenti, cambi di valute e tutte le azioni tipiche di una banca dell’epoca.

 

Lo Stato del Maryland, però, non riteneva costituzionalmente valida questa apertura, realizzata in modo unilaterale della Banca degli Stati Uniti nel proprio territorio e così, l’11 febbraio 1818, la sua Assemblea Generale varò un atto che imponeva una tassa a carico di tutte le banche non previste dalla legislazione.

 

L’allora direttore della filiale di Baltimora, James William McCulloch, rifiutò di pagare la tassa e trascinò lo Stato del Maryland in un contenzioso, ricorrendo alla disposizione hamiltoniana dei poteri impliciti. Il caso arrivò alla Corte Suprema, il cui giudice Marshall dichiarò all’unanimità la legittimità delle azioni del Governo.

 

La sentenza si basava su alcuni determinanti argomenti. Il giudice rifiutava l’interpretazione dello Stato del Maryland, per cui con “necessari e opportuni” si intendessero solo quei provvedimenti assolutamente essenziali allo svolgimento dei poteri espressi, ma riteneva che questa clausola dovesse ampliare, e non limitare, le competenze del Congresso. Non era necessario, quindi, che i poteri impliciti fossero enumerati, bastava fossero ricollegabili al testo costituzionale.

 

L’esito di questa sentenza ebbe importanti ripercussioni in tutta la successiva storia giuridica statunitense fino a oggi, poiché creò il precedente che sbilanciò irreversibilmente gli equilibri tra il potere statale e quello federale.

 

Allo stesso modo, in nome della dottrina dei cosiddetti Implied Powers, vennero prese numerose iniziative del Governo statunitense, tanto che lo stesso Woodrow Wilson (1856-1924), non ancora divenuto presidente, la riconobbe come il principio dinamico basilare della storia costituzionale americana.

 

Egli la riteneva una teoria possente, seduttiva, irresistibile, per la sua capacità di innalzare il potere federale al di sopra di quello degli Stati membri. Essa, infatti, ampliava la discrezionalità politica del potere legislativo nazionale, riuscendo, oltretutto, a “eludere gli ostacoli dei limiti dell’interferenza giuridica”.

 

Nell’opinione di Wilson, dunque, le autorità federali erano sempre gli ultimi, e in molti casi i soli, giudici. Gli Stati venivano esclusi dalle loro stesse prerogative, poiché solo il potere centrale poteva determinare, con autorità suprema, quali competenze spettassero ai poteri statali, caso per caso.

 

Con questa logica il lo Stato centrale statunitense ha decisamente allargato la sfera delle sue competenze: in molti casi i poteri che si arroga sono strettamente consequenziali alle clausole del testo costituzionale, ma in altrettanti serve un’argomentazione più ampia

 

Non ci si può non chiedere se questa clausola non abbia contribuito a rendere gli Stati Uniti uno Stato unitario e coeso; se la possibilità di ergersi al di sopra degli Stati non abbia contribuito a dare allo stato centrale l’immagine di una forza super partes che protegge dall’alto i suoi cittadini.

 

In una realtà federale, quindi, si potrebbe vedere questa clausola come fattore di coesione tra gli Stati che hanno scelto di affidarsi a un potere centrale, senza ignorare, ovviamente, i molti dibattitti che comunque ne conseguono.



 

 

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