La tentazione di sant’Antonio
SULL’OPERA DI FLAUBERT
di
Alessio Guglielmini
Erminiani, priscillianisti,
elcasaiti, carpocraziani, nicolaiti,
marcosiani, elvidiani, messaliani,
paterniani, arcontici, tazianiti,
valentiniani,valesiani,circoncellioni,
audiani, colliridiani, asciti,
marcioniti, cerinziani,sampseiani,
encratiti, cainiti, ebioniti,
sethiani, teodotiani, merinziani,
apollinaristi, fino ad arrivare agli
scismatici capeggiati da Ario. Gli
eretici gnosticizzanti che scappano,
a folate, dalle pagine di La
tentazione di Sant’Antonio di
Gustave Flaubert sono uno dei
numerosi indizi della
destrutturazione, della
diversificazione, della scissione
che governano, e incatenano a sé
stessa, quest’opera.
Flaubert si cimenta per almeno
venticinque anni sul testo,
liberandone tre diverse edizioni,
nel 1849, nel 1856, nel 1874,
impossibilitato a risolvere un gioco
da procrastinare all’infinito. La
Tentation, non a caso, viene
definita da Michel Foucault “un
fantastico da biblioteca”, che è
anche il titolo del suo breve saggio
in merito, riunito nella miscellanea
Scritti letterari (pp.
135-153). Leggere questo Flaubert
equivale infatti a leggere
tantissimi altri libri, tra cui i
“ferri del mestiere” citati da
Foucault, indispensabili per
padroneggiare il credo delle antiche
sette e raccapezzarsi al cospetto
dell’eterogeneità dei culti remoti e
delle fantasie leggendarie: dalle
Mémoires Ecclésiastiques di
Tillemontalle, Histoires
Prodigieuses di Boaistuau, dalla
Patrologie di Migne, alle
Religions de l’Antiquité di
Creuzer, per menzionarne alcuni.
Sotto la coltre di questi poderosi
volumi riposti con cura nel rifugio
del più erudito dei bibliofili,
giace l’avvisaglia del più solenne
dei libri, le Sacre Scritture, da
cui emerge la fenditura tra un
pantheon sovraccarico che non vuole
scomparire e la novità del verbo
cristiano che prova ad azzerare le
miriadi di sfumature che, attraverso
colori densi e sensuali, Flaubert fa
straboccare lungo le visioni del
Santo. Il lettore viene così
tempestato da quei dubbi che
Flaubert rinuncia a esorcizzare, se
non con alcune voci stoiche che
vorrebbero chetare il cervello in
fiamme dell’eremita in preda al
delirio mistico e intellettuale.
Tertulliano che ammonisce («Dopo
Gesù, la scienza è inutile»)
prova per l’appunto a vanificare
l’andirivieni delle fantasmagorie
che costellano il folto palinsesto
delle visioni di Antonio Abate. È un
tentativo destinato al fallimento,
perché alla saggezza del silenzio si
sovrappone il coro delle infinite
deviazioni dalla verità. Sembra che
sia lo stesso eremita, all’inizio
del dramma, a propiziare quell’onda
allucinatoria, leggendo proprio
dalle pagine del libro per
eccellenza: «La Bibbia si è
trasformata in libreria, la magia
delle immagini in appetito di
lettura» (Foucault, Scritti
letterari, p. 150).
Diversi sono del resto i registri e
le prospettive in cui il lettore
viene immerso fin dall’esordio. C’è
innanzitutto la descrizione della
scenografia di base, un vero prologo
teatrale che materializza la capanna
nella Tebaide, in un desolato nulla,
in cui l’eremita è assalito dai
ricordi, ancor prima che dalle
visioni, diapositive che finiscono
per confondersi. C’è poi la voce, il
monologo del Santo, che proclama la
sua miseria e la sua disgrazia. C’è
sicuramente il grosso libro da cui
Antonio recita, quella Bibbia da cui
prendono forma i convitati, le
miriadi di apparizioni che si
alternano sul palco diagnosticato
dalla ricognizione di Foucault: «Si
ha dapprima il lettore (1) – il
lettore reale che noi siamo quando
leggiamo il testo di Flaubert – e
il libro che egli ha sotto gli occhi
(1 bis); questo testo, fin dalle
prime righe (e nella Tebaide, … la
capanna dell’eremita occupa il
fondo) invita il lettore a farsi
spettatore (2) di una ribalta
di teatro in cui lo scenario è
minuziosamente indicato» (ivi,
cit. p. 142). Foucault prosegue,
giungendo a delineare sei livelli
scaturiti dal semplice piano del
lettore reale.
Che la genesi dell’opera sia rivolta
al palcoscenico, è lo stesso
Flaubert ad ammetterlo, in una
lettera ad Alfred Le Poittevin,
datata 13 maggio 1845, dopo aver
visto a Genova, presso la collezione
Balbi, un quadro attribuito a Pieter
Brueghel il Giovane, raffigurante le
tentazioni, che gli fornisce l’alibi
per un arrangiamento teatrale dei
tormenti del Santo. Per inciso, la
prima edizione della sua fatica è
dedicata proprio all’amico Le
Poittevin, morto, come si legge
nell’intestazione, a La
Neuville-Chant-d’Oisel, il 13 aprile
1848.
L’attribuzione a Brueghel il Giovane
dell’opera viene peraltro messa in
discussione da Max Friedländer, come
suggerisce Massimo Leone in
Tentazioni semiotiche: una danza
intertestuale intorno a Flaubert.
Paul Cézanne, Odilon Redon, Max
Ernst, tra i più famosi, riprendono
il tema che affascina Flaubert e
che, ben più efficacemente di
Brueghel, Hieronymus Bosch ha
esplorato nella sua prospettiva
multiforme. La tentazione di
Sant’Antonio rimane gioco forza un
topos, un luogo allettante,
benché poco rassicurante,
dell’inconscio collettivo; di tanto
in tanto, Flaubert torna ad
affacciarsi su quel mondo
fantasmagorico che, in qualche modo,
specifica uno spaccato della sua
sensibilità.
A conferma di come i luoghi della
Tentation siano innanzitutto
interiori, Flaubert sceglie di
visitare fisicamente l’Oriente
magico e mistico che ha invaso le
tavole visive del suo dramma, dopo
averne terminato la prima stesura. È
il novembre del 1849 e lo scrittore,
insieme all’amico Maxime Du Camp, si
imbarca da Marsiglia per
Alessandria. Visita Il Cairo, Luxor,
Karnak, prende appunti febbrili su
ogni dettaglio registrato dal suo
sguardo e gode appieno delle
promesse erotiche degli harem e dei
bordelli, cedendo laddove Antonio
chiaramente resiste. Si spinge
oltre, riavvicinandosi all’Europa,
attraverso il Libano (Baalbek) e la
Palestina fino a Costantinopoli e
alla Grecia.
Dall’inconscio visionario alla
realtà, è questa la genesi del suo
sant’Antonio che deve, per forza di
cose, essere prima immaginato che
testato sul campo. Accade il
contrario con la sceneggiatura di
Salammbô. Nell’aprile del 1858
Flaubert si muove verso Cartagine:
percorre l’Algeria, si sofferma a
Tunisi e Utica, dedicandosi poi per
quattro giorni alle rovine della
capitale punica. Le sue missive a
Louis Bouilhet testimoniano una
profonda immedesimazione in quei
siti che Flaubert comincia a sentire
come suoi prima di trasporli in
dramma. La documentazione libraria
che ha anticipato la stessa versione
inaugurale della Tentation,
con Salammbô si accompagna
alla ricerca di prima mano che porta
Flaubert ad accertare le
informazioni bibliografiche
precedentemente acquisite.
Ma, d’altro canto, Salammbô è
opera dal fondale storico, mentre la
Tentation sfugge
repentinamente alle normali
coordinate temporali. Il proscenio
frequentato dal Santo continua
infatti ad albergare nell’intima
percezione di Flaubert e a esigere
una sorta di esorcismo, sotto forma
di revisione e ripensamento. Nel
maggio dell’1870, nell’isolamento
della casa di Croisset, come scrive
Lanfranco Binni (La vita e le
opere, nella prefazione del
Madame Bovary edito da Garzanti,
p. XLII), Flaubert “rientra
faticosamente nell’universo mistico
dell’opera iniziata nel 1845, e si
confronta con la concezione
panteistica e faustiana,
disperatamente energica, delle prime
due redazioni”.
Sempre Binni rievoca la definizione
di Charles Baudelaire, a proposito
di quest’opera in continua
gestazione: “la stanza segreta” di
Flaubert. I due autori, nel 1857,
subiscono un processo simile con
l’accusa di oltraggio alla moralità
pubblica e religiosa e ai buoni
costumi, mossa dal procuratore
Pierre Ernest Pinard. Le opere coeve
“messe all’indice” sono
rispettivamente Madame Bovary
e I fiori del male. Flaubert,
affiancato dall’abile avvocato Jules
Sénard, ne esce illeso, mentre
Baudelaire viene condannato a pagare
un’ammenda di 300 franchi e sei
poesie della sua raccolta vengono
censurate.
Oltre a condividere le tribolazioni
in tribunale e, en passant,
l’anno di nascita (1821), Baudelaire
e Flaubert condividono anche “la
stanza segreta” di quest’ultimo, di
cui Baudelaire legge la seconda
stesura del 1856. Il poeta muore
infatti nel 1867 e non può prendere
visione della terza e ultima
versione, conclusa nel 1872 e
pubblicata nel 1874. E, tuttavia, ne
coglie l’essenza che prescinde dalle
varianti, dai ritocchi, dalle
rielaborazioni.
La tentazione di Sant’Antonio
è fuori dal tempo accertato, è una
scatola magica, un gioco sempre
attuale nell’animo di Flaubert,
tanto da far dire a Binni, già a
proposito della prima edizione, che
è l’eremita Flaubert, tramite “un
punto di vista unitario”, a tenere
insieme lo “spettacolo del mondo” su
cui lo scrittore posa il suo sguardo
erudito.
Il Diavolo, la Regina di Saba, le
allegorie medievaleggianti, i sette
vizi capitali, il discepolo
tentatore Ilarione, il serpente
Knuphis, la profetessa Massimilla e
il divo gnostico Abraxas sono solo
alcuni degli ospiti di questa camera
delle meraviglie di cui Flaubert
apre,periodicamente, i battenti,
facendo scivolare fuori la disperata
energia del suo esilio.
Proprio come il suo irriducibile
Antonio, Flaubert spezza le barriere
del suo eremitaggio attraverso le
straordinarie peregrinazioni della
psiche che, evidentemente, i suoi
viaggi fisici non riescono, del
tutto, a compensare e cauterizzare.
Riferimenti bibliografici:
Gustave Flaubert, La tentazione
di Sant’Antonio, Carbonio
Editore, Aci Castello 2023.
Michel Foucault, Scritti
letterari, Feltrinelli, Milano
2020.
Massimo Leone, Tentazioni
semiotiche: una danza intertestuale
intorno a Flaubert in ElC,
Rivista dell’Associazione Italiana
di Studi Semiotici, 2012.
Lanfranco Binni, La vita e le
opere in Gustave Flaubert,
Madame Bovary, Garzanti, Milano
1992.