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N. 40 - Aprile 2011 (LXXI)

IL TEMPIO DEL DENTE
Sulle sponde di un lago fra le montagne di Sri Lanka

di Miro Gabriele

 

In ozioso vagabondaggio facciamo il periplo del laghetto. Seguiamo il sentiero che costeggia la riva, sotto lunghe sequenze d’alberi. Le piante gettano pozze d’ombra sulla pista di terra battuta e sulla vegetazione che cresce a ridosso dell’acqua. Non c’è nessun altro in questa pace arborea.

 

Io e Marco siamo stanchi, come svuotati da quella languida debolezza che prende quando ci si ferma, dopo un viaggio forsennato ed eccitante. Camminiamo a piccoli passi, col sole che ci illumina scivolando dietro i tronchi, cerchiamo di rianimarci nella frescura del lago, dopo un giorno intero passato sul vecchio autobus, attraverso le montagne. Lievi come la brezza che ci viene incontro, i nostri pensieri si disperdono sul velo immobile dell’acqua.

 

Circondata dalle colline, Kandy si stringe intorno al tempio, qualche metro sopra di noi. Altre teorie di alberi sul lungolago, e poi ristoranti e negozietti con le verande affacciate sull’acqua. Nelle vetrine antichi libri con pagine di foglie di palma e la copertina in legno, lungo i marciapiedi opuscoli della Cina popolare dalle ingenue copertine colorate.

 

Campane di pietra bianca, edicole o reliquiari buddisti, sembrano poggiate sull’erba fra le fermate degli autobus, il ricordo senza volto dell’Illuminato sale dalla foresta che vive mescolata alla città, fino alle cime degli alberi, sulla corona di vette intorno al lago. Nel fondo, dentro l’umido anello d’ombra, ci siamo noi due, pigri viaggiatori nel nostro eterno pomeriggio.

 

Il viottolo passa davanti a un bungalow, la porta d’ingresso ha una finestrella di vetro smerigliato: Sede della Buddhist Society è scritto su una targa, ma sembra il padiglione di un orto botanico più che la sede di un’associazione. Entriamo, in una saletta deserta ci sono quattro o cinque banconi ricoperti di libri e opuscoli.

 

Libretti in lingua inglese, rilegati alla buona con cartoncino colorato, umili frammenti della sterminata filosofia buddista. Alcuni così piccoli e sottili, che il curatore della collana ha pensato bene di intitolarli Bodhi Leaves (Foglie dell’albero Bodhi): un soffio di vento potrebbe farli volare via, disperderli come foglie sull’acqua.

 

 Giriamo fra i banchi: Marco con la sua distratta curiosità, e io col mio solito, un po’ ridicolo furore libresco. Unici segnali che fluttuano in questo immobile interno sono lo scricchiolio del pavimento e un vago odore di legno aromatico. Sembra di essere in un esotico sacrario, nel santuario di un mondo vegetale, con i banani dalle foglie larghe come tovaglioli, appoggiati alle finestre, e le cime dei grandi alberi stagliate sul cielo.

 

Alzo gli occhi da una veloce rassegna di titoli e solo ora mi accorgo che qualcuno ci sta osservando. Accanto all’entrata, nascosto in un angolo d’ombra, c’è un custode o commesso, seduto immobile e in assoluto silenzio. Faccio il giro del bancone, imbarazzato da questa silenziosa presenza, gli porto cinque o sei di quei fragili, multicolori Bodhi Leaves che scelgo in fretta, quasi a caso.

 

 

Il portale che ci sta di fronte ha preziose decorazioni di un giallo dorato, le vecchie assi sono qua e là forate dai tarli e un po’ consunte dalle tante mani che le hanno toccate. Come in una scatola cinese, il tempietto è situato nel cortile del santuario: il grande edificio bianco e ocra che sovrasta Kandy.

 

È una costruzione molto semplice, un parallelepipedo con il tetto di tegole, grande come una casetta a due piani. Non ha nulla di particolare, salvo una scala di legno posta esternamente su un lato, e un poggiolo in cima, davanti all’ingresso. La reliquia, il dente del Buddha, portato fin qui dall’India nascosto nei lunghi capelli di una principessa, è custodita all’interno del sacrario, dietro questa porta chiusa.

 

Una piccola folla di devoti è cresciuta silenziosamente alle nostre spalle. Non è più possibile ridiscendere la scaletta e andar via. I fedeli si sono accodati mentre osservavamo le decorazioni ed ora, con mazzi di fiori tra le braccia, s’accalcano sul poggiolo e lungo tutta la scala fino al cortile. Ordinati e tranquilli attendono che si apra il portale. I due europei saranno i primi ad entrare, ma la cosa non sembra disturbarli più di tanto perché, oltre a premerci delicatamente sul fianco, ci concedono solo una garbata indifferenza. Rassegnati e anche un po’ emozionati non ci resta che attendere, pigiati contro il portale.

 

In India non potrebbe accadere. È molto difficile, se non quasi impossibile per persone di fede non induista, essere ammessi nei luoghi più sacri dei templi, dove si celebra il rito. A Sri Lanka è diverso.

 

E non tanto per il radicato spirito di tolleranza, uno dei cardini dell’etica buddista, quanto piuttosto per la vocazione ecumenica di questa religione, che fin dagli inizi ha privilegiato l’individuo più che il gruppo, il sentimento personale più che l’appartenenza a un’etnia o ad una nazione, e che quindi ha sempre pensato in termini universali.

 

Intanto nel cortile si fa sera. Qualcuno ha acceso le torce allineate per terra, che ora gettano bagliori lungo il porticato. C’è un suono di flauti per aria, i monaci si muovono svelti nelle tuniche rosse o arancioni, un rullare di timpani ne segue il passo. L’odore d’incenso è acuto, mescolato al profumo dei fiori dà quasi un senso di ebbrezza. La folla intorno a noi ha un fremito, guadagna alcuni centimetri verso l’ingresso, da qualche preciso segno s’è accorta che la festività sta per iniziare. Flauti e timpani suonano più forte, devono essere vicinissimi, forse ai piedi del tempietto.

 

E la porta si apre. Veniamo spinti dentro, trascinati dai fedeli ci ritroviamo nel cuore del tempio, in una luce abbagliante. Pareti e soffitto scintillano, come se fossero dotati di luce propria. Ci accorgiamo dopo qualche istante che sono completamente rivestiti di lamine d’oro, il metallo lampeggia coi suoi barbarici riflessi e crea l’effetto di un raddoppiato lume. Due zanne d’avorio vicino all’entrata disegnano un arco bianco sotto il giallo del soffitto, mazzi di fiori sono sparsi su un tavolo nella luce chiarissima. Restiamo un po’ confusi in mezzo alla stanza, mentre i fedeli fanno avanti e indietro.

 

Due monaci, accanto a un altarino, ricevono i fiori, alle loro spalle in una teca trasparente c’è la campana d’oro che contiene la reliquia. La cerimonia è semplicissima: la gente entra, offre i fiori ai monaci, ed esce da un altro portale. Ammesso così naturalmente a questo piccolo rito, voglio parteciparvi anch’io, prendo dei fiori gialli dal tavolino e mi avvicino alla campana dorata. Porgo l’offerta e gli occhi del monaco mi accolgono con simpatia.

  

 

In questa città cresciuta a ridosso del tempio, si ha l’impressione che tutta l’architettura, anche quella laica, abbia una spiccata vocazione labirintica. Dato per scontato che la struttura primaria è una costruzione quadrangolare con cortiletto interno, si nota che a tale modulo sono spesso aggiunti, internamente o esternamente, ora una stanza, ora un soppalco o un corridoio, senza alcun particolare disegno che non sia quello di sfruttare ogni angolo.

 

Questa anarchia costruttiva è ammirevole. Gli spazi si moltiplicano quasi spontaneamente, come se l’edificio stesso fosse un corpo vivente e potesse concepire germinazioni ed ampliamenti secondo le necessità.

 

Sulla passeggiata del lungolago, i locali allineati sotto gli alberi rivelano al loro interno una complicata fuga di salette, piani sfalsati, enclavi di piccole stanze. Si percorre il labirinto all’ora di pranzo, in cerca di un tavolino libero, si scendono e si salgono scalini, si oltrepassano le minuscole cucine e ci si ritrova improvvisamente su un terrazzino, sospesi sull’acqua ferma del lago.

 

Il disordinato accumularsi di stanze e stanzette spesso sconfina nelle costruzioni adiacenti: è come se una rete comune collegasse tutto l’abitato, ogni casa, ogni tempietto, e si potesse attraversare da un punto all’altro la città senza mai uscire per strada.

 

Questa architettura di interni, nata da umili esigenze e incoraggiata dalla versatilità del materiale adoperato, che è il legno, esprime tuttavia una metafora, sia pure involontaria, quella dell’ambiguità dello spazio. Lo spazio è tanto ambiguo quanto il tempo, crea illusioni, false prospettive, è capace di ripiegamenti imprevedibili. Talvolta, di fronte a una parete che sembra costituire il perimetro esterno di una abitazione, ci si accorge che il corridoio appena percorso piega a gomito e conduce a un’altra ala che non s’era notata prima. Questo dà l’illusione, un po’ vertiginosa, di accedere a un’altra dimensione e dilata indefinitamente lo spazio intorno a noi.

 

La casetta dove abitiamo non sfugge a tale condizione. Oltrepassato il tempio, Malabar street scende verso la campagna costeggiando una collina, su un lato vecchie costruzioni a due piani confinano con la foresta. Molti anni fa da queste parti ha vissuto Hermann Hesse.

 

La nostra stanza è praticamente poggiata sul tetto, come un mattoncino di una costruzione in miniatura. Per una buona metà sporge nel cortile, sostenuta da una serie di paletti piantati a palafitta. L’ingresso è una botola nel pavimento, per entrare si sale una scaletta. La foresta ci sta addosso e allunga i suoi rami estremi sopra di noi. Piccole scimmie saltano sul tetto e ci osservano dal lucernario, scorrazzano tranquille, si sporgono quasi umanamente per guardare meglio.

 

Passiamo qualche giorno a Malabar street salendo e scendendo quella scaletta, coccolati dalla padrona di casa, una vecchina silenziosa e cortese, e da uno stuolo di figlie e nipoti. Ci portano il tè fin qui sul tetto, ci fanno il bucato, siamo ospiti più che pensionanti. La notte, richiusa la botola, ci stendiamo sul letto che occupa quasi tutta la stanza. La foresta accanto a noi fruscia a lungo mossa dal vento. In cima alla casa, isolati da tutti, ci si addormenta tranquilli con l’illusione di stare a metà fra la terra e il cielo.

 

 

Buon mattino, Sunta, ai tuoi occhi catalani che scendono le scale. Le scimmie ci guardano dal tetto, dove Kandy scivola nel verde, poggiata alla collina. Siamo i primi a svegliarci, e facciamo colazione nella casa silenziosa, mentre il sole illumina le tendine.

 

Una ciocca di capelli cade sul tuo sorriso. Ti ho amato per un giorno, dietro il tè, col tintinnio di un braccialetto al piede. Un elefante passa ondeggiando in tuo onore su Malabar street.



 

 

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