[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

171 / MARZO 2022 (CCII)


attualità

LE TECNICHE DEL TATUAGGIO

SUGLI STRUMENTI DEL MESTIERE DEI TATUATORI / I

di Emanuel De Marchis

 

Una delle più antiche tecniche di tatuaggio usate dall’uomo rimanda al termine giapponese irezumi, formato dall’unione delle parole iru” (“inserire”) e sumi” (“inchiostro”). Questo è peraltro a volte sostituito dal sostantivo horimono, che esprime il concetto di “intagliare”. Tale particolare forma di tatuaggio, che fino a qualche secolo fa veniva praticata sul corpo dei criminali o dei prigionieri di guerra, per renderli riconoscibili a prima vista, ha più volte variato forma nel corso del tempo, non venendo più destinata a schiavi, briganti e guerrieri, ma a tutta la popolazione, quale arricchimento estetico del corpo, prendendo spesso spunto dai tradizionali kimono giapponesi.

 

Entrando nel vivo dell’argomento, sappiamo che nell’irezumi vi è un grande uso di ideogrammi, di simboli floreali – in primis fiori di loto e di ciliegio – e di altre figure di vario genere, dai draghi ai demoni, talvolta di natura benefica e altre volte malvagia. Per ottenere un buon risultato, il tatuatore che pratica tale antica arte giapponese, ispirata appunto alle fogge dei kimono, deve ricoprire parti molto estese del corpo, peraltro utilizzando un metodo assai doloroso d’incisione del tessuto. In compenso, lo stile di questa forma di tatuaggio non ha eguali per quel che riguarda precisione e cura dei dettagli. 

 

 

Non è cosa facile entrare nelle grazie di un maestro tatuatore del Sol Levante, ma nel caso ci si riesca, è bene sapere alcune cose importanti, prima di affidargli la nostra di pelle. Nel dettaglio, per l’irezumi i tatuatori usano bacchette, dette hari, che possono essere di legno, avorio o bambù e che hanno differenti dimensioni e colori. All’estremità di ogni bacchetta sono fissati da uno a trenta aghi, la cui disposizione complessiva richiama alla mente una lisca di pesce o un pettine. 

 

Per realizzare i contorni dei disegni si utilizzano in genere bacchette con pochi aghi, mentre per riempire le zone interne e ottenere effetti sfumati si usano strumenti che ne contengono un maggior numero. Una volta posizionata la punta della bacchetta sulla pelle, il tatuatore inizia a imprimere il tatuaggio colpendola con un martelletto, finché, colpo dopo colpo, l’inchiostro non penetra in modo soddisfacente. Il tutto, facendo affidamento a grandi dosi di pazienza: la realizzazione di un’irezumi può infatti protrarsi giorni, e in alcuni casi addirittura per mesi se non anni.

 

 

Il temerario che decida d’intraprendere questo lungo percorso tatuatorio, dovrà essere ben conscio, come accennato, che l’irezumi implica la sopportazione di un dolore non indifferente, a fronte però di una resa artistica di tutto rispetto. E a proposito di artisti, quando si parla di irezumi non si può non citare il nome di Horiyoshi III (all’anagrafe Yoshihito Nakano), tatuatore nipponico, classe 1946, considerato tra i più grandi maestri contemporanei di tale arte. Si racconta che a instradarlo verso l’irezumi (di cui apprese la difficle tecnica nel laboratorio di un altro leggendario artista giapponese, Yoshitsugu Muramatsu) fu, quand’era ancora bambino, la visione di un gangster con il corpo interamente coperto di tatuaggi, tanto che pareva avesse appunto un decoratissimo kimono incollato sulla pelle.

 

L’uso di bacchette e martello, nonostante lo sviluppo nell’ultimo secolo delle macchinette elettromeccaniche, è in auge ancora oggi – pur con il ricorso a inchiostri di nuova generazione, meglio tollerabili dalla belle e complessivamente più igienici – tra coloro che desiderano ottenere un risultato dal sapore antico. A tal fine, si utilizzano anche strumenti non di origine nipponica, come nel caso del cosiddetto “tatuaggio siberiano”, per realizzare il quale si usavano in principio bacchette ricavate da ossa animali e lische di pesce. Tra i nomadi siberiani il metallo era d’altronde raro, così come presso altre popolazioni legate alla storia del tatuaggio, su tutte quelle polinesiane. Anche per quanto riguarda gli inchiostri, le antiche popolazioni trovarono varie ingegnose soluzioni, tra cui l’utilizzo dei residui della bruciatura della resina degli alberi, mischiata con altri tipi di cenere. Prima di arrivare ai prodotti certificati di oggi, si è inoltre passati per tentativi estremamente “tossici”, come l’uso della fuliggine della gomma, ottenuta bruciando le suole delle scarpe o pneumatici. Tale escamotage, diffuso soprattutto nell’est Europa, pare servisse a ottenere un nero “perfetto”.

 

Seppure condizionato da tempi di lavorazioni più lunghi, il cosiddetto tatuaggio “a mano”, basato appunto sulle tradizioni più antiche – fatta eccezione per gli inchiostri – comporta una tipologia di ferite la cui guarigione è migliore rispetto a quella derivante dai tatuaggi con macchinetta. L’ago della bacchetta, infatti, non apre la pelle, ma la spinge all’interno, con tutto inchiostro, e così la ferita guarisce prima.

 

 

Infine, va ricordato che, quando ci si appresta a realizzare un tatuaggio a mano, bisogna creare, per ogni disegno, una serie personalizzata di aghi, ognuno rispondente a una precisa necessità lavorativa. Peraltro, la stesura di una linea rimane ovviamente “grezza” se messa a confronto con una macchinetta a bobine, ma proprio ciò rappresenta l’anima di questo tipo di tatuaggio la cui origine risale alla notte dei tempi. E chi oggi lo sceglie, lo fa proprio per creare un legame col passato, connettendo la propria storia personale alla tradizione culturale insita nell’irezumi. Tuttavia, per chi volesse una soluzione più rapida e meno dolorosa, esiste sempre la possibilità di realizzare un tatuaggio irezumi tramite le moderne macchinette. Il risultato non sarà identico, ma il richiamo alla tradizione sarà comunque ben evidente... su gran parte del corpo.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]