N. 85 - Gennaio 2015
(CXVI)
IL Teatro Nō
incontri fra Oriente e Occidente
di Paola Scollo
Riuscire
a
cogliere
la
genesi
e
gli
sviluppi
dei
teatri
dell’Asia
in
un
unico
sintetico
sguardo
d’insieme
si
configura
quale
opera
di
ampio
respiro.
Frequente
è
infatti
la
sensazione
di
trovarsi
di
fronte
a un
fitto
e
inestricabile
intreccio
di
culture,
tradizioni
e
dottrine
arcane
complesse
e
differenti.
D’altra
parte,
la
stessa
storia
dell’Asia
sfugge
a
qualsiasi
tentativo
di
schematizzazione
e di
classificazione.
Il
termine
Oriente
-
dal
verbo
latino
orior,
ovvero
sorgere
del
sole
-
dischiude
orizzonti
semantici
suggestivi,
recando
in
sé
le
nozioni
di
luce
e di
nascita.
È
sorgente
di
vita
materiale
e
spirituale,
culla
di
civiltà,
di
arte
e di
cultura.
Ma
c’è
di
più.
Orientarsi
significa
andare
alla
ricerca
del
Nord
attraverso
l’Est:
una
consapevolezza,
questa,
che
si
trova
in
tutti
i
viaggiatori
e
che
partecipa
a
numerosi
processi
di
fondazione
di
città,
templi
ed
edifici.
Nell’immaginario
collettivo
l’Oriente
è
sempre
stato
avvolto
da
un’aura
mitica,
sin
da
quando
all’epoca
delle
guerre
persiane
le
due
civiltà
greca
e
asiatica
si
incontrarono
e
scontrarono
per
la
prima
volta.
Per
i
Greci
le
popolazioni
di
lingua
non
greca
costituivano
un
universo
altro,
sconosciuto
e
barbaro,
percepito
dunque
quale
fonte
di
pericolo.
La
dicotomia
tra
Oriente
e
Occidente,
già
presente
in
Omero
e in
Erodoto,
percorre
tutta
la
letteratura
greca.
È
stato
Alessandro
Magno,
con
il
suo
sogno
di
un
impero
universale,
a
tentare
di
congiungere
i
due
mondi
mediante
la
diffusione
della
cultura
greca.
Anche
per
lui
l’Asia
costituiva
un
mondo
lontano
e
imperscrutabile.
Un
universo
che,
proprio
per
questa
alterità,
esercitava
un
fascino
irresistibile.
Concepire
l’Oriente
in
termini
di
opposizione
rispetto
all’Occidente
rappresenta
un
ostacolo
all’approfondimento
e
alla
ricerca
degli
studi
in
ambito
storico,
culturale
e
letterario.
Questi
due
universi,
per
quanto
differenti,
si
sono
influenzati
a
vicenda
nel
corso
dei
secoli.
Tra
le
espressioni
più
suggestive
del
genio
asiatico
rientra
la
dimensione
teatrale.
I
teatri
dell’Asia
costituiscono
una
categoria
culturale
e
storica
prima
ancora
che
geografica:
si
tratta,
infatti,
di
un
insieme
di
eventi
e di
esperienze
culturali
che
appartengono
alla
nostra
stessa
matrice
culturale,
con
cui
hanno
intrecciato
un
dialogo
continuo
nel
corso
dei
secoli.
Senza
tale
consapevolezza
non
è
possibile
avviare
alcun
discorso
sul
teatro
asiatico.
Una
delle
manifestazioni
più
notevoli
del
teatro
orientale
è
rappresentata
dal
teatro
Nō -
il
teatro
classico
giapponese
-
frutto
della
mescolanza
di
tradizioni
teatrali
e di
espressioni
artistiche
quali
danza,
musica,
mimo,
architettura
e
scultura.
Sorto
in
Giappone
nel
corso
del
XIV
secolo,
il
teatro
Nō è
forma
teatrale
particolarmente
complessa,
fortemente
evocativa
e
allusiva,
specchio
di
una
cultura
elevata
ed
elitaria,
in
cui
ampio
spazio
è
affidato
ai
rituali,
al
movimento,
al
significato
dei
costumi
e
delle
maschere.
Una
espressione
artistica
profondamente
legata
alla
tradizione,
particolarmente
suggestiva
e di
difficile
comprensione,
soprattutto
dal
punto
di
vista
dello
spettatore
occidentale.
La
sua
volgarizzazione
è
rappresentata
dal
kabuki.
Alle
origini
il
teatro
Nō
costituiva
parte
integrante,
insieme
al
kyogen,
del
Sarugaku,
spettacolo
di
danze,
mimi
e
giochi
di
equilibrismo.
Occorre
comunque
precisare
che,
mentre
il
Nō
aveva
il
proprio
epicentro
nella
danza
e
nel
canto,
il
kyogen,
che
raggiunse
l’acme
nel
XIV
secolo
conquistando
lo
status
di
forma
d’arte
autonoma,
conferiva
maggiore
rilievo
ai
dialoghi
e
all’improvvisazione
sulla
base
di
canovacci
prestabiliti.
Inoltre,
mentre
protagonisti
del
Nō
erano
prevalentemente
esseri
soprannaturali
-
divinità
e
spiriti
- o
personaggi
della
storia
e
del
mito,
quelli
del
kyogen
erano
persone
comuni.
A
partire
dal
XVI
secolo
i
due
generi
hanno
intrapreso
percorsi
differenti.
Mentre
il
Nō
veniva
interpretato
da
attori
in
maschera
a
partire
da
testi
scritti,
il
kyogen
non
tradì
la
sua
natura
di
forma
teatrale
improvvisata.
Il
passaggio
dal
Sarugaku
al
Nō è
da
attribuire
agli
attori
Kan’ami
e al
figlio
Zeam,
cui
va
riconosciuto
il
merito
di
aver
introdotto
elementi
di
musica
e
danza
direttamente
ricavati
dal
teatro
popolare,
il
ku-se-mai.
Un
successo
ottenuto
anche
grazie
al
favore
accordato
dallo
shogun
Ashikaga
Yoshimitsu
nella
seconda
metà
XIV
secolo,
che
incentivò
la
formazione
degli
attori.
Gli
autori
principali
del
teatro
Nō
sono
stati
Kan’ami
Kiyotsugu,
il
figlio
Zeami
Motokiyo
e il
nipote
Motomasa
Juro,
la
cosiddetta
Triade
della
scuola
Kanze.
Durante
il
periodo
Muromachi
furono
proprio
Kan’ami
e
Zeami
a
conferire
al
teatro
Nō
l’aspetto
che
custodisce
ancora
oggi.
Echi
di
tale
espressione
artistica
sono
ravvisabili
in
altre
due
forme
teatrali,
il
kabuki
e il
Butoh.
Il
teatro
Nō è
sopravvissuto
alla
rivoluzione
Meiji,
epoca
in
cui
ha
riacquistato
parte
dell’antico
prestigio
grazie
al
contributo
di
aristocratici
colti.
Nel
corso
del
XX
secolo
ha
dovuto
affrontare
notevoli
difficoltà,
che
ne
hanno
seriamente
messo
in
discussione
l’esistenza.
Attualmente
sopravvive
grazie
a un
ristretto
pubblico
di
affezionati.
Dei
circa
mille
spettacoli
portati
in
scena
tra
XIV
e XV
secolo,
duecento
continuano
a
costituire
parte
integrante
del
repertorio
moderno.
Ognuno
di
questi
spettacoli
è
corredato
di
libretti
che
illustrano
le
battute
o le
pose
dell’attore
mediante
piccole
illustrazioni.
Le
scuole
attualmente
esistenti
sono
la
Kanze,
la
Hosho,
la
Komparu,
la
Kita
e la
Kongo,
ciascuna
delle
quali
si
presenta
come
una
vera
e
propria
società
chiusa
verso
l’esterno,
arroccata
all’interno
delle
proprie
tradizioni,
con
al
vertice
una
famiglia
nota
con
il
nome
di
Soh-ke.
Con
ogni
probabilità
la
più
antica
rappresentazione
Nō è
stata
l’Okina/Kamiuta,
una
commistione
di
danza
e
rituali
shintoisti.
Alle
origini
gli
attori
il
teatro
Nō
aveva
luogo
all’aperto,
per
cui
le
compagnie
teatrali
itineranti
proponevano
i
loro
spettacoli
in
differenti
città,
soprattutto
in
occasione
di
festività
religiose.
Di
tale
elemento
originario
ancora
oggi
la
scena
custodisce
memoria,
continuando
a
distinguersi
per
l’essenzialità
dei
tratti.
La
scena,
infatti,
prende
vita
su
un
palco
di
Hinoki,
cipresso
giapponese.
Il
palcoscenico
è
vuoto,
fatta
eccezione
per
il
Kagami-ita,
un
dipinto
raffigurante
un
pino
su
un
pannello
di
legno
sul
fondo
del
palco.
Lo
spazio
scenico
è
idealmente
considerato
il
punto
di
incontro
tra
sfera
umana
e
sfera
divina.
Il
tetto
lo
delimita
quale
spazio
sacro,
mentre
i
pilastri
che
fungono
da
sostegno
sono
ritenuti
il
tramite
tra
il
mondo
umano
e
quello
sovrannaturale.
La
sezione
centrale
è
collegata
alla
camera
dello
specchio,
definita
kagami
no
ma,
mediante
un
corridoio
detto
Hashigakari,
una
passerella
a
sinistra
del
palcoscenico
che
garantisce
l’accesso
agli
attori
e
che
a
sua
volta
confluisce
nella
kagami
no
ma,
da
occidente.
Una
soluzione,
questa,
che
è
stata
riproposta
anche
nel
Kabuki,
laddove
viene
definita
Hanamichi,
ponte
dei
fiori.
Tale
ponte
potrebbe
essere
immaginato
come
il
trait
d’union
tra
la
nostra
realtà
e
l’altro
mondo,
rappresentato
dalla
camera
dello
specchio.
A
occidente
si
troverebbe
infatti
il
paradiso
terrestre
della
Terra
Pura
Buddhista.
I
testi
sono
composti
in
modo
tale
da
affidare
allo
spettatore
assoluta
libertà
interpretativa.
Tale
effetto
viene
raggiunto
anche
grazie
all’elevato
numero
di
omofoni
che
la
lingua
giapponese
può
vantare.
Fonte
inesauribile
di
ispirazione
per
il
repertorio
del
Nō è
stata
l’Heike
monogatari
(Il
racconto
degli
Heike),
racconto
di
età
medievale
relativo
alla
parabola
del
clan
Taira,
cantata
alle
origini
dai
monaci
ciechi
con
l’accompagnamento
del
biwa,
e il
Genji
Monogatari
dell’XI
secolo,
considerato
talvolta
come
il
primo
romanzo
del
mondo.
Ma
gli
autori
hanno
tratto
ispirazione
anche
dai
classici
del
periodo
Nara
e
del
periodo
Heian,
oltre
che
da
fonti
cinesi.
La
trama
prevede
uno
scontro
di
forze
tra
due
principi
assoluti,
l’attore
principale,
lo
shite,
che
rappresenta
il
dio,
e il
secondo
attore,
waki,
che
mediante
i
suoi
interrogativi
innesca
l’azione.
Il
racconto
introduttivo
è in
genere
funzionale
allo
svolgimento
della
danza.
Nella
rappresentazione
più
comune
è
prevista
la
presenza
sulla
scena
di
tutte
le
tipologie
di
attori
con
una
durata
compresa
tra
i 30
e i
120
minuti.
Complessivamente
il
repertorio
del
teatro
No
può
vantare
circa
250
rappresentazioni,
organizzate
in
cinque
categorie
a
partire
dal
nucleo
tematico:
1.
Sulle
divinità;
2.
Sui
guerrieri;
3.
Sulle
donne;
4.
Varie;
5.
Sui
demoni.
I
movimenti
degli
attori
sono
ridotti
all’essenziale
con
impercettibili
movimenti
del
capo
e
del
corpo
cui
si
legano
specifici
significati.
Tale
fissità
si
manifesta
anche
nei
ruoli
-
nel
complesso
tre
-
Shite,
Waki
(comprimario),
Kyogen
e
Hayashi.
La
preziosità
dei
costumi
di
broccato
di
seta,
la
perfezione
dei
movimenti
e il
ritmo
incalzante
delle
musiche
rappresentano
veri
e
propri
punti
di
forza,
capaci
di
affascinare
e di
suscitare
interesse
da
parte
del
mondo
occidentale
nei
confronti
delle
culture
teatrali
asiatiche.
Ulteriori
motivi
di
fascino
sono
le
maschere
in
legno,
che
consentono
di
mutare
l’espressione
del
volto
mediante
un
caratteristico
gioco
di
luci
e
ombre,
e i
costumi,
veri
e
propri
capolavori
artigianali
tramandati
gelosamente
dalle
cinque
famiglie
di
attori.
Ogni
attore
principale
-
Shite
- fa
uso
di
maschere
che
tendono
a
celare
qualsiasi
espressione
mimica
facciale.
L’espressività
può
comunque
essere
raggiunta
grazie
alle
particolari
caratteristiche
della
maschera,
che
consentono
di
cogliere
i
mutamenti
espressivi
sfruttando
i
giochi
di
luce
e
ombra
dati
dall’orientamento
e
dalla
disposizione
della
luce.
Di
qui
il
ruolo
di
indiscutibile
valore
esercitato
dalla
capacità
dell’attore
di
saper
creare,
mediante
l’uso
sapiente
della
maschera,
differenti
sensazioni
e
sentimenti,
semplicemente
attraverso
la
posizione
della
testa
e
dell’illuminazione.
Gli
occhi
sono
quasi
del
tutto
coperti,
per
cui
gli
attori
hanno
a
disposizione
una
visuale
molto
ridotta.
Di
qui
la
necessità
di
punti
fissi
e di
percorsi
determinati
che
garantiscano
l’orientamento.
A
ciascuna
maschera
è
poi
associato
un
nome.
La
maggior
parte
delle
maschere
Nō
riproduce
donne
ed
esseri
non
umani
quali
divinità,
demoni
o
animali.
Limitate
invece
le
rappresentazioni
di
ragazzi
e
vecchi.
Gli
attori
privi
di
maschera
interpretano
quasi
sempre
il
ruolo
di
uomini
adulti
di
venti,
trenta
o
quarant’anni.
Anche
l’attore
comprimario
waki
non
indossa
la
maschera.
Alla
maschera
sono
connessi
profondi
significati
simbolici.
Punto
di
incontro
tra
spatium
mythicum
e
spatium
historicum,
essa
possiede
una
funzione
evocatrice
dei
morti
sulla
terra.
Indossando
idealmente
la
maschera
del
defunto,
l’attore
ne
incarna
lo
spirito.
Di
qui
una
vera
e
propria
venerazione
della
maschera
negli
istanti
precedenti
alla
messa
in
scena
dello
spettacolo.
In
tal
modo,
infatti,
ogni
attore
crede
di
identificarsi
nel
migliore
dei
modi
nel
personaggio
rappresentato.
Alle
origini
era
diffusa
la
convinzione
che
le
maschere
fossero
delle
vere
e
proprie
divinità.
Tale
interpretazione
si
pone
perfettamente
in
linea
con
la
visione
religiosa
di
stampo
scintoista
che
considera
il
teatro
Nō
il
mezzo
mediante
il
quale
le
divinità
si
manifestano
sulla
terra.
Mediante
l’uso
delle
maschere
e
dei
costumi
di
scena
la
divinità
o
l’avo
destinatario
del
rituale
assumono
le
sembianze
dello
sciamano.
Ogni
gesto
ha
una
funzione
preparatoria
rispetto
all’ingresso
del
Dio,
che
si
propaga
lungo
un
clima
ascendente
in
cui
domina
il
pathos,
la
partecipazione
emotiva
agli
avvenimenti
storici
e
mitologici
del
Paese,
con
conseguente
immedesimazione
dello
spettatore
con
la
divinità,
in
comunione
con
l’uomo
e
con
le
cose
terrene.
Gli
elementi
costitutivi
della
musica
del
Nō
sono
cinque:
utai,
il
canto;
fue,
il
flauto
chiamato
nōkan;
kotsuzumi,
il
tamburo
da
spalla;
ōtsuzumi,
il
tamburo
da
anca
detto
anche
ōkawa;
taiko,
strumento
a
percussione.
Questi
ultimi
quattro
strumenti
formano
l’orchestra
denominata
hayashi,
a
volte
denominata
Nō
bayashi
al
fine
di
distinguerla
dall’hayashi
del
kabuki,
oppure
shi
byoshi
a
quattro
percussioni,
con
il
battere
dei
piedi
degli
attori
sul
palco
al
di
sotto
del
quale
si
trovano
anfore
risonanti.
Nel
teatro
Nō
il
termine
utai
indica
sia
il
canto
vero
e
proprio
sia
il
poema,
ovvero
il
testo.
La
voce
può
essere
sia
in
falsetto,
uragoe,
sia
naturale,
jigoe.
Caratteristica
della
voce
del
teatro
Nō è
il
timbro
sporco,
effetto
di
una
respirazione
che
consente
di
produrre
il
suono
del
diaframma
fino
alla
cassa
risonante
della
gola,
acquisendo
differenti
accenti
espressione
di
differenti
stati
d’animo.
Ad
esempio,
la
voce
orizzontale
ō
viene
associata
alla
forza
e
alla
fermezza,
quella
verticale
shū
alla
gentilezza,
shūgen
alla
felicità.
Il
testo
dell’utai
riflette
un
linguaggio
arcaico
dell’epoca
Muromachi,
mentre
la
prosa
propriamente
detta
- di
solito
definita
kotoba
-
non
ha
un
andamento
ritmico
o
melodico,
avendo
come
unico
fine
la
recitazione.
Le
parti
cantate
non
presentano
notevoli
cambiamenti
tonali,
fatta
eccezione
per
l’accentuazione
e il
rallentamento
dell’andamento
ritmico
con
una
variazione
dell’intensità
e
con
uno
sforzo
nella
pronuncia
delle
singole
sillabe
per
un
effetto
di
note
e
salti
discordanti
che
spezzano
la
monotonia.
Il
flauto
ha
una
caratteristica
unica,
il
nodo,
gola,
vicino
alla
testa,
kashira,
in
cui
è
inserita
una
lastra
di
cera
d’api.
Il
kotsuzumi
è un
piccolo
strumento
a
percussione
dalla
caratteristica
forma
a
clessidra
e
con
due
teste
ricoperte
da
pelli,
kawa,
affinché
la
parte
esterna
sia
vibrante.
Il
movimento
delle
corde,
shirabe,
consente
di
variare
il
tono
dello
strumento.
Il
tamburo
da
anca,
ōtsuzumi,
realizzato
con
pelle
di
bue
e
legno,
produce
un
suono
alto
e
deciso,
senza
variazioni.
Le
corde
non
hanno
valore
funzionale
ma
puramente
ornamentale.
Il
taiko
dalla
caratteristica
forma
allungata
è
sospeso
da
una
struttura
in
legno.
Data
l’importanza
della
dimensione
musicale,
in
molti
considerano
il
Nō
una
forma
di
opera.
A
ben
vedere,
tuttavia,
il
canto
si
avvale
di
una
scala
tonale
limitata
con
pochi
passaggi
ripetitivi,
povero
di
espressioni
ma
ricco
di
allusioni.
La
musica
Nō è
una
mimesi
di
rituali
sciamanici
finalizzati
a
esortare
gli
dèi
a
manifestarsi.
Il
suono
incalzante
dei
tamburi
contribuisce
alla
trance,
mentre
il
flauto
serve
a
riprodurre
la
discesa
degli
spiriti.
La
dimensione
musicale
attraversa
tutto
il
teatro
Nō,
ponendosi
quasi
legge
universale
di
ritmo
di
vita,
di
impostazione
della
propria
forma
mentis,
del
proprio
universo
interiore
e
modo
di
pensare.
Non
casualmente
è
stato
definito
«un’invocazione
ed
un
requiem
il
cui
ritmo
richiama
i
fantasmi
che
danzano
una
danza
di
preghiera
per
il
loro
riposo…
interpretata
secondo
la
filosofia
del
Ma
ed
eseguita
seguendo
il
principio
del
jo-ha-kyū».
In
queste
parole
è
racchiuso
il
valore
profondo
del
teatro
Nō,
ancora
oggi
considerato
la
più
rara
e
nobile
espressione
dell’arte
giapponese.
Le
varie
rappresentazioni,
in
quanto
desiderio
di
ricercatezza
di
bellezza
in
senso
assoluto,
dovrebbero
infatti
contribuire
al
raggiungimento
di
un
duplice
ideale
estetico,
quello
dello
spirito
profondo
e
sottile,
detto
Yugen,
e
della
novità,
Hana.
Un
valore
morale,
edificante
e
catartico
che,
a
ben
vedere,
caratterizza
anche
il
teatro
occidentale
sin
dalle
origini.
Sul
filo
di
tale
ragionamento,
l’attore
verrebbe
a
configurarsi
quale
mezzo
per
suscitare
nello
spettatore
passioni
e
stati
d’animo
attraverso
cui
purificarsi
e
ritrovare
se
stesso.
Siamo
molto
vicini
alle
posizioni
di
Aristotele
nella
poetica.
Nella
dimensione
estetica
l’uomo
può
sentirsi
finalmente
libero
di
respirare
il
brulichio
della
vita
che
è
all’origine
della
vita.