arte
RIPERCORRENDO LA STORIA DEL
TATUAGGIO
TRA CULTURA ED ESTETICA / II
di Emanuel De Marchis
Parlando delle tecniche per eseguire i
tatuaggi, le pratiche in uso sono
solitamente due: con le bacchette,
secondo la tradizione più antica, o con
le macchinette elettriche. Rientra nel
primo caso la tecnica tuttora diffusa in
area polinesiana, dove, come abbiamo
visto, ha avuto origine la stessa parola
“tatuaggio”, rimandante al concetto di
“battere”, “marchiare”.
Nello specifico, la tecnica in questione
prevede l’utilizzo di due attrezzi: il
primo, ricavato da ossa o conchiglie,
somiglia a un pettine, ha accorpati vari
aghi (da tre a venti aghi) ed è fissato
a un’impugnatura di legno. Il secondo
consiste invece in un semplice
bastoncino, utilizzato per picchiettare
il pettine suddetto, onde scalfire la
cute con i vari aghi impregnati
d’inchiostro. Nei tagli prodotti sulla
pelle viene quindi inserito ulteriore
inchiostro, spesso ottenuto dalla cenere
di piante mescolata con acqua e olio).
In precedenza, bisogna ovviamente aver
tracciato il disegno da riprodurre, e
per far ciò si usa un bastoncino
carbonizzato, con cui si tracciano
appunto le varie linee che saranno poi
seguite dal pettine.
Il disegno impresso sulla pelle viene di
volta in volta ribattuto con un bastone
e con le mani, per far meglio penetrare
l’inchiostro. Finita l’incisione, la
pelle viene trattata con succo di banana
o di albero del sandalo e gentilmente
accarezzata con foglie e spugne marine,
per lenire l’irritazione. L’ultima fase
di ogni tatuaggio, ieri come oggi, è
infatti la “cura”. Solo con le opportune
cure, d’altronde, si può mantenere vivo
il disegno sottocutaneo creato.
.
Realizzazione di un tatuaggio con la
tecnica polinesiana delle bacchette
Per quanto riguarda i materiali, se
nella tradizione polinesiana gli
inchiostri sono ricavati principalmente
da resine e ceneri, gli aghi venivano
invece un tempo realizzati con ossa
animali e lische di pesci. In epoche
recenti, si è quindi passato all’uso di
aghi metallici e di colori industriali a
tossicità controllata.
A proposito di elementi tossici: in
passato, per ottenere un inchiostro ben
denso, si estraeva la fuliggine dalla
gomma, bruciando le suole delle scarpe,
e nelle carceri, fino alla prima metà
del novecento, i detenuti usavano
bruciare gli scarti degli pneumatici
dismessi dei mezzi di trasporto della
polizia penitenziaria o di macchinari
agricoli.
Nel complesso, la realizzazione di un
tatuaggio fatto a mano è più lunga e
dolorosa di uno eseguito con una
macchinetta elettrica (per ogni disegno
si crea una serie apposita di aghi,
ognuno corrispondente a determinate
necessità), ma in compenso le ferite
guariscono prima. In breve, ci vuole di
più a farlo, ma meno a curarlo rispetto
a quelli disegnati con le macchinette di
nuova generazione. Peraltro, la
definizione di un tatuaggio fatto con le
bacchette risulta più grezza di quella
ottenuta con una macchinetta, in quanto
le linee appaiono più spesse. Nondimeno,
tale lavorazione rappresenta per molti
lo spirito autentico del tatuaggio.
.
Particolare degli strumenti di lavoro
della tradizione polinesiana
Tornando all’elemento ritualistico dei
tatuaggi polinesiani, sappiamo che essi
rappresentavano storicamente lo stato
sociale di chi li sfoggia. Un tempo,
quelli più articolati erano per esempio
priorità dei capi e delle loro famiglie,
mentre oggi ci si tatua, in Polinesia
come altrove, per un numero disparato di
motivi, rispondenti a esigenze estetiche
e di affermazione artistica del proprio
io. Ogni amante dei tatuaggi non può
però non apprezzare la loro origine
ritualistica e i rudimentali mezzi con
cui in passato – e, ribadiamolo,
talvolta ancora oggi – essi venivano
realizzati. |