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N. 3 - Marzo 2008 (XXXIV)

TARQUINIA. LA TOMBA DELLA CACCIA E DELLA PESCA

ANALISI DESCRITTIVA - PARTE I

di Antonio Montesanti

 

Nella storia dell’arte o dell’archeologia, la fortuna di uno scopritore ha dato a tutto il mondo la capacità di potersi rendere conto dell’importanza di alcune pietre miliari all’interno di un percorso cronologico.

 

Queste pietre hanno la capacità di definire un punto fermo nel percorso storico, artistico o archeologico che sia e allo stesso tempo rappresentano inizio e fine di un epoca e primariamente divengono al tempo stesso innovazione artistica, o tecnologica, ed oggetto mirabile.

 

Non è un momento qualunque (e mai dovrebbe esserlo!) nella storia etrusca della città di Tarquinia. Alla fine del VI sec. a.C. la “nazione” etrusca è forse al massimo del suo splendore, e come in tutti quei momenti storici in cui viene toccato l’apice, si è già insinuato al suo interno il germe di una lentissima decadenza.

 

Stanno accadendo, in luoghi lontani dalle rive italiche degli avvenimenti che sembrano non avere particolare rilevanza storica e che in realtà sono di fondamentale importanza, non per la situazione geo-politica o territoriale. L’influenza culturale che deriverà dall’avanzare dell’Impero Persiano in Asia Minore è destinata a lasciare una cicatrice profonda all’interno della cultura occidentale.

 

L’invasione persiana dell’Asia Minore

 

Nel 546 a.C., Ciro il Grande, fondatore ed unificatore dell’immenso Impero Persiano, raggiunge le coste occidentali dell’attuale Turchia dopo aver sconfitto ed ucciso il re che fino ad allora deteneva solo un protettorato formale sulle grandi città greche che si affacciavano sull’Egeo. Questi territori vengono conglobati all’interno dello sterminato impero achemenide che in pochi anni inizia ad attuare una politica ben diversa dal precedente sovrano d’Anatolia: vengono sostituiti i reggimi oligarchici cittadini e delle isole di fronte alla costa con personaggi che assumeranno il nome di tiranni, vengono limitate le realtà politiche ufficiosamente indipendenti nell’azione e soprattutto nel commercio, oltre, ovviamente a limitazioni ben peggiori per i Greci; la libertà di parola e di pensiero in modo particolare vengono limitate e in ultimo le opulente città vengono “caricate” con aggravi fiscali ben più pressanti dei precedenti.

 

Passeranno quasi 50 anni (499 a.C.) prima che le colonie ioniche d’Asia Minore inizino un moto di rivolta contando sull’appoggio ellenico d’Europa. In tutto questo tempo, così come erano abituati a fare i Greci quando le cose non andavano loro a genio, iniziarono una lenta ma continua diaspora che li portò ad occidente. Il più lontano possibile dai loro invasori.

 

Le conseguenze, in realtà, di questo esodo forzato, o seconda colonizzazione d’Occidente, furono molteplici, ben poco politiche ma estremamente importanti sotto ambiti filosofici, istituzionali e artistici.

 

Le uniche conseguenze politiche saranno quelle indirette.

 

L’arrivo di una ventata di ‘ionismo’ conducono il Suditalia a divenire il primo baluardo di questa ‘pacifica invasione’: gli esuli iniziarono ad arrivare poco alla volta portando con loro le proprie conoscenze e il proprio pensiero. La cultura ionica, poi ereditata dopo la caduta di Mileto dalla stessa Atene, è pervasa nel momento dell’invasione persiana da una serie di commistioni tecnico-scientifico-filosofiche che rappresenteranno i pilastri della filosofia greca nei secoli a venire. Le influenze caldee ed egizie sono fin troppo evidenti in ogni aspetto del pensiero umano, benché filtrate dal sobrio gusto ellenico.

 

L’arrivo di Pitagora a Crotone, la caduta di una Sibari orfana della gemella Mileto, le fondazioni ionie nel bacino mediterraneo di Elea e Massalia, scaturite dalla battaglia del Mare Sardo tra Etruschi e Ioni, sono alcune delle conseguenze più importanti dell’ondata asiatica.

 

In particolare la Battaglia del Mare Sardo rappresenterà per il popolo etrusco un punto di svolta unanimemente riconosciuto da tutti gli studiosi: gli Etruschi perdono definitivamente il controllo dell’intero bacino tirrenico, da loro detenuto, che viene arginato al solo Tirreno centrale.

 

Tarquinia è una delle città che fanno parte della dodecapoli tirrenica. Dodici città stato formavano la confederazione etrusca e su queste i nomi delle città costiere risuonavano sulle altre. È un momento di estremo sviluppo economico in cui le città a mezzacosta di Cerveteri e Tarquinia sfruttano al meglio gli scali commerciali che le rendono delle potenze marinare formidabili. La stessa città eponima del fondatore della stirpe etrusca è la stessa che ora domina indirettamente anche su Roma con la dinastia che porta il suo nome: i Tarquinii.

La sua potenza, e quella della sua gemelle Cere, si stava accrescendo in maniera smisurata, ambedue hanno lungo la costa uno scalo, ambedue rinsaldano la loro fonte di ricchezza, il mare con due grandi centri marittimi: Pirgi e Gravisca.

 

L’emporio di Gravisca, viene fondato agli albori del VII sec. domina il cuore del Tirreno, rappresenta per la realtà italica di Tarquinia una porta verso il mondo, allo stesso tempo uscita di beni ed entrata di ricchezze, scalo commerciale e porto militare allo stesso tempo. Qui in questa sorta di portofranco i naviganti greci potevano commerciare con gli etruschi e parte di coloro che vi abitavano formavano quasi una colonia. Qui approdavano, mercanzie, beni, idee…

 

La ricchezza della città è dovuta ai traffici con i Greci, in primo luogo, e con l’Oriente, poi. Il filtro operato dalle colonie magnogreche, ed in particolare di Sibari, spesso smussa le innovazioni, le rielabora, comunque le fa proprie fino, in alcuni casi, ad ampliarle. 

 

Questa sorta di esplosione economico-culturale influenzerà la vita delle due città confinanti in maniera simile ma con caratteristiche estremamente differenti: il tenore di vita è dimostrato soprattutto dallo studio delle necropoli, specchio della particolare agiatezza che investe i due centri. Le sepolture, nel pieno VI sec. a.C., divengono sfarzose, con la differenza che a Cere si privilegia l’architettura, cesellata nel morbido tufo cerite, a discapito della decorazione pittorica, mentre a Tarquinia nella necropoli di Monterozzi si preferisce ricavare ambienti funerari più angusti ma con ricche figurazioni pittoriche che qui superano per il livello alto artistico le altre poleis etrusche.

 

Il sito di Monterozzi presenta tracce del periodo Protovillanoviano (XI-X sec. a.C.) e nell'VIII sec. a.C. diviene un centro estremamente ricco e popoloso tanto che gli abitanti si spostano sul Colle della Civita abbandonando il settore di Monterozzi che rimarrà destinata ad area sepolcrale.
Da questo momento, con il totale spostamento della popolazione sulla Civita, la città presenta una crescita inarrestabile che la condurrà fino all’apice, la fine del VI sec. a.C. Le sepolture presentano durante l’orientalizzante, una tipologia con tombe a Camera ipogee, oltre a quelle a cassone, con banchina laterale per deposizione funerarie con un vestibolo o anticamera.

 

Questa differenziazione netta con Cere, porta i Tarquinesi a concentrare la propria dedizione alla morte in maniera differente, che si riflette nelle decorazioni pittoriche. Queste, almeno fino al 530 a.C. non possono essere definite ‘raffigurazioni’ in quanto sembrano avere nella semplicità della loro bellezza artistica uno scopo puramente decorativo, con motivi araldici che contorniano, abbelliscono riempiono, l’horror vacui dei settori lasciati non dipinti o completano le scene di vita quotidiana, in particolar modo quelle che contemplavano un rilassamento, una distrazione o un piacere intenso: banchetti, danze, scene erotiche, giochi, attività venatorie svolte – e fatte riprodurre – solo dalle famiglie aristocratiche.

 

Un gusto nuovo sembra investire nella decorazione pittorica funeraria, queste classi aristocratiche per la narrazione di episodi di vita quotidiana. Le scene singole assumono una dimensione nuova, e la Tomba della Caccia e della Pesca rappresenta il punto d’accesso a questa dimensione. 

 

Struttura, caratteristiche architettoniche e pittoriche

 

Rinvenuta nel 1873, la tomba è formata nel più classico degli schemi strutturali delle sue analoghe coeve e di quelli precedenti, la tomba è stata scavata a 10m di profondità ed è accessibile, ancora oggi tramite la gradinata originale composta da sei scalini, irregolari e ‘lunghi’ con pendenze differenti, scavati nel tufo (nenfro o macco, pietra locale).

In questa tomba sono stati rinvenuti resti di un corpo femminile e le ceneri di un corpo maschile contenute nell’urna posizionata nella nicchia.

 

Anticamera (Dado/Sala 1)

 

L'anticamera nasce secondo uno studio funzionale nell’architettura funeraria etrusca. Coloro che potevano permetterselo, costruivano sontuose tombe che in molti casi dovevano avere la funzione di “cappelle di famiglia”. La possibilità rendere omaggio ai propri cari, o comunque di sacrificare a loro o pregare, resero necessaria la possibilità di uno spazio antecedente alla camera funeraria vera e propria.

 

La funzione di questa anticamera è da porsi su due piani, da una parte la possibilità di accedere all’interno senza necessariamente dover interagire con la pars mortuaria, dall’altra una sorta di preparazione spirituale all’ingresso nel mondo dei morti, poiché in qualità di pseudo-atrio/-corridoio, non veniva usato per le deposizioni funerarie.

 

Le pareti della camera-atrio sono interamente dipinte. La decorazione si suddivide principalmente in un grande unico registro, centrale e regolare, per tutta la larghezza delle pareti. Il grande registro centrale, a fondo bianco, è inquadrato da due fascioni: quello basso, ad una tonalità, ricorda il colore della porpora e della terra della tuscia appena arata, dai quali spuntano gli arbusti decorativi delle stesse pareti; quello superiore invece è costituito da una serie di strisciate policromatiche che nell’insieme mantengono sempre una tonalità che non si discosta dalle altre e che, pur avendo colorazioni decisamente differenti, in alcuni casi non si disturbano tra loro ma si integrano con i colori del programma pittorico.

 

Queste strisciate di ampio respiro, seguono uno schema geometrico speculare. Se volessimo rappresentare numericamente lo schema cromatico delle stesse, attribuendo ad ogni colore un numero (0 = non dipinto; 1 = bianco, 2 = porpora scuro (marrone), 3 = porpora chiaro; 4 = azzurro/ciano) allora avremo, patendo dal centro, il seguente schema: 1-2-0-3-4-1-3-2 che essendo speculare si risolverà (partendo dall’alto) in 2-3-1-4-3-0-2=1=2-0-3-4-1-3-2.

 

Come per il fascione in basso il colore porpora scuro (ocra rossa), che rappresenta la terra, da origine a ogni cosa nella stanza. All’ultma striscia è legata la piccola decorazione, composta da una serie di archetti rovesciati ed ovuli (melograni, papaveri?) e boccioli di loto, quasi l’intera decorazione volesse richiamare un tessuto con delle appliques.

 

Il grande registro centrale, come detto, estremamente rovinato, ci restituisce in una lettura assai difficile, uno schema che si ripete: coppie di danzatori nudi, ballano e si affrontano separati solo da degli esili arbusti.

 

Le scene di danza sembrano essere organizzate secondo uno schema estremamente peculiare: la stanza appare chiara nei toni, probabilmente per assorbire la maggior luminosità possibile. Nelle pareti trionfa il bianco, che pur essendo il colore dominante è riempito da questo alternarsi di uomini e donne danzanti e da alberi stilizzati, o arbusti scenici. Questi appaiono ghirlandati e decorati con una serie di oggetti desiderabili; anzi, le ghirlande appaiono come un elemento comune a tutte le decorazioni della tomba e rappresentano forse i premi da guadagnarsi nella danza. In un angolo in basso un’auleta seduta, adattata ed integrata perfettamente nello spazio e al di sotto di un albero, suona un flauto (aulos), con in testa il tipico cappello etrusco (tutulus), di colore rosso che sembra riprendere lo schema delle flautiste del trono Ludovisi.

 

Purtroppo dobbiamo constatare che è impossibile avere un’idea completa del grande quadro decorativo e questo rappresenta per i confronti un grosso limite, poiché questi muri sono anche i più rovinati dell’intero complesso dalle infiltrazioni dovute all’umidità, fino a raggiungere uno stato di degrado con le lacune che superano le parti dipinte.

 

Le raffigurazioni di tipo simmetrico-araldiche ci riportano ad una sorta di frattura degli schemi arcaici pur mantenendo le peculiarità della pittura vascolare della seconda metà del VI sec. a.C. riscontrabili soprattutto nel pittore di Nikosthenes e nelle anfore nicosteniche. L’influsso della ceramica greca d’importazione è evidente. Nella parte figurativa, nell’ultima fase del periodo arcaico, si assiste ad un riempimento degli spazi che non consente una dimensionalità delle figure. Queste si ritrovano spesso inserite in un contesto sequenziale con la ripetizione delle stesse secondo schemi fissati dall’alto arcaismo. Un primo segnale di diversificazione, che ci riporta ad una frattura col periodo precedente, è dato proprio dall’isolamento figurativo in cui le immagini appaiono molto più movimentate in base ad una differenziazione di posizioni date dalla flessione muscolare, nell’alternanza rilassamento-tenzione, che permette di ottenere un’idea di movimento completo.

 

Prima di accedere dalla parete di fondo alla seconda camera, sul ‘timpano’ semilunato della porta è inquadrata una scena di caccia alla lepre. In questo caso, a differenza del registro centrale della stanza, l’artista ha utilizzato tutto lo spazio disponibile, per potervi inquadrare la scena. Vengono usati colori e soprattutto figure differenti, in posizioni ed atteggiamenti diversi: la natura rappresentata negli animali raffigurati (cani, lepre) e soprattutto nella flora che s’integra perfettamente con i vuoti del ‘quadro’. Tuttavia questa scena conserva ancora le tracce di un pesante arcaismo dato dall’uso totale degli spazi, da una compressione figurativa, da una suddivisione di ruoli e figure adattate in base all’importanza sociale, l’uso, tra l’altro meraviglioso di colori più sgargianti, che non sono paragonabili con l’eleganza dei quadri del registro centrali.

 

La scena, semplice e complessa allo stesso tempo, presenta – partendo dall'angolo sinistro, verso destra che poi è anche il senso della teoria di caccia – un servitore che porta uno sgabello pieghevole, segue un cane che lo attende e poco dopo un secondo servitore che porta sulla spalla un bastone al quale sono appese alle estremità le prede catturate. Seguono i cacciatori a cavallo, uno dei quali, almeno, deve essere identificato come il proprietario della tomba. Quindi chiude la scena un nuovo ‘aiutante’ che conduce la processione con la funzione di vedetta o apripista e che a sua volta segue i due cani che hanno fiutato la lepre nascosta dietro una pianta.

 

La frattura che questa raffigurazione rappresenta con il passato è data anche dal fatto che la stessa scena non verrà più contemplata come soggetto funerario, perdendosi definitivamente.

 

L’intera scena presenta un uso forzato dello spazio: le piante raffigurate, che per esempio hanno una doppia funzione, fanno da separatori tra i personaggi ed allo stesso tempo da riempimento per gli spazi vuoti, in particolare negli angoli; ciò avviene in quanto non si è ancora in grado di risolvere il problema degli angoli frontonali, problema che verrà risolto perfettamente dalla plastica greca del miglior periodo classico. Tuttavia come non mai il sottobosco, e la natura in genere, risulta ritratto per la prima volta nel modo più variegato e dettagliato.

 

Il tentativo d’inquadramento è comunque ottimo, fino a quando si rimane in un ambito di elevatura modesta: la resa dei personaggi principali a cavallo non può e non riesce a sostenere un confronto con la parte floro-faunistica e la resa dei servitori, rappresentati più bassi per una questione di rango. I cavalli sono rappresentati, oltre che sommariamente, anche in maniera ostinatamente compressa verso l’alto: l’incapacità di rinunciare alla funzione del cavallo, la possibilità d’intreccio di diversi piani e soprattutto dei volumi, troppo differenti tra loro portano la resa ad un goffo tentativo di integrazione che diviene splendido solo nell’intenzione e nel risultato finale, aiutato dai colori e dai contorni.

 

Camera 2

 

La chiave di lettura dell’intero complesso sembra essere costituito da due differenti visioni: la prima, frontalità dell’impatto visivo a più piani, nell’incedere dall’ingresso verso l’interno e nel rapporto tra camera d’ingresso e seconda camera inquadrata tramite la porta che li connette, costituita da un finto arco (architrave arcuata o arco architravato).

 

Lo schema della seconda camera, o alloggiamento funerario, ripete quello dell’anticamera, nelle intenzioni, ma cambia totalmente nei soggetti: come la precedente è divisa in un unico grande registro centrale inquadrato da due fascioni e come la sala precedente il ‘timpano’ superiore di collegamento tra la finta volta e il fascione superiore presenta una scena di banchetto a se stante che riprende quella della caccia.

 

Nella camera sepolcrale è rappresentato per la prima volta, ed in maniera totale, un paesaggio marino che esplode di colori. Le pareti raffigurate sono ‘sorrette’ da un ortostato dipinto questa volta di blu-verde che rappresenta il mare e come tale è ondulato, al di sopra si svolgono le differenti azioni di caccia, pesca e svago.

 

La fascia superiore che delimita il paesaggio costiero è composta da diverse strisciate di colore continuo su tutte le pareti del dado: anch’esse sono affiancate in senso speculare partendo dal centro; anche se i colori sono gli stessi, cambia l’ordine e la disposizione, che segue una disposizione numerica (1 = bianco, 2 = porpora scuro (marrone), 4 = azzurro/ciano, 5 = nero) partendo dal centro e andando verso il basso: 4-2-1-5-1-2 che si completa in maniera ‘isocromatica’ in un 2-1-5-1-2=4=2-1-5-1-2.

 

Per la prima volta nella storia dell’arte un’intera camera è dedicata alla ricerca, riuscita, di un ambiente che coinvolga i personaggi e li relazioni all’ambente naturale stesso. Quello che il pittore ha voluto tentare è il coinvolgimento totale della figura umana all’interno di un unico ecosistema. Il dado è trasformato in un ecosistema marino-costiero, come se si trattasse di una ricostruzione virtuale della realtà a cui lo stesso defunto avrebbe partecipato dopo la sua morte.

 

Il tema, per alcuni contemporaneo, ma probabilmente più tardo di qualche anno è ripreso nella tomba delle Leonesse dove, però non viene ricostruito un ambiente acqueo ‘globale e funzionale’,  bensì una base marina decorativa e ripetitiva nei motivi.

 

L’ecosistema straborda di pesci e uccelli acquatici. A differenza della prima stanza, la resa è realistica o comunque non ripetitiva e monotona come avviene per i danzatori intorno agli alberi.

 

La scena più importante è rappresentata nella parete di fondo, ciò è intuibile dal fatto che questa possa essere traguardata direttamente dalla porta d’accesso attraverso quella di collegamento tra i due ambienti

 

Questa è rappresentata da due scene distinte: la prima si svolge su una barca sulla quale si trovano quattro personaggi, ognuno con una funzione differente. La barca presenta un timoniere rematore, poiché la tipologia è di una barca che funge da remo e da timone allo stesso tempo, tipologia più utile per le barche da “laguna” o da radura, seduto su una sedia posizionata a poppa. Seguono tre persone due delle quali, quelle centrali, sembrano assumere strane posizioni, come se non avessero un ruolo definito o facessero qualcosa a noi di incomprensibile; a meno che non si voglia vedere, in quello di destra uno “spaventatore” di uccelli lagunari che in seguito ai suoi movimenti prendono il volo, e l’altro, un assistente dell’ultimo personaggio appostato sulla prua e che sta pescando con la lenza (o con un conzo) a vista.

 

Una notazione stilistico-cromatica merita l’imbarcazione. Si tratta di una barca a chiglia bassa che riprende, evidentemente, le grandi navi veloci greche a prua ‘arricciata’ e poppa a forma di piccolo rostro e simile ad una gondola moderna.  Tre colori ne identificano a loro volta le sezioni in cui è suddivisa e in cui si suddividono i marinai: la poppa, del colore della terra corrisponde al kybernetes (timoniere-nocchiero), lo scafo, il cui colore chiaro corrisponde alle persone d’appoggio o d’aiuto e la prua di colore azzurro, ben separata tramite una doppia linea nera dallo scafo così come la parte superficiale della terra si separa da quella sottomarina, è infatti occupata da colui che interagisce con la parte subacquea, il pescatore. Nel centro del campo azzurro si trova un occhio dipinto che oltre ad essere decorativo aveva, tramite un uso apotropaico, quello di “controllare” la direzione, come quelli che si vedono su poche e superstiti imbarcazioni nel porto di Siracusa.

 

Intorno a loro delfini saltano fuori il pelo dell’acqua e tramite questo balzo poi rientrano nella stessa, gli uccelli volano in diverse direzioni.

 

Sulla riva, alle spalle dell’imbarcazione si trova un uomo su una rupe, o piccolo promontorio, in primo piano e di dimensioni maggiori rispetto agli occupanti della barca, mentre con una fionda cerca di colpire gli uccelli in volo.

 

Sembra alquanto importante la posizione che egli assume, come se fosse una posa plastica appropriata per il lancio con la fionda. Si tratta di una postura assai impostata dovuta all’apparente irrigidimento del corpo, poiché essa rappresenta nel modo migliore l’attimo prima in cui il proietto venga propulso.

 

Questa parete presenta una grande nicchia regolare – concepita per un'urna cineraria – alle spalle del fromboliere. secondo alcuni l’intera scena sarebbe stata tagliata dall’inserimento della nicchia, mentre per altri la posizione di questa alle spalle del ‘lanciatore’ ed il proseguimento in basso dei motivi marini, ci riporterebbe ad un progetto voluto con l’architettura tombale, anche se sappiamo bene che l’urna cineraria era posta in un foro praticato nel pavimento vicino al quale si trovano quattro fori dov’erano inseriti i piedi del lettino funebre.

 

Sulla parete di destra per chi osservi, si trova un secondo cacciatore con un’altra fionda sempre da un punto elevato mira gli stormi di uccelli che riempiono il cielo, un altro pescatore, questa volta armato di arpione, prepara un agguato ai pesci che passeranno sotto le rocce.

 

Tuttavia questa tomba è più famosa per la scena presente sulla parete di sinistra (per chi osserva).

 

Da un’alta roccia un giovane completamente nudo è stato immortalato nel momento in cui, dopo essersi tuffato dalla stessa altura, si trova in aria prima d’immergersi tra i flutti; alle sue spalle un altro personaggio, questa volta vestito, assiste con un cenno di approvazione da dietro l’ultimo spuntone della roccia multicromatica da cui il giovane si è tuffato, si tratta forse di un aiutante, un servitore o un amico che lo seguirà nel tuffo stesso.

La roccia appare allo stesso tempo geometricamente “organizzata” e estremamente naturalistica con la visualizzazione cromatica degli stati che la compongono. Su di essa cresce un'unica pianta di piccole dimensioni, estremamente stilizzata che nel complesso non fa disdegnare la miglior corrente naturalistica contemporanea.

 

In basso, una barca di dimensioni ridotte rispetto a quella della parete contigua, attende con due persone a bordo il recupero del tuffatore, ambedue lo guardano stupefatti nel tuffo ed uno sembra addirittura applaudirlo per lo splendido gesto atletico.

 

A questo quadro idilliaco fa da cornice un arco di volatili che sono stati disposti dall’artista a completare la scena disponendosi quasi ‘ad aurea’ del protagonista.

 

Da questo momento avremo presente nell’immaginario collettivo arcaico-classico il motivo del giovinetto nell’atto di tuffarsi e già noto da alcuni bronzetti tardo arcaici contemporanei e rivisitato nella versione più recente dalla tomba del Tuffatore di Paestum.

 

Sul frontone della parete più lontana c’è la coppia titolare di coniugi nell’atto di banchettare.

Completamente decorato con corone floreali conviviali, il fascione superiore della stanza ospita nel riquadro frontonale l’apice massimo e al contempo il sunto dei motivi presenti nelle sale e che riportano ad esso.

 

Differentemente dalla Tomba delle Leonesse, il banchetto prende la forma del pasto festivo, familiare e conviviale, e non del banchetto funebre, in cui oprobabilmetne vengono consumate le prede delle attività venatorie. 

 

Da questo momento emergerà definitivamente il motivo del banchetto all’interno dell'arte Etrusca arcaica tarda e che si protrarrà fino alla fine dell’arte figurata tirrenica.

 

Al centro del riquadro frontonale si trovano i coniugi, dipinti con dei colori che non fanno altro che aggiungere valore all’idea di giosità che pervade l’intera tomba.

 

Un uomo barbato e una donna riccamente vestita sono adagiati su un grande cuscino. L'uomo a torso nudo, ha la pelle abbronzata, guarda in faccia la moglie nell’atto di offrirgli una corona conviviale, lui le pone la mano destra sulla spalla, mentre con la sinistra, il cui gomito è appoggiato sul cuscino e tiene una patera in argento decorata a sbalzo. Al collo e sul petto porta due monili, il primo è forse un cordino con un èmblema, mentre il secondo è un pezzo meraviglioso di metallurgia: probabilmente in oro o in argento, una grossa collana larga presenta ad intervalli regolari delle piccole protomi di animali (montoni?) di prospetto e di lato. Il resto del corpo, la parte bassa, è ammantata con drappi ricamati color porpora e blu.

 

La donna invece è completamente ammantata, rimangono scoperte solo il viso e le braccia di colore bianco latteo, che indicano il fatto di vivere in luoghi riparati dal sole. Il suo braccio destro e la mano si stendono fino a raggiungere il contatto col petto del proprio uomo, mentre con l’altra mano gli offre una ghirlanda, volendo con questo, forse, l’artista indicare una simbologia sessuale piuttosto evidente. La donna porta un tutulus e ogni parte del suo corpo è adorna di gioielli, forse in oro che, però come quelli dell’uomo, vengono resi col solo tratteggio nero e non riempiti, mettendo da una parte un limite alla tecnologia e alla maestria raggiunta, ma dall’altra aprono alla sovrapposizione prospettica di complessa risoluzione.

Il ‘berretto’, le orecchie, il collo, le braccia, ci restituiscono dei capolavori di lavorazione orafa, passando dalla composizione liscia (collo) a quella forse filigranata della ‘cuffia per capelli’. 

 

Figure più piccole, forse dei bambini e comunque servitori, compiono operazioni di accompagnamento: la suddivisione tra parte maschile (destra) e femminile (sinistra) è divisa ugualmente in maniera rigida.

 

A destra i ragazzi si occupano di mescere il vino contenuto nel grande krater presente nell’angolo destro della scena. Uno di essi sta attingendo con una phiale dall’enorme vaso metallico, mentre un altro kouros si sta prendendo cura del suo padrone, anche se non è possibile capire, per il degrado, cosa realmente faccia. La parte femminile invece, è composta da tre schiave, una flautista e due giovani sedute.

Quella all’angolo nuda, sta prendendo i fiori da una grande cesta davanti a lei e sta preparando delle corone che di volta in volta appende alla parete; un’altra vestita, sembra osservare la scena voltandosi indietro con le mani sulle ginocchia piegate; la terza suona il flauto a doppia canna.

 

Sulla parete sono appesi tutti quegli oggetti che possono utilizzarsi durante i banchetti: una lira, le corone conviviali appunto e un cestino metallico, una scatola cilindrica, con dei piedini e una maniglia incurvata, non diversa delle ciste di Palestrina.



 

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