contemporanea
TARKOVSKIJ, AUTOBIOGRAFIA DI UN POPOLO
LO SPECCHIO
E
ANDREJ
RUBLËV
di Gianfranco Massetti
Esiste nella storia del popolo russo
un complesso materno che il regista
sovietico Andreij Tarkovskij
descrive in due opere cinematografiche:
Lo specchio e Andrej Rublëv,
rispettivamente del 1975 e del 1966.
Significativo è il prologo de Lo
Specchio, perché entra
immediatamente nel tema.
Un programma televisivo trasmette la
guarigione, per mezzo dell’ipnosi, di un
giovane studente disturbato dalla
balbuzie. Il terapista è una donna, già
da questo esordio associata a doti
taumaturgiche legate alla sfera
affettiva. Le ragioni del titolo della
pellicola risiedono nei versi di una
poesia che viene recitata all’inizio del
film, e che appartiene al padre del
regista, il poeta russo Arsenij
Tarkovskij.
Il titolo della poesia è Primi
Incontri: “Ogni istante dei
nostri incontri/ lo festeggiavamo come
un’epifania,/ soli a questo mondo. Tu
eri/ più ardita e lieve di un’ala di
uccello,/ scendevi come una vertigine/
saltando gli scalini, e mi conducevi/
oltre l’umido lillà nei tuoi
possedimenti/ al di là dello specchio./
Quando giunse la notte mi fu fatta/ la
grazia, le porte dell’iconostasi/ furono
aperte, e nell’oscurità in cui luceva/ e
lenta si chinava la nudità/ nel
destarmi: “Tu sia benedetta”,/ dissi,
conscio di quanto irriverente fosse/ la
mia benedizione: tu dormivi,/ e il lillà
si tendeva dal tavolo/ a sfiorarti con
l’azzurro della galassia le palpebre,/ e
sfiorate dall’azzurro le palpebre/
stavano quiete, e la mano era calda./
Nel cristallo pulsavano i fiumi,/
fumigavano i monti, rilucevano i mari,/
mentre assopita sul trono/ tenevi in
mano la sfera di cristallo,/ e – Dio
mio! – tu eri mia./ Ti destasti e
cangiasti/ il vocabolario quotidiano
degli umani,/ e i discorsi s’empirono
veramente/ di senso, e la parola tu
svelò/ il proprio nuovo significato:
zar./ Alla luce tutto si trasfigurò,
perfino/ gli oggetti più semplici – il
catino, la brocca – quando,/ come a
guardia, stava tra noi/ l’acqua
ghiacciata, a strati./ Fummo condotti
chissà dove./ Si aprivano al nostro
sguardo, come miraggi,/ città sorte per
incantesimo,/ la menta si stendeva da sé
sotto i piedi,/ e gli uccelli c’erano
compagni di strada,/ e i pesci
risalivano il fiume,/ e il cielo si
schiudeva al nostro sguardo…./ Quando il
destino ci seguiva passo a passo,/ come
un pazzo con il rasoio in mano”.
“Nei tuoi possedimenti al di là dello
specchio” è, dunque, anche la
ragione di un film dove le molteplici
generazioni si riflettono in un gioco
di specchi, riproducendo
all’infinito la medesima immagine. Lo
Specchio è la storia delle
generazioni che si succedono nel
corso tempo, ed è storia personale che
si riflette nella storia di un popolo e
di una civiltà; la storia di un processo
di difficile identificazione e di un
“complesso materno”, che caratterizza la
storia personale del regista e la storia
collettiva di un popolo, a cui il
destino ha conferito una funzione
messianica.
Durante un periodo di malattia del
regista, caratterizzato da momenti di
riflessione sul proprio passato, questi
vede le sue vicende esistenziali
proiettarsi nel vissuto del figlio, che
è come lui costretto a subire le
conseguenze della separazione dei
genitori e di un’educazione fortemente
condizionata dalla componente femminile
materna.
Al ricordo delle due donne che hanno
condizionato la sua vita, la madre e la
moglie, da lui giudicate
caratterialmente simili, il regista
sovrappone le impressioni che gli
vengono suscitate dal ritratto
leonardesco di Ginevra Benci: «È
impossibile esprimere – scrive
Tarkovskij in Scolpire il tempo –
la sensazione finale che questo
ritratto produce su di noi. È persino
impossibile dire con sicurezza se questa
donna ci piace o non ci piace, se è
simpatica o sgradevole. Ella ci attira e
ci ripugna. In lei c’è qualcosa di
inesprimibilmente bello e, nello stesso
tempo, di ripugnante, di diabolico. Ma
di diabolico tutt’altro che nel senso
attraente del romanticismo.
Semplicemente qualcosa che è al di là
del bene e del male. Si tratta di un
fascino col segno negativo: in lei c’è
quasi un che di degenere e di stupendo».
Tarkovskij si abbandona per questa via
ai ricordi della propria infanzia e di
sua madre nella casa in campagna,
durante lo sfollamento del periodo
bellico. Diverse immagini si alternano
senza alcuna sequenza logica: l’arrivo
del nuovo medico del paese, l’incendio
di un fienile, il ritorno di suo padre
dal fronte, il sogno di sua madre e
della casa che sta per crollare, e via
dicendo.
Ridestatosi dai ricordi, il regista
chiama la madre al telefono e questa lo
informa della morte di una sua cara
compagna di lavoro di quand’era giovane.
Riaffiora così alla memoria del regista
un episodio di quando la madre lavorava
nella redazione di una casa editrice.
Una sera aveva lasciato col fiato
sospeso tutti i colleghi a causa di un
refuso di stampa. In quegli anni che
avevano visto l’ascesa al potere di
Stalin, un errore tanto banale avrebbe
anche comportato l’accusa di tradimento
o boicottaggio, e la deportazione in
Siberia di un’intera redazione.
A questo ricordo ne succedono altri che
ritraggono gli esuli politici dalla
Spagna. Immagini ricavate dalle riprese
documentarie della guerra civile
spagnola scorrono accanto a
manifestazioni di entusiasmo popolare
con il lancio di palloni aerostatici.
Quindi, il ricordo del regista si sposta
sul proprio figlio: un ragazzo prossimo
all’adolescenza vive quelle che Freud
definirebbe sensazioni di déjà vu
ed esperienze di “onnipotenza del
pensiero”. Una signora anziana, vestita
con abiti ottocenteschi, compare nel
soggiorno di casa e il ragazzo è
invitato a leggere da un quaderno alcuni
passi che vi sono sottolineati.
Li citiamo
dal racconto Bianco, bianco giorno,
nei Racconti Cinematografici,
canovaccio delle sceneggiature dei
film. Si tratta della trascrizione della
lettera inviata da Puskin a
Caadaev nel 1836. «È
indubbio – sostiene – che la
divisione delle chiese ci ha separati
dall’Europa e che non abbiamo
partecipato a nessuno dei grandi eventi
che l’hanno scossa, ma noi abbiamo
svolto la nostra propria missione. È
stata la Russia, sono stati i suoi spazi
sconfinati a inghiottire l’invasione
mongola. I tartari non hanno osato
superare le nostre frontiere occidentali
e lasciarci di retroguardia. Sono
ritornati verso le loro steppe e la
civiltà cristiana è stata salvata. Per
il raggiungimento di questo scopo
abbiamo dovuto assumere un’esistenza
assolutamente particolare che, pur
lasciandoci cristiani, ci ha tuttavia
resi profondamente estranei al mondo
cristiano […] Dite che la sorgente da
cui abbiamo attinto il cristianesimo era
impura, che Bisanzio era degna di ogni
disprezzo ecc. Ah, amico mio, Gesù
Cristo non è forse nato tra gli ebrei, e
Gerusalemme non era calunniata da tutti?
Il Vangelo è forse meno stupefacente per
questo? […] Per quanto riguarda poi la
nostra insignificanza dal punto di vista
storico, non posso decisamente essere
d’accordo con Voi […]. Mettendovi una
mano sul cuore, non trovate qualcosa di
importante nell’attuale situazione della
Russia, qualcosa che colpirà gli storici
futuri? Anche se sono sinceramente
devoto al nostro sovrano, non posso
proprio esaltarmi vedendo quello che mi
circonda; come letterato ne sono
irritato, come uomo afflitto da
pregiudizi ne sono offeso, ma vi giuro
sul mio onore che per nulla al mondo
vorrei cambiare patria, o avere un’altra
storia, diversa da quella dei nostri
padri, esattamente come Iddio ce l’ha
data».
Nella prima metà dell’Ottocento, Caadaev
era in corrispondenza con una donna
della nobiltà russa a cui aveva scritto
diverse lettere di contenuto filosofico.
Nel 1836, avrebbe poi pubblicato la
prima di queste Lettere filosofiche.
In essa vi sosteneva che la Russia non
aveva mai camminato in sincronia con gli
altri popoli e ciò era stato la causa
dell’arretratezza del popolo russo, che
poteva essere colmata soltanto
assimilando la cultura del mondo
occidentale. Caadaev poneva così le basi
di un dibattito ideologico-culturale
che avrebbe opposto, nei successivi
decenni, gli intellettuali “occidentalisti”
a quelli “slavofili”, sostenitori
della peculiare missione di salvaguardia
della civiltà cristiana della terza Roma
da parte della chiesa ortodossa. La
lettera di Puskin costituisce pertanto
una delle prime risposte degli
“slavofili” alle Lettere filosofiche
di Caadaev.
Ritornando alle sequenze autobiografiche
del film, il regista racconta al proprio
figlio del periodo della guerra. Di
quando, sotto la direzione di un
istruttore, lui e altri giovani
adolescenti dovevano esercitarsi per
essere pronti a combattere. Di questi
compagni, uno gli è rimasto
particolarmente nel cuore, un giovane di
Leningrado, che aveva perso i genitori
durante l’assedio della città.
Refrattario alla disciplina, quando
l’istruttore comandava il “dietro front”,
questi lo prendeva alla lettera
marciando alle spalle degli altri. In
russo, il termine che si usa per
l’ordine del “dietro front” stabilisce
appunto di ruotare di trecentosessanta
gradi attorno a se stessi.
All’episodio seguono altre immagini di
repertorio: il passaggio dell’esercito
sovietico attraverso il lago Sivas: una
lunga teoria di uomini coperti di fango
che sembrano emergere come sagome dalla
“madre umida-terra”. La presa di Berlino
da parte dell’armata rossa. Le foto del
presunto cadavere di Hitler. I
festeggiamenti per la fine della guerra
a Mosca. Il fungo atomico. Stalin e Mao.
Il culto della personalità che muore in
Unione Sovietica per rinascere in Cina.
Gli scontri nella zona di confine
cino-sovietica del fiume Ussuri.
Immagini che esprimono il punto di vista
slavofilo di Tarkovskij.
La missione salvifica della Russia in
rapporto ai destini apocalittici di
un’umanità minacciata dalle forze del
male. I riferimenti letterari che si
possono fare in proposito risalgono alla
trilogia Cristo e Anticristo di
Merezcovskij e a poesie come
Panmongolismo di Solov’ev o Gli
Sciti di Block, che coi suoi versi
intendeva recuperare il mito di questo
antico popolo a vantaggio della
tradizione slavofila.
Ritornando alla sua vicenda, il regista
ricorda la separazione dalla moglie e la
scelta di suo figlio di rimanere a
vivere con lei. Ritorna con la memoria
all’epoca della guerra, quando erano
sfollati e la madre si era venduta un
paio di orecchini, per procurarsi da
mangiare. Altri ricordi si affollano
nella sua mente: la sorella, sua nonna,
il padre che ritorna dal fronte, suo
figlio che sfoglia un libro con disegni
e dipinti di Leonardo da Vinci. Di
ricordo in ricordo, la madre, lui e la
sorella bambini, che giocano su una
radura accanto alla nonna anziana, la
macchina da presa sfuma su una cortina
di alberi al tramonto.
Significativa è ancora, nell’epilogo del
film, la citazione di alcune opere di
Leonardo: La Vergine delle Rocce,
Il Cenacolo, un autoritratto di
Leonardo da vecchio, il cartone
che ritrae Sant’Anna la Madonna il
bambino e San Giovannino, il dipinto
di Sant’Anna e la Vergine con il
bambino, per finire con i disegni di
uno studio di mani.
Con il dipinto di Sant’Anna e la
Vergine siamo così condotti al
saggio di Sigmund Freud su Un ricordo
di infanzia di Leonardo da Vinci.
Affidandosi al romanzo biografico di
Merezcovskij, Freud aveva fornito
l’interpretazione del “misterioso”
carattere di Leonardo e del suo
“mancinismo” riconducendoli
all’esistenza di un irrisolto “complesso
edipico”.
Nel caso de Lo Specchio c’è di
più. Scrive Platone nelle Leggi:
«[…] per quanto riguarda le mani, noi
siamo diventati, ciascuno di noi, quasi
zoppi per la stoltezza delle nutrici e
delle madri. Infatti essendo la natura
di ciascuna delle due parti delle membra
ugualmente equilibrata, direi, durante
le nostre abituali operazioni siamo
stati noi a differenziarle per un uso
sbagliato […]. Lo prova il costume degli
Sciti che non si limitano ad allontanare
l’arco con la sinistra e a tirare a sé
la freccia con la destra soltanto, ma
usano scambievolmente tutte e due le
mani, per l’una e per l’altra funzione».
Dopo più di duemila anni, gli facevano
eco, dalla poesia Gli Sciti, i
versi dello slavofilo Blok.
Invitavano il vecchio mondo alla
saggezza di Edipo e a fermarsi davanti
all’enigma posto dalla Sfinge. Da
sempre, la Russia era la Sfinge d’Europa
e Tarkovskij ci aiutava a scoprirlo
anche con l’Andrej Rublëv.
Siamo in Russia intorno all’inizio del
1400. Davanti a una chiesa, un uomo sta
tentando il volo sopra un rudimentale
aerostato. Il pallone che lo deve
sollevare in aria è costruito con pelli
cucite. Un gruppo di persone si avventa
contro coloro che stanno collaborando
all’impresa, ma le funi che tengono
ancorata a terra la navicella sono
recise: il pallone s’innalza, suscitando
contrastanti emozioni di rabbia o di
meraviglia. Dopo avere sorvolato le
campagne circostanti per breve tempo, si
scuce e precipita nuovamente al suolo.
L’estasi del “volo sciamanico” si
dissolve e il destino dell’antesignano
di Gagarin è così segnato. C’è un
occulto cordone ombelicale che lega
l’uomo alla terra: la forza di gravità.
E Tarkovskij sembra voler suggerire che
un vincolo occulto di uguale intensità
lega i suoi connazionali alla Madre
Russia.
Esiste nella storia di questo paese una
“coazione ripetere” il proprio passato
sotto la forma di un regime politico di
natura dispotica. Un tempo erano gli
czar. Dopo la rivoluzione sovietica ci
sono Stalin e i successivi dirigenti del
PCUS. In ogni caso, si può dire che tra
gli uni e gli altri non vi sia mai stata
alcuna soluzione di continuità.
Dal punto di vista filologico,
l’autocrazia degli czar discende
dall’autorità esercitata dal capo
guerriero delle tribù della steppa, che
adotta, nella versione deformata della
lingua russa, il titolo latino di
Cesar. Sospeso da sempre tra questa
aspirazione a essere occidente e
l’eredità dei pastori nomadi asiatici,
il popolo russo è andato alla ricerca
delle proprie radici culturali trovando
un’identità nella tradizione del
nomadismo scita: «Sì – dice la
poesia di Aleksandr Blok – noi siamo
Sciti, barbari dell’Asia/ Dagli occhi
avidi, dagli occhi a mandorla, pastori».
Ed è su questi pastori dalle origini
misteriose che si allunga, secondo
quanto ci tramanda Erodoto, l’ombra
altrettanto misteriosa e leggendaria
delle guerriere amazzoni.
Il film di Tarkovskij racconta in alcuni
episodi alquanto laconici le tappe della
crisi e dell’evoluzione artistica di uno
dei maggiori decoratori di icone del
quattrocento, alla luce dell’evolversi
della situazione storica russa. Si
tratta del notissimo Andrej Rublëv, il
cui travaglio artistico-culturale sembra
riflettere il percorso di maturazione
ideologica di Tarkovskij, intellettuale
che appartiene alla generazione del
“disgelo”.
Questa è sommariamente la prima
impressione che si è avuta
all’apparizione del film nelle sale
cinematografiche occidentali, verso la
fine degli anni sessanta. I due Andrej
sarebbero in buona sostanza accomunati
dalla medesima aspirazione verso le
istanze di un umanesimo in rotta di
collisione con il potere costituito.
Una lettura in chiave
politico-autobiografica del film
rappresenta certamente una tentazione, a
gettare nuova luce su di esso ha però
contribuito l’uscita in Italia del
romanzo cinematografico su Rublëv, che a
suo tempo aveva preceduto la
realizzazione della sceneggiatura
scritta dal regista in collaborazione
con Koncalovskij. Prima di prendere in
considerazione il romanzo, è utile
tuttavia confrontarsi con l’opera
cinematografica.
Andrej Rublëv,
Kirill e Daniil il Nero,
tre monaci decoratori di icone,
si trovano in viaggio, e assistono in
una casa di contadini all’esibizione di
un nano che irride il potere del
principe. Il nano pagherà cari i suoi
sberleffi al principe. Infatti, qualcuno
lo denuncerà, provocando il suo arresto
da parte delle guardie, mentre i tre
pittori riprendono il loro cammino.
Dopo qualche anno Kirill incontra
Teofane il Greco, il più importante
decoratore di icone dell’epoca, e
scambia con lui alcune opinioni. Teofane,
positivamente impressionato gli propone
di recarsi a Mosca per decorare la
cattedrale dell’Annunciazione. Kirill
accetta, ma vuole essere ufficialmente
incaricato davanti a tutti i monaci del
proprio convento. Qualche tempo dopo
arriva al monastero un araldo del
principe moscovita, che però rivolge
l’invito ad affrescare la cattedrale non
a Kirill ma a Rublëv. Accecato dall’ira,
Kirill abbandona il monastero lanciando
accuse di simonia contro i suoi
fratelli. In questo episodio, le
risoluzioni di condanna del “culto della
personalità” da parte del XX Congresso
del PCUS non potevano trovare miglior
rappresentazione.
Dopo la partenza per Mosca, Rublëv
s’incontra con Teofane il Greco.
Chiacchierando in un bosco, i due
manifestano una concezione del mondo
diametralmente agli antipodi: Teofane è
votato per intero al servizio di Dio,
Rublëv è artefice invece di una
filosofia della vita che colloca al
proprio centro l’uomo. Il dialogo tra
Teofane e Rublëv è completamente
immaginario. Tuttavia, esso riesce a
comunicare con esattezza anche la
diversità dello stile artistico dei due
pittori.
È noto che l’assenza di profondità
spaziale delle icone, non è dovuto al
fatto che gli artisti ignorassero le
nozioni prospettiche della pittura, ma
al fatto che queste opere dovevano
suggerire una ieratica maestà del
divino. Le tecniche della prospettiva,
che i decoratori, al contrario,
conoscevano molto bene, venivano
ribaltate a vantaggio di una
rappresentazione dell’immagine sacra che
trapassando lo sguardo dei fedeli doveva
trasmettere loro un sentimento di
assoluta contrizione. Tutto ciò in
sintonia con l’immagine di un potere
politico che è quella del Basileus
Bizantino.
Teofane è un pittore di grande talento
che aderisce pedissequamente a questo
programma, a differenza di Rublëv che
invece conferisce una profondità
spaziale ai propri soggetti, invitando i
fedeli ad appropriarsi dello spazio del
sacro e del divino, come farà più tardi
la prospettiva geometrica dei pittori
italiani, espressione – secondo il
teologo e matematico Pavel Florenskij –
della civiltà individualista «borghese».
Il film di Tarkovskij è interamente
girato in bianco e nero, a eccezione del
finale che offre una panoramica a colori
delle opere di Rublëv. La scelta del
bianco e nero è un omaggio a Sua
Maestà Ejzenstejn, nei confronti
del quale Tarkovskij si sente come
l’Andrej Rublëv della situazione, colui
che cerca di ridialettizzare il
materialismo storico a partire da
Feuerbach. L’antropologia di Tarkovskij
non ha tuttavia al proprio centro il
genere neutro dell’uomo, ma bensì la
donna.
Rublëv, Daniil il Nero e i loro
collaboratori sono di nuovo in viaggio.
Stanno scendendo in barca il corso del
fiume e per la notte si accampano su una
riva, nei pressi di un bosco. Dal folto
degli alberi, Rublëv sente provenire dei
rumori che lo spingono a lasciare i suoi
compagni per inoltrarsi nel bosco.
Assiste così alla celebrazione di una
festa pagana. Viene però scoperto e
legato a un albero, ma una ragazza che
si presenta davanti a lui completamente
nuda lo libera.
Ancora profondamente turbato, al
mattino, Rublëv raggiunge i suoi
compagni e parte con loro in barca sul
fiume. Di qui, assiste alla cattura di
un gruppo di pagani da parte delle
guardie del principe. Una ragazza riesce
però a fuggire gettandosi in acqua: è la
stessa che lo aveva liberato.
Finalmente, Andrej e i suoi compagni
sono arrivati a destinazione. Devono
affrescare la cattedrale di Vladimir con
temi ricavati dal Giudizio Universale.
Tuttavia, il rifiuto di rappresentare
questo tema secondo il canone stabilito
da Teofane il Greco è da parte di Rublëv
categorico. I lavori della cattedrale
sono fermi e non vanno avanti, perché
Rublëv non è d’accordo neanche nel
dipingere temi che affermino la
subordinazione e la sottomissione della
donna nei confronti dell’uomo. Al
termine dell’episodio, farà il proprio
ingresso nella cattedrale una sordomuta,
la cui presenza è molto eloquente.
Il secondo tempo esordisce con la
rievocazione della presa di Vladimir da
parte delle orde tatare, un avvenimento
che risulta in sé anacronistico, dal
momento che la battaglia non si svolge
come nel film nel 1408, ma addirittura
alcuni anni prima della nascita di
Rublëv. Volendo scartare l’ipotesi
dell’errore, potrebbe trattarsi di un
sottinteso riferimento alle tensioni
politiche tra Russia e Cina, culminate
nel 1962 con lo scontro sul confine del
fiume Ussuri.
Guidati dal fratello gemello del
principe russo, che vuole vendicarsi di
lui, i tatari saccheggiano Vladimir,
massacrandone gli inermi abitanti che si
sono rifugiati nella cattedrale. Per
difendere la ragazza sordomuta, lo
stesso Rublëv si macchia dell’omicidio
di un tataro. Così, a espiazione della
propria colpa e in odio alla bestialità
dell’uomo, egli decide di non rivolgere
più la parola ad alcuno e di non
dipingere più. In seguito, raggiunge con
la sordomuta il monastero di Andronikov,
dove farà ritorno qualche tempo dopo
anche Kirill, che ottiene il perdono dei
suoi fratelli. Intanto, durante una
scorreria dei tatari la sordomuta
deciderà di seguirli.
Sono trascorsi diversi anni, la
popolazione del principato è stata
decimata dai tatari e dalla peste. È
giunto però il momento di ricostruire le
macerie e si va alla ricerca di qualcuno
che sappia fondere le campane da
ricollocare sui campanili. Boriska è il
figlio di un fonditore: è solo un
ragazzo, ma sostiene di essere in
possesso dei segreti del padre. Fervono
i lavori e Rublëv segue l’attività del
giovane con interesse e curiosità. Un
giorno incontra il nano che anni prima
venne arrestato dalle guardie del
principe. Il nano è convinto che a
denunciarlo quella volta sia stato
Rublëv. Ha passato in carcere dieci anni
e ha avuto la lingua mozzata.
Rublëv è continuamente sollecitato a
recarsi a dipingere al monastero della
Trinità. Cerca di convincerlo anche
Kirill, il quale gli confessa di essere
stato lui a denunciare il nano.
Finalmente, la campana è pronta, suona,
ma Boriska se n’è già andato. Rublëv si
mette sulle sue tracce, lo riesce a
raggiunge e apprende che non conosce
alcun segreto della fusione. Ciò che lo
ha guidato durante il lavoro è stato
solo il suo intuito: quella “scintilla
divina” che alcuni uomini possiedono e
che bisogna mettere a profitto degli
altri uomini. Trovando nel giovane nuova
forza, Rublëv gli propone di girare
insieme per la Russia: lui tornerà a
dipingere e Boriska fonderà altre
campane.
Dall’inizio alla fine, la pellicola di
Tarkovskij si avvale di un linguaggio
simbolico molto articolato. La
campana di Boriska reca un altorilievo
con la rappresentazione di San Giorgio
che sconfigge il drago, cioè il Demonio.
San Giorgio è il protettore dei cavalli,
e questi ultimi costituiscono un
elemento simbolico piuttosto frequente.
Conduttori del carro solare, la
mitologia li associa da un lato al mondo
infero e dall’altro alle acque celesti,
alle fonti e ai fiumi. Così all’inizio
del film, dopo la scena dell’aerostato,
Tarkovskij introduce l’immagine di un
cavallo. che si rotola nella prateria
creando l’impressione di uscire dalla
terra. Poco prima dei titoli di coda si
assiste invece alla scena di quattro
cavalli che stanno pascolando in riva a
un fiume sotto la pioggia.
Il cavallo è però anche il simbolo dello
spirito del popolo russo, della sua
ansia di libertà, dell’identità col
nomadismo scita e delle donne guerriere!
All’inizio del romanzo di Tarkovskij su
Andrej Rublëv, Daniil il Nero racconta
un frammento della sua esistenza: «Quindici
anni fa (siamo nel 1400 n.d.r.) mi
trovai a passare dalle parti di Mosca e
decisi di fermarmi. Mi era capitato un
buon lavoro: restaurare icone. Due
antiche icone bizantine. Un piccola e
l’altra un po’ più grande, così. Lavorai
a quelle icone fino all’autunno.
Dall’inizio di aprile. Fate un po’ il
conto. Mi preparavo ad andarmene quando
arrivarono i tatari. Circondarono le
mura da tutte le parti e rimasero lì.
Passò un giorno, ne passò un altro. Una
settimana, due settimane, e non si
decidevano ad attaccare. Il principe era
andato a Kostroma con tutta la famiglia,
dicevano per radunare un esercito. E
allora i moscoviti decisero di difendere
da soli la loro città. Senza il
principe. Lungo tutte le mura e a ogni
porta c’erano delle guardie, sempre
all’erta, senza dormire, non stavano più
in piedi dalla stanchezza, e i tatari
continuavano a prendere tempo […]. Le
donne e i bambini rimasero chiusi nella
chiesa dodici giorni, senza mai uscire.
E per tutto il tempo pregarono Dio. Poi
cominciò la fame, e improvvisamente la
gente cominciò ad ammalarsi: il primo
giorno ti sentivi stanco e spossato, il
secondo tutto il corpo ti si ricopriva
di macchie nere, e il terzo giorno
morivi. A quel punto gli uomini, per la
disperazione saccheggiarono i depositi
di birra e a Mosca cominciò la baldoria.
Proprio allora i tatari chiesero il
riscatto: cento rubli di monete e due
carri di capelli delle nostre donne.
Delle donne e delle fanciulle più
giovani e belle. Due carri! E dissero
proprio così: se vi riscattate, ce ne
andremo, altrimenti avrete di che
pentirvi! Così, lo ricordo come fosse
ora, in un campo non distante dalla
città si schierarono le donne e le
vergini moscovite, formando una lunga
fila davanti a due ceppi. Accanto a ogni
ceppo c’era un tataro con la sciabola e
un altro con la mola per affilare le
lame. Tagliando i capelli, infatti,
perdevano il filo molto in fretta. I
tatari a cavallo avevano circondato
tutto il campo e io ero insieme agli
uomini, dietro di loro. Malati, deboli,
gli uomini stavano lì a guardare, e
anch’io guardavo. Passano le donne, le
vergini, belle e meno belle, e nessuna
versa una lacrima, tutte sembrano di
pietra. E davanti a tutti, una dopo
l’altra si tolgono il fazzoletto,
pagando col disonore per i loro uomini,
e per Mosca. Si tolgono il fazzoletto,
si chinano sul ceppo, e il tataro con
una mano afferra la treccia, e con
l’altra, z-z-zik!, la recide,
deponendola nel mucchio che diventa
sempre più grande. Le donne passano, e
dietro di loro z-z-zik, z-z-zik, stride
la mola del tataro che affila le
sciabole. E lì ci sono i loro uomini, i
loro padri, i loro figli, che per la
debolezza non possono fare nulla! E
anch’io sto lì a guardare, e mi sento
mancare l’aria, mi giro, e proprio in
quel momento la vedo. Avrà avuto dieci
anni, e guardava con gli occhi
spalancati le donne oltraggiate e
infelici. Ma forse non del tutto
infelici. Chi è capace di
raccapezzarcisi, con le donne. Ti
ricordi, Andrej? […]. Ti ricordi il
Campo delle Vergini?».
In Russia era costume che le donne da
marito dovessero portare i capelli
raccolti in un’unica treccia. Il
riscatto chiesto dai tatari assume
perciò il significato di un oltraggio
nei confronti delle vergini. Ma il Campo
delle Vergini è soprattutto evocativo
dell’epos boemo che narra di Vergini
Guerriere con a capo la regina Vlasta,
le quali contrastarono a Praga il potere
degli uomini dopo la morte della
principessa Libuše.
Questa leggenda che riecheggia il mito
delle Amazzoni, riporta l’eco delle
tradizioni matriarcali del mondo slavo e
il racconto di Daniil il Nero sembra
esserne a sua volta una chiara
derivazione. Tarkovskij lo ripropone al
termine del romanzo descrivendo la scena
di un improbabile Giudizio Universale
che attribuisce a Rublëv.
In tale descrizione ritorna anche
l’immagine della donna “pagana”,
incontrata da Rublëv nel bosco, che nel
romanzo è più propriamente una strega
dal nome evocativo di Marfa/Marta: «Bagnati
e pesanti, i capelli della strega
fluiscono sul suo semplice sarafan da
contadina. Con la mano tesa in un gesto
solenne, ella regge una nave con
un’espressione di straordinaria
importanza, perché quella è la nave che
trasporta le anime dei defunti. Si sente
lo sciabordio dell’acqua e quel grido
angoscioso, disperato e pieno di dolore,
appena attutito dalla nebbia:
“Marfa-a-a-a! Nuota-a-a! Ma-a-arfa!”. Le
donne giuste navigano, i visi maestosi e
afflitti, e nel silenzio tornano a
echeggiare i colpi sordi e regolari
della sciabola del tataro. Volti di
donne bellissime, belle e anche brutte,
trasformate da Andrej nella schiera
delle donne giuste in forza della
splendida libertà della fantasia. Vanno
e vanno le donne in triste processione,
nella speranza che quel sacrificio valga
loro la salvezza, e i colpi della
sciabola del tataro, sempre meno
affilata, risuonano sordi come il
battito dei loro cuori».
L’ambientazione storica del film di
Tarkovskij è quella della riscossa
contro il dominio dell’Orda d’Oro che
porta alla nascita dello Stato russo e
all’affermazione della chiesa ortodossa.
Un’epoca dove assistiamo anche alla
repressione del paganesimo radicato
nelle culture gilanico-matriarcali del
mondo slavo.
L’Andrej Rublëv di Tarkovskij
riusciva a intercettare un sentimento
che si muoveva anche nei paesi dell’Est
a ridosso della primavera di Praga.
Nella città di Vlasta e delle guerriere
amazzoni, il gesto di Jan Palach, per la
repressione sovietica, ricordava altri
roghi.
Riferimenti bibliografici:
F. Conte, Gli Slavi, le civiltà
dell’Europa centrale e orientale,
Torino 2006.
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