N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
Il tappeto orientale antico
ambasciatore di un’arte millenaria
di Salvina Pizzuoli
La
luna
fila
il
tempo,
“tesse”
le
esistenze
umane,
e le
dee
del
destino
sono
filatrici
M.Eliade
Miti,
sogni
e
misteri
Etichettato
tra
le
arti
minori,
secondo
una
vecchia
definizione
ottocentesca,
insieme
a
quella
gran
parte
della
lavorazione
artigianale
di
oggetti
destinati
all’uso,
ma
con
spiccate
caratteristiche
decorative,
ha
rivestito
tra
i
manufatti
orientali
un
ruolo
preminente,
per
successo
e
diffusione.
Affascinante
e
misterioso
aveva
incantato
antichi
viaggiatori
come
Marco
Polo
che
esaltava
la
maestria
degli
artigiani
greci
e
armeni
di
Konia,
città
della
Turchia,
che
confezionavano,
a
suo
dire,
i
tappeti
più
belli.
Ha
trovato
collocazione
in
opere
figurative
di
grandi
artisti,
tra
Medioevo
e
Rinascimento,
come
il
Ghirlandaio
e
Filippo
Lippi,
ma
anche
Lorenzo
Lotto
e
Hans
Holbein
che
ritraevano
i
loro
soggetti
tra
mobili
e
tappeti
preziosi
tanto
da
dare
il
loro
nome
a
quella
tipologia
dai
rossi
smaglianti
con
motivi
vegetali
e
giochi
di
arabeschi,
lasciando
a
noi
aperte
molte
domande
sul
ruolo
e
sul
perché.
In
occidente
è
entrato
nelle
casate
dei
notabili
ed è
divenuto
oggetto
di
distinzione
e di
lusso
tanto
da
conquistare
l’immaginario
borghese
cui
il
mercato
si è
nel
tempo
adattato
per
prezzo
e
per
misure;
gli
investitori
addirittura
lo
hanno
annoverato,
in
alcuni
periodi
della
nostra
storia
recente,
tra
i
bene
rifugio;
oggi
incanta
ancora
gli
amanti
del
bello,
i
visitatori
di
musei
ad
esso
dedicati
e
compare
in
vari
scritti
di
un
numero
sempre
più
ampio
di
appassionati
e
ricercatori.
La
sua
storia,
per
quanto
indagata
ultimamente,
non
sa
ancora
dargli
un’origine
geografica
precisa:
in
Egitto
o
nell’antica
Persia
o
che
fosse
invece
stato
Ciro
il
grande
a
introdurvelo;
niente
di
provato
e
probante;
di
certo
è
stato
patrimonio
della
vita
nomade
continentale
dell’Asia.
La
storia
del
tappeto
è
molto
antica
e
complessa;
abbraccia
millenni
e
numerose
popolazioni,
vi
confluiscono
molte
tradizioni
e
tendenze
stilistiche
che
coprono
una
vastissima
area
geografica
dall’Egitto
fino
al
Tibet
e
parti
della
Cina
passando
per
l’Anatolia.
La
tradizione
risalirebbe
almeno
al
III
millennio
a.C,
ma
il
primo
tappeto
di
cui
si
sia
trovata
testimonianza
è
datato
intorno
al
IV
secolo
a.C,
ma
potrebbe
essere
anche
precedente,
caso
raro
e
fortuito
in
quanto
la
lana
è
materiale
deperibile;
è il
tappeto
Pazyryk
il
cui
ritrovamento
e la
cui
manifattura
hanno
meritato
una
menzione
specifica.
In
occidente
il
tappeto
ha
una
funzione
decorativa;
anche
se
si
stende
sul
pavimento
all’uso
orientale,
è
anche
vero
che
non
si
vive
su
di
esso,
mentre
in
oriente
sul
tappeto
si
prega
inginocchiati,
si
dorme,
si
mangia;
questo
cambia
non
di
poco
l’uso
e la
prospettiva
con
la
quale
si
guarda
il
tappeto:
per
gli
orientali
a
stretto
contatto,
per
gli
occidentali
dall’alto,
posizione
che
modifica
la
percezione
visiva
del
disegno
e
del
gioco
dei
colori.
Conosciuto
in
occidente
sin
dall’epoca
delle
crociate,
non
era
infatti
considerato
un
oggetto
d’uso,
ma
di
pregio,
simbolo
di
maestà
e
potenza
tanto
da
essere
collocato
nelle
arti
figurative
religiose
ai
piedi
del
trono
della
Madonna
e
degli
altari,
oppure
come
copertura
di
tavoli
e di
cassapanche,
non
da
calpestare.
Nel
mondo
nomade
e
orientale
in
genere
sopperiva
alla
necessità
di
smorzare
l’impatto
con
la
nuda
terra
delle
tende.
Questa
ragione
da
sola
comunque
non
basterebbe
a
giustificare
un’attività
artigianale
così
intensa
ed
estesa
che
ha
fatto
del
tappeto
un
manufatto
straordinario.
Nel
mondo
nomade
coprire
e
rendere
meno
ruvido
il
contatto
con
il
terreno
era
possibile
con
le
pelli
di
pecora
che
non
mancavano
nella
quotidianità.
Il
tappeto
invece
si è
diffuso
in
mille
usi
e
mille
luoghi;
utilizzato
per
svariate
necessità
dell’attività
giornaliera,
accompagnava
i
momenti
salienti
della
vita
della
comunità
come
oggetto
personale,
necessario,
a
contatto
con
chi
lo
usava
e lo
produceva:
tappeti
da
sacca
e da
sella,
tappeti
per
separare
gli
ambienti,
tappeti-porta,
tappeti
per
la
preghiera,
per
pregare
i
propri
defunti,
tappeti
nuziali;
protegge
dal
freddo,
è
calore;
dagli
sguardi
indiscreti,
è
tramezzo;
dal
contatto
con
il
terreno,
è
divisorio
protettivo;
dagli
spiriti
naturali
che
si
muovono
nello
spazio
circostante,
è
spazio
sacro.
Abbellire,
vivacizzare,
colorare,
scaldare
in
tutti
i
sensi
e
raccontare,
con
disegni
elementari
tramandati
a
memoria,
miti
e
credenze
tribali,
i
simboli
della
fede,
le
paure
e
gli
scongiuri,
le
esperienze,
i
sogni;
meglio
di
qualsiasi
vello
di
pecora,
il
tappeto.
Più
complessa
invece
la
decorazione
realizzata
dai
sedentari
nei
piccoli
laboratori
dei
villaggi
e
delle
città,
anche
per
l’utilizzo
di
un
telaio
verticale
fisso
che
permetteva
formati
più
grandi;
disegni
ornamentali
che
divennero
ancora
più
elaborati
e
sviluppati
su
grandi
dimensioni
quando
nel
XV
secolo
il
tappeto
annodato
venne
realizzato
anche
nelle
grandi
manifatture
di
corte:
ideati
da
famosi
artisti,
impiegando
oltre
alla
lana
anche
la
seta
e
fili
d’oro
e
d’argento,
veri
capolavori
furono
realizzati
tra
il
XVI
e il
XVII
secolo,
destinati
ad
abbellire
i
palazzi
reali
o a
diventare
preziosi
omaggi
di
rappresentanza,
sotto
la
dinastia
dei
Safawidi
in
Persia
a
Herāt,
Tabrīz
e
Kāshān,
dei
Mamelucchi
in
Egitto
al
Cairo,
degli
Ottomani
in
Anatolia
a
Uşak
e
dei
Moghūl
in
India.
I
tappeti
nella
loro
svariata
gamma
possono
essere,
per
semplificare,
raggruppati
in
base
al
disegno
in
floreali
o
geometrici;
in
base
all’esecuzione
in
tribali,
di
villaggio,
di
città
e di
corte;
in
base
alle
zone
di
produzione,
ciascuna
delle
quali
con
precise
caratteristiche:
quella
anatolica
ad
esempio
si
distingue
per
una
decorazione
geometrica
e
colori
molto
vivaci
mentre
quella
caucasica
per
i
colori
molto
contrastanti
e i
disegni
a
grandi
poligoni.
Nonostante
le
particolarità
che
distinguono
il
tappeto
in
base
alla
zona
di
produzione
o
tra
nomade
e di
manifattura,
resta
peculiare
nel
tappeto
orientale
antico,
l’annodatura
a
mano,
i
nodi.
La
sua
confezione
richiede
una
lavorazione
laboriosa
e
lenta;
il
lavoro
procede
infatti
di
pochi
centimetri
al
giorno;
presuppone
un
telaio,
la
materia
prima,
soprattutto
la
lana,
l’annodatura
e la
rasatura
affidata
ad
abili
cesoie
che
possano
pareggiare
il
vello.
È
un’arte
povera
in
quanto
sostanzialmente
richiede
pochi
attrezzi,
ma
soprattutto
la
pazienza
e
l’abilità
dell’annodatore.
La
struttura
di
base
è
composta
dall’ordito
e
dalla
trama.
La
prima
operazione
consiste
nel
tendere
un
certo
numero
di
fili
tra
le
due
estremità
del
telaio,
prevalentemente
orizzontale
quello
nomade
perché
facile
da
smontare.
L’insieme
di
questi
fili,
paralleli
tra
loro,
forma
l’ordito
del
tappeto
mentre
le
estremità,
lasciate
libere
a
lavorazione
ultimata,
costituiranno
le
frange.
Intorno
all’ordito,
e
sempre
nel
senso
della
larghezza,
vengono
annodati
filati
di
colore
diverso,
operazione
che
inizia
sempre
dal
basso;
i
fili
della
trama
li
stringono
quindi
sull’ordito.
Due
le
tecniche
principali
dell’annodatura:
il
nodo
turco
(“ghiordes”
simmetrico
) e
il
nodo
persiano
(“senneh”
asimmetrico
).
La
colorazione
è un
altro
elemento
cardine
che
contraddistingue
il
tappeto
orientale
antico
perché
realizzata
con
coloranti
naturali:
il
rosso
con
la
cocciniglia
o la
radice
di
robbia,
un
arbusto
spontaneo
in
Persia;
il
blu
dalle
foglie
dell’indaco,
originario
dell’India
patria
dell’arte
antica
del
colore
tanto
da
derivarne
il
nome
nella
dicitura
in
latino
che
lo
vuole
“color
indicum”;
il
giallo
dalle
foglie
di
vite
e
dal
croco.
Per
dare
luce
a
tutti
i
suoi
fili
colorati
interverrà
la
mano
sapiente
del
rasatore
che
pareggiando
il
vello
permetterà
al
cromatismo
della
composizione,
nel
contrasto
di
luci
ed
ombre,
di
risplendere.
La
parola
rasatura
in
turco
vuol
dire
proprio
far
risplendere;
come
il
mosaico
anche
il
tappeto
è
l’arte
della
luce
che
domina
e
illumina
un’architettura
che
si
compone
di
bordure,
principali
e
secondarie,
e di
un
campo,
la
parte
centrale
racchiusa
nella
bordura
che
come
un
recinto
lo
delimita,
creando
due
momenti
separati
della
composizione
complessiva.
I
segni,
come
linguaggi
di
cui
si è
perduto
l’uso,
vanno
interpretati:
se è
evidente
la
separazione
tra
bordura
e
campo
essa
può
assumere
nello
stesso
tempo
la
funzione
di
proteggere,
come
un
recinto
a
chiusura,
uno
spazio
privilegiato.
Nell’archetipo
nomade
il
tappeto
aveva
sicuramente
la
funzione
di
separare
per
racchiudere
uno
spazio
protetto
all’interno,
ma
anche
delimitare
in
terra
un
pezzo
di
cielo,
i
due
mondi
separati,
ponendo
gli
spazi
delimitati
nel
tappeto
in
una
dimensione
metafisica.
In
iranico
“paradeisos”
indica
una
zona
recintata,
il
parco
degli
animali
e
delle
piante:
nel
tappeto
floreale
il
campo
racchiude
al
proprio
interno
il
giardino,
il
recinto
dei
vegetali,
il
paradiso.
Nel
tipo
più
noto,
presente
in
alcune
varietà
della
produzione
persiana,
che
compare
intorno
al
XV
secolo,
il
campo
è
diviso
a
crociera;
i
quattro
bracci
che
separano
quattro
aree
quadrangolari
hanno
un
disegno
ad
onde
di
colore
chiaro,
tra
azzurro
e
verde,
a
significare
quattro
ruscelli
che
confluiscono
in
una
vasca
centrale
costituita
da
un
piccolo
quadrilatero
incorniciato
al
centro.
Variante
di
questa
tipologia
è il
medaglione
centrale
ripetuto
in
quattro
quarti
agli
angoli
del
campo
popolato
di
animali
e
fiori,
un
giardino
in
una
prospettiva
rovesciata:
il
rosone
centrale
simbolizza
la
cupola
celeste
nel
cui
fulcro
fa
perno
l’albero
della
vita,
il
pilastro
sacro
che
unisce
cielo
e
terra.
I
quattro
quarti
le
albe
e i
tramonti
nei
solstizi.
Nel
campo,
dove
l’artista
dispiega
la
propria
creatività,
il
disegno
e i
motivi
risentono
delle
influenze
e
cambiano
a
seconda
del
periodo
storico:
l’influsso
bizantino
è
presente
ad
esempio
in
molti
tappeti
del
primo
medioevo
con
decorazione
ad
ornati
geometrici
e
animali
affrontati
come
in
quelli
ritratti
da
Filippo
Lippi
oppure,
tra
il
XV e
il
XVII
secolo,
nel
tappeto
mamelucco
in
Egitto,
il
disegno
si
ispira
alle
stoffe
copte
o,
come
nel
periodo
aulico
persiano
durante
la
dinastia
safawide,
risente
dell’arte
della
miniatura.
Questa
tipologia
di
tappeto
farà
il
proprio
ingresso
in
occidente
grazie
ai
frequenti
scambi
commerciali
che
intercorsero
tra
il
grande
sovrano
safawide
Shah
Abbas
(
1557-1629
) e
il
mondo
dei
notabili
veneziani,
la
curia
papale
e la
Polonia.
Cambia
in
questo
tipo
di
tappeto
la
decorazione
i
cui
motivi
nascono
da
altre
forme
d’arte,
soprattutto
la
miniatura
e la
calligrafia,
non
limitandosi
ad
assumerne
solo
alcuni
motivi,
ma
presupponendo
la
diretta
partecipazione
di
abilissimi
miniatori
nella
stesura
del
disegno
su
cartone
che
le
maestranze
si
limitavano
ad
eseguire.
Ne è
un
esempio
il
tappeto
“Ardebil”( conservato nel
Victoria
Albert
Museum
di
Londra)
nel
quale
colpisce
il
motivo
della
pagina
miniata
derivato
dall’arte
dell’alluminatore
e
del
calligrafo
per
la
pressoché
identica
proporzione
tra
la
bordura
e il
campo
derivata
dai
“piatti”
della
legatura;
il
disegno,
estremamente
minuzioso,
è
una
fantasmagoria
minuta
di
motivi
d’ornato.
Nell’
“Ardebil”
il
campo
è
riccamente
decorato
da
un
intreccio
di
motivi
floreali
e al
cui
centro
spicca
un
medaglione
che
raffigura
una
stella
a 16
punte.
Un
altro
esempio
prezioso
è
conservato
nel
museo
Poldi
Pezzoli
di
Milano;
è il
famoso
tappeto
di
caccia
che
porta
la
data
949,
non
perfettamente
leggibile,
della
sua
confezione
in
un
cartiglio
all’interno
del
medaglione
centrale
e
un’iscrizione
con
il
nome
del
suo
creatore.
Intorno
al
medaglione
centrale
una
scena
di
caccia
con
cacciatori
a
cavallo
e
prede
i
cui
moduli
stilistici
di
raffigurazione
ricordano
quelli
della
scuola
di
miniatura
persiana.
È
mutato
il
modo
d’essere
del
manufatto:
espressione
della
comunità
tribale
che
lo
raffigurava
e
utilizzava
oppure
espressione
della
tecnica
di
maestranze
abili,
ma
separate
dalla
tradizione
originaria
che
mutuano
l’alta
competenza
raggiunta
per
conferire
al
manufatto
uno
spiccato
valore
decorativo.
La
lunga
storia
del
tappeto
si
snoda
quindi
tra
tradizione,
evoluzione
e
contaminazione
nella
vasta
area
geografica
in
cui
ha
spaziato;
i
segni
segreti
che
raffigura
racchiudono
un
cosmo
culturale
sia
nella
connotazione
“protettiva”
del
tappeto
tribale
che
in
quella
estetica
del
tappeto
di
manifattura.
L’analisi
di
quelle
simbologie
ancestrali
fatta
dagli
studiosi
ha
rinvenuto
analogie
tra
stilizzazioni
appartenenti
a
tribù
lontane
tra
loro,
ma
avvicinate
dagli
scambi
comuni:
è il
caso
del
drago
che
si
stilizza
in
serpente,
nastro,
piuma,
nuvola
o
della
dea
madre
che
può
assumere
le
sembianze
di
una
clessidra
o di
un
farfalla.
Lo
spazio
geografico
del
tappeto
è
uno
spazio
solcato
infatti
da
una
vasta
rete
di
vie
di
commerci,
la
famosa
via
della
seta
dal
Mediterraneo
al
deserto
di
Gobi,
la
via
della
giada
dal
nord
ovest
asiatico
alla
muraglia
cinese,
la
via
delle
spezie
dall’estrema
Cina
ai
porti
dell’India,
la
via
delle
steppe
dalla
steppa
russa
fino
ai
confini
della
Cina
per
scendere
fino
all’India
tibetana
e
incontrare
a
est
la
via
della
seta.
Una
fusione
quindi
di
elementi
che
si
conservano
o
sfumano
in
altri
attraverso
i
nuovi
apporti.
L’indagine
diventa
difficile,
ma
davvero
preziosa
soprattutto
perché
indagare
l’opera
d’arte
significa
cogliere,
come
scriveva
Dewey,
l’asse
di
continuità
di
una
civiltà.
Nella
zona
dei
monti
Altai
e
prevalentemente
nella
pianura
altaica
attraversata
dall’Ob’,
popolazioni
nomadi
in
epoche
diverse
hanno
lasciato
i
loro
“kurgani”,
piramidi
di
pietra
di
dimensioni
variabili,
che
ricoprono
antiche
sepolture
con
tutto
il
loro
corredo
funerario:
selle,
bardature,
cavalli,
strumenti
musicali,
gualdrappe
e
tappeti.
In
una
di
queste
sepolture,
nella
zona
di
Pazyryk
,
valle
della
Siberia
meridionale,
l’archeologo
russo
Rudenko
tra
il
1947
e il
1954,
rinvenne
oltre
ad
altri
oggetti
funerari,
un
tappeto
di
età
tra
il V
e il
IV
secolo
a.C.,
custodito
oggi
nel
museo
dell’Ermitage
di
Leningrado.
Il
tappeto,
di
lana,
si
era
conservato
per
effetto
del
ghiaccio
che
ne
ha
permesso
l’analisi
e lo
studio
della
struttura
compositiva;
1,90x2,00,
3800
nodi
per
dm
quadrato,
nodo
simmetrico,
colori
rosso,
giallo,
verde,
avorio
ottenuti
dalla
cocciniglia
e
dall’indaco:
queste
le
caratteristiche
evidenti,
tutte
da
interpretare
le
simbologie
utilizzate
per
la
composizione.
Per
alcuni
studiosi
si
tratta
di
un
manufatto
proveniente
dal
centro
Asia
con
decorazioni
frigio-armene,
per
altri
è di
provenienza
medioorientale
o
cinese,
per
altri
ancora
è
sciita.
Su
quest’ultima
denominazione
pende
inoltre
da
sempre
il
difetto
della
genericità;
i
Greci
infatti
ci
indicavano
i
popoli
intorno
al
mar
Nero
e
dell’Asia
centrale
mentre
i
Persiani
tutti
i
popoli
delle
steppe.
Anche
la
lettura
della
simbologia
che
porta
impressa
non
li
ha
visti
tutti
concordi.
Secondo
il
suo
scopritore
si
tratta
di
un
tappeto
da
gioco,
per
altri
di
un
tappeto
funerario.
Nella
sua
architettura
complessiva
altri
rinvengono
la
struttura
del
mandala
e
simboli
sciamanici.
Il
campo
si
compone
di
24
riquadri
in
cui
è
inserito
un
simbolo
che
può
essere
letto
come
una
croce
divina
o
come
un
vegetale
che
nelle
fattezze
ripropone
la
“reseda
luterola”.
Chi
propende
per
questa
interpretazione
indica
i
vegetali
come
simboli
sacri
in
tempi
arcaici,
come
in
occidente
ad
esempio
la
rosa.
Il
campo
è
preceduto
e
racchiuso
da
ben
5
cornici
di
diverso
spessore.
La
prima
cornice
principale
è a
fondo
rosso
e
contempla
una
processione
di
cavalieri,
sette
per
ciascun
lato,
alcuni
in
sella
altri
di
fianco
alla
propria
cavalcatura;
nell’altra
cornice
principale,
a
fondo
bianco,
ventiquattro
cervidi
rossi
e
gialli
si
muovono
in
senso
contrario
ai
cavalieri.
Delle
rimanenti
cornici
che
delimitano
la
bordura,
una
presenta
decorazioni
a
quadrati
che
ospitano
ciascuno
al
proprio
interno
un
grifone,
un’altra
motivi
floreali,
quella
che
separa
la
processione
di
cavalieri
dalla
mandria
di
cervidi
al
pascolo,
reca
un
motivo
simbolico
che,
per
alcuni
commentatori,
ricorda
la
croce
di
sant’Andrea.
Particolare
il
significato
dei
quattro
cerchi
disposti
a
coppia,
due
nella
bordura
dei
grifoni
e
due
nella
bordura
dei
cavalieri.
I
segni,
sibillini,
hanno
fatto
esprimere
agli
esperti
pareri
confusi;
per
alcuni
rappresentano
la
ruota
solare,
per
altri
il
carro,
mentre
furono
interpretati
dallo
scopritore
Rudenko,
come
contrassegni
di
un
tappeto
da
gioco.
La
presenza
di
animali
cornuti
ha
invece
spinto
altri
ad
interpretarlo
come
funerario;
nel
mito
nordico
il
cervo
è
guida
al
regno
dei
morti,
il
cervo
bianco,
in
particolare.
Gnomi
e
demoni
cavalcano
cervi
e il
grifone
e il
serpente
ne
sono
i
principali
avversari.
Queste
simbologie
contenute
nel
tappeto
Pazyryk
hanno
portato
altri
studiosi
a
considerarlo
un
manufatto
regale
e
funerario
con
un’elaborazione
decorativa
altamente
complessa
e
con
una
lavorazione
enormemente
evoluta.
Il
campo,
diviso
in
24
quadrati
a
fondo
rosso,
risalta
per
la
presenza
di
un
fiore
all’interno
di
ciascun
quadrato
racchiuso
a
sua
volta
da
una
cornice
a
quadratini
che
ne
decora
il
bordo
esterno.
La
presenza
vegetale
nel
campo
è
stata
interpretata
come
l’ultimo
stadio
spirituale
dell’esistenza
attraverso
le
diverse
fasi:
del
grifone,
simbolo
dell’attaccamento
terreno,
del
cavaliere,
stadio
umano
che
avanza
verso
quello
del
cervo,
simbolo
di
morte
e
rinascita.
Il
tappeto
Pazyryk
racconta
antiche
e
complesse
credenze
rintracciabili
nei
miti
asiatici,
indù,
greci,
di
un
mondo
pastorale
nomade
che
le
ha
trasportate
e
diffuse.