N. 13 - Giugno 2006
TALAMON/TELAMONE
Il tempio e la
battaglia – Parte IV
di
Antonio Montesanti
Il
rilievo frontonale. L’analisi.
Il frontone di Talamone rappresenta, ad oggi, il documento
iconografico riguardante il mito dei 'Sette a Tebe'
più esauriente, cioè con più personaggi identificabili
e più completo nella realizzazione.
Il rilievo è costituito da un’ambientazione estremamente
vivace e movimentata dei personaggi, laddove non è
trascurato neanche l’aspetto emotivo o scenico. Il
momento in cui è stata “fotografata” la scena
frontonale è l’attimo successivo allo scontro
fratricida, narrato nella tragedia.
Centro.
Parte bassa.
Esattamente nel centro vi è la figura ‘perno’ dell’intera
vicenda: Edipo, evidentemente cieco, inginocchiato, ha
le mani alzate mentre si dispera, distrutto
psichicamente, per la mera sorte sua e della famiglia.
Indossa una tunica lunga, tipica dei re arcaici, ed un
mantello ricadente sulla spalla sinistra, ha le mani
rivolte verso gli dei e il cielo che acutizzano la
profonda disperazione che è possibile leggere sul suo
viso estremamente sofferente ed emaciato.
Il volto è allungato appositamente dall’artista con un
effetto ottenuto dalla smorfia di dolore, accentuata a
sua volta dalla verticalità della lunga barba; a
questa si contrappone l’orizzontalità delle ciocche
della capigliatura inarcata sulla fronte, che seguono
l’espressione dei solchi sopraccigliari contratti per
la sofferenza. Quello stesso dolore che, violento,
impotente e rassegnato, si completa espresso già nel
debole portamento, manifestandosi in maniera ancor più
impressionante nella bocca semiaperta e nello
'sguardo' degli occhi accecati, indicati soltanto da
una linea orizzontale separante le palpebre.
Edipo viene sostenuto da un personaggio, forse un aiutante
avvolto in un chitone cinto in vita, a maniche corte,
che lo sostiene da dietro, sotto le braccia.
A sinistra e
destra
del padre vi sono i figli: Polinice ed
Eteocle.
Il primo è plasmato, quasi in posizione a carponi, mentre
sta per accasciarsi al suolo o nel momento in cui
viene sostenuto, nell’ultimo tentativo di risollevarlo
di un inserviente, sorreggendolo sull'anca, in chitone
e mantello, che lo distacca dal suolo che il gemello
sfiora solamente con la punta del piede. La testa,
perduta, pendeva come il braccio destro verso il
basso; inoltre impugnava ancora nella mano la spada
che era applicata direttamene in metallo.
Indossa un’armatura flessibile al di sopra del chitone,
eseguita con grande precisione, costituita da una
serie di strisce verticali congiunte ad altre
orizzontali che presentano segni obliqui a cui si
accostano una duplice fila di placchette (ptéryges).
Del mantello resta qualche lembo panneggiato che si
diparte dalla spalla. Calza dei sandali con suole
chiodate.
Anch’egli è sostenuto da una figura maschile, certamente
non un guerriero, visto che è vestito esclusivamente
con una tunica ed un mantello tenuti da una fibula
circolare sopra lo sterno. Questo personaggio
trattiene il corpo di Polinice e si aiuta con la gamba
destra che pone sotto al suo bacino per aiutarsi nello
sforzo.
Alla destra del padre si trova invece Eteocle, nell’atto di
ricadere seduto a terra e col dorso in avanti in una
sorta di chiasma reale, in cui il busto è reclinato
all’indietro di circa 30° che lo porterebbe verso
terra se non si sostenesse con lo scudo rotondo che
tiene con la sinistra e che poggia al suolo, mentre la
testa, oggi perduta, reclinava direttamente sul petto.
L'avambraccio destro era poggiato sull'addome, come
dimostrano tracce sulla corazza. Anch’egli come il
fratello porta sul chitone un’armatura morbida e una
corazza anatomica forse di metallo, con duplice fascia
di ptéryges che cingono l'inguine ed le spalle,
coperte a loro volta da una piccola mantella, i cui
lembi erano appuntati sul petto. La presenza di un
elmo è confermato dai resti dei ciuffi del cimiero
presenti sulla nuca. Sandali a lunghe stringhe
fasciano le gambe fin su ai polpacci.
In quest'ultimo atto, Eteocle viene sostenuto da una figura
femminile genuflessa, nella quale alcuni hanno voluto
riconoscere la madre Giocasta, che è accorsa a
sostenergli il busto.
La madre, piegata sulle ginocchia, tiene su un lato il
figlio ferito che sta stramazzando al suolo lentamente
all’indietro. La donna porta un chitone coperto a sua
volta da un mantello svolazzante che la cinge alla
vita; è chinata verso di lui in uno dei gesti d’amore
più universalmente riconosciuti (Pietà
michelangiolesca) mentre lo sostiene da dietro le
spalle. La disperazione materna è sottolineata dalla
presenza di alcune ciocche di capelli che ricadono
disordinatamente sulle spalle.
In realtà non sappiamo a quale dei due fratelli
corrispondano le raffigurazioni plastiche e, per
questo motivo potremmo essere autorizzati a pensare ad
una inversione di ruoli o di figure, cosicché l’armato
alla destra di Edipo potrebbe essere Polinice,
sostenuto dalla sorella Antigone, che potrebbe essere
più verosimile visto il finale della tragedia in cui
si ricorda il rito funebre espletato dalla sorella.
Centro. Parte alta.
La centralità del soggetto sopradescritto indica la chiave
del dramma e quindi del messaggio. Prospetticamente
alle spalle di questa scena, che si trova in
primissimo piano, si completa il dramma: è l’atto
finale in cui si riconosce l’assalto ultimo per la
presa di Tebe mentre lo scontro si avvia a conclusione
con esito favorevole agli assediati.
Tre guerrieri in atto di scalare le mura sono disposti
secondo le linee discendenti del frontone, i pannelli
che li compongono si dispongono, secondo la
ricostruzione, al di sopra delle scene di disperazione
familiare.
La lastra di Capaneo invece lascia più dubbi, poiché, pur
essendo riconosciuto il personaggio è conservato in
maniera molto frammentaria e la ricostruzione non è
certa.
A differenza degli altri due personaggi, Capaneo, è
disposto quasi frontalmente sulla scala con la gambe tese. Il
corpo è nudo e indossa soltanto un mantello
svolazzante legato al collo. La mano destra il cui
braccio era piegato sul busto, impugnava probabilmente
una spada; della scala, invece, appoggiata alle mura
coreograficamente inesistenti di Tebe, sono
sopravvissuti solo alcuni frammenti: tra Giocasta e
l'aiutante di Edipo, uno dello staggio con un piolo,
sotto il mantello di Capaneo ed un frammento isolato,
la cui direzione, però, ci viene indicata anche dal
taglio marginale della lastra adiacente a sinistra.
Il braccio sinistro teneva forse uno scudo e il cadavere di
un guerriero o più probabilmente, un uomo di piccola
taglia armato di scudo rotondo ben presente nel mito
etrusco: esso si riscontra finora soltanto su quattro
urne chiusine ed in particolare sulla n. 105.
Una ricostruzione di questa figura non è stata possibile,
perché ne esistono forse solo altri due frammenti;
ciononostante, per indicare la presenza di quest'altro
guerriero, sono stati inseriti nel rilievo il suo
scudo ed il frammento di scala al posto più
verosimile, senza pretesa di esattezza.
L'identificazione di questo guerriero è discussa: sono
stati proposti il tebano Melanippo, portato da Capaneo
a Tideo ferito (versione tarda del mito Theb. ,
8, 745-750) o un anonimo guerriero tebano precipitato
dal muro. Si potrebbe anche identificarlo con il
figlio di Creonte, Meneceo, che si gettò dalle mura
per salvare la città con il suo sacrificio.
Ai lati di Capaneo si trovano altri due guerrieri nudi
mentre tentano anch’essi la scalata alle mura. Il
guerriero di sinistra, per chi guada, è armato di
scudo tondo verso l'alto, mentre il balteo scende a
tracolla sul petto, il braccio destro è pronto per
scagliare il fendente e lascia immaginare una spada
nella mano.
Dalla parte opposta, in maniera quasi identica e
simmetrica, per situazione ed armamento, si trova un
nuovo combattente. Dello scudo restano solo due
frammenti con ovuli che ne incorniciavano la
circonferenza.
Gli eroi speculari, di cui Capaneo che ne rappresenta lo
spartiacque, si muovono all’interno di uno spazio
indefinito e la loro posizione su di un piano elevato
deve essere interpretata come la risultante di una
ricerca prospettica in lontananza altrimenti
impossibile in un ambito così limitato come il
frontone.
Il motivo iconografico dei due aggressori nudi è ben noto
sia all'arte greca che a quella etrusca, ma la loro
disposizione simmetrica e la loro interrelazione
sembrano caratteristiche esclusive delle officine di
urne perugine.
Parte sinistra.
Nella parte sinistra del frontone, ancora più a destra di
Edipo, Adrasto barbato indossa un’armatura in
atteggiamento regale, fugge dal campo di battaglia
coperto alle spalle dallo scudo che tiene con la
sinistra, la gamba destra è in avanti, mentre la
sinistra, ruotata all’indietro, sorregge il peso e
rende la torsione del busto prestante.
Indossa una corazza di cuoio anatomica separata
dall’epidermide da un chitone, chiusa con due legacci
sulle spalle e rinforzata ai bordi aguzzi ed è coperta
sulle spalle da un mantello. Nelle parti mobili è
completata da una doppia fascia di ptèryges:
una sul bordo inferiore e l’altra, più corta, sulla
spalla, analogamente alle corazze dei gemelli.
Il disco a protezione del petto è quasi completamente
perso, d’altronde anche dell'elmo italo-corinzio è
andata perduta l’intera calotta; sono riconoscibili
ancora tracce del cinturone. La posizione dell'eroe
sembra dare un’aria d’indecisione.
Sul suo carro si trova una figura femminile ad ali spiegate
(Furia) che lo avvinghia quasi a volerlo accogliere
come per assisterlo o indicargli la via, ma alla quale
lui rivolge le spalle. La Furia avvicina la mano
destra al ventre e la sinistra alle spalle come se lo
accogliesse o gli rivolgesse un segno di affidamento
totale nei suoi confronti. L’abbigliamento dell’essere
infero è identico a tutte le altre presenti nel
rilievo: indossa una veste corta con bretelle
incrociate sul petto nudo al pari dell’intero busto e
delle braccia.
La loro interpretazione è ancora decisamente problematica
poiché non è chiara se queste figure proteggano, come
in questo caso, gli uomini, o li conducano negli
inferi o addirittura suppliscano le forze
sovrannaturali come esemplificazione di un ipotetico
affiancamento al cavallo magico Arione.
L'abitacolo rettangolare del carro ha pareti verticali
rinforzate e profilate leggermente ripiegate
all'interno, le ruote sono a otto raggi e sono rese
ellitticamente per restituire una resa prospettica; al
di sotto dell'abitacolo si trovava il timone che forse
terminava con una protome di animale. Il carro di
Adrasto, tirato nel mito dal solo cavallo magico
Arione, è rivolto verso l’alto ad indicare non solo la
salvezza del re argivo ma anche i poteri legati
all’equide.
Il carro è trainato verso sinistra, da due (o quattro)
cavalli in pieno galoppo, di cui uno quasi
completamente conservato. Le bestie travolgono due
guerrieri nudi caduti ed altri (presenti solo in
frammenti) che tentano di fermarlo. L'uno, di spalle,
al di sotto delle zampe anteriori del cavallo
s’impianta sul braccio destro mentre tenta di bloccare
con la sinistra la zampa anteriore dell’animale che
s’impenna.
L'altro, ginuflesso sulla gamba destra, è reso con la
parte inferiore del corpo schematicamente di profilo, mentre
quella superiore è ripresa frontalmente. Questi due
guerrieri conservano il cinturone della spada a
tracolla e i mantelli legati al collo. Il braccio
sinistro piegato tiene lo scudo tondo anch’esso
prospetticamente ovalizzato con l’orlo perlato; nella
mano destra sollevata brandiva probabilmente la spada,
in quanto la guaina appesa alla bandoliera è vuota.
Indossa solo una mantella corta svolazzante fermata
alla gola da una fibula circolare.
Dal cavallo Arione fino al vertice dell’angolo, almeno due,
o forse tre guerrieri caduti riempivano lo spazio fino
all'angolo frontonale.
Parte destra
Nella parte destra del frontone, in maniera speculare al
carro di Adrasto troviamo quello di Anfiarao. Qui la
scena è esattamente opposta, nella costituzione,
nell’intenzione scenica e nella direzione a quella
gemella del carro del re argivo.
Prima di passare ad analizzare la scena dell’indovino, si
osservi, a metà del discendente di destra, tra la
parte centrale e la sua quadriga, su un piano
superiore, una figura femminile alata con una fiaccola
verso il basso. Questa sembra incedere, quasi volando
verso il centro, mentre osserva il Vate e lo addita
con il suo braccio sinistro.
La figura veste un peplo e un apoptygma (fascia,
cinta) allacciato al di sotto del seno, lasciato
distrattamente scoperto; nell’incedere la gamba si
allunga spostando la veste pesante.
Non ci è dato sapere, vista la suddivisione prospettica su
piani differenti, se il suo avanzare fosse concepito
in volo o se appartenesse ad un’altra scena.
Probabilmente trattandosi del piano posteriore
attribuibile al fallimento della scalata della città,
la figura femminile incede verso i guerrieri che sono
destinati a perire nell’impresa e osserva a malincuore
Anfiarao che le sfugge.
Si differenzia dalle furie per l’abbigliamento per
l’acconciatura e per l’espressione corrucciata.
Questa non ha né confronti e né paralleli nell'arte etrusca
e viene ritenuta un’accompagnatrice dei morti.
Fra lei e la quadriga è stato collocato il torso di un
guerriero vestito come i due fratelli e come i
guerrieri sui carri. Il braccio destro, molto
sollevato, lascia supporre che si stesse lanciando in
un attacco.
Anfiarao, barbato, a cui Zeus ha concesso un destino
importante, si trova su una quadriga che scompare
obliquamente verso le viscere della terra e per questo
viene indirizzata, ‘instradata’, da tre figure
femminili alate che in Etruria accompagnavano le anime
dei morti nell’Aldilà. Per questo Anfiarao sembra
distogliere lo sguardo dalla terra nella quale sta per
entrare o forse per guardare per l’ultima volta il
guerriero frammentario con corazza alle sue spalle.
Anche Anfiarao si trova su un carro, il cui parapetto è
ovale e le cui ruote sono compresse essendo collocate
obliquamente. Come Adrasto, indossa, su un corto
chitone, una corazza di cuoio, decorata da una stella,
porta un elmo italo-corinzio ed ha la spada al fianco.
Molto efficace è la resa del mantello che, fermato in
vita, si agita al vento.
Con il grande scudo rotondo il Vate si copre la parte
sinistra del corpo, mentre il braccio destro, come in
tutte le sue rappresentazioni fin qui citate, è
sollevato in un gesto di terrore con la mano
spalancata, a giudicare dai frammenti conservati. Il
suo sguardo è abbassato e volto all’indietro verso la
Furia che emerge dal terreno. La quadriga, circondata
da tre esseri demoniaci, costituisce sicuramente il
gruppo artisticamente più efficace del rilievo
frontonale.
Nell’angolo di destra, un giovane demone maschile, dal
sottile naso adunco, le orecchie ferine e piccole ali
sulla testa, emergente dalle viscere della terra,
rivolto verso i cavalli, trascina il primo di essi
verso gl’Inferi, da cui fuoriesce con il solo busto e
dove Anfiarao proseguirà nella sua opera di vate.
Il demone ha un mantello sulla spalla destra; inclina il
busto, in uno sforzo evidente, dalla tensione della
muscolatura all’indietro, come per afferrare i cavalli
ed assorbirne l’urto allo stesso tempo, tanto da
sporgere in posa plastica al di fuori del campo
frontonale; nelle sue mani forate avvinghiava le
redini che originariamente erano metalliche.
Il personaggio che ‘afferra’ il carro, riconosciuto da v.
Vacano come maschile ed identificato come 'Caronte', è
una variante di Hermes, il dio che ha funzioni di
accompagnatore. Alcuni rilievi di urne etrusche con il
ratto di Persefone, illustrano i diversi gradi del
passaggio da Hermes a un personaggio giovanile, con
orecchie ferine e ali sulla testa.
Il coroplasta deve essersi ispirato a rappresentazioni di
questo tipo per introdurre nel mito questa figura
demoniaca. Al contrario, per il particolare schema
iconografico con più Furie o personificazioni ad esse
affini (ad es. Ananke), mancano ad oggi
paralleli nell'arte greca e suditalica.
Due Furie alate lo assistono nello sforzo, vestite di un
corto chitone con il petto nudo sottolineato da due
fasce che si incrociano al centro. Una sporge dagli
inferi fino al bacino ed impugna una spada in
terracotta con la destra, mentre con la sinistra
probabilmente tirava a se le redini del cavallo più
esterno della quadriga.
L'altra Furia, dietro i cavalli, è visibile fino al busto:
il braccio destro sollevato doveva frustare gli
animali. Dietro al carro di Anfiarao doveva spuntare
una terza Furia, della quale si riconoscono solo due
frammenti. Al pari del demone, anche le Furie hanno
sulla testa piccole ali, intorno alle quali si
dispongono i capelli sollevati in tre ciuffi; una
cuffia cinge le loro tempie e la calotta mentre le
frange incurvate all'indietro la coprono e dalla nuca
scendono invece lunghi riccioli.
La cuspide dell'angolo frontonale è colmata da una figura
ammantata, conservata solo per metà, ferito che si
puntella all'indietro ed una pelta, nella quale alcuni
riconoscono un ferito. , chiudono a destra il rilievo
frontonale.
Ricostruzioni
W. v. Vacano proponeva di inserire subito a destra di
Polinice, ossia del gemello alla sinistra di Edipo, la
figura di Partenopeo, sulla base di analogie di altre
rappresentazioni e di frammenti non inseriti nella
ricostruzione. Dei sette guerrieri argivi tre sono
identificabili con certezza: Adrasto, Anfiarao e
Capaneo, se lo riconosciamo nel guerriero a destra che
scala le mura.
Durante gli scavi vennero rinvenuti anche i frammenti di
due statue, sempre in terracotta, di cui una quasi
integra mentre la seconda riconoscibile solo da
pochissimi frammenti, che sono stati identificati come
due 'geni' alati e portatori di fiaccola. In un primo
momento si tentò di inserirli nel rilievo frontonale,
ma ben presto ci si rese conto che dovevano essere
esclusi dalla ricostruzione.
Questa avvenne grazie ad un sapiente e non troppo complesso
lavoro di raffronto iconografico. Vennero prese tre
urne etrusche che sembravano avere le caratteristiche
più coincidenti con i pannelli del frontone
ricostruiti e quindi venne proposta la ricostruzione
dell’intero ciclo.
Queste tre urne cinerarie illustravano il mito dei 'Sette
contro Tebe' ed avevano in comune scelte iconografiche
molto simili all’opera di Telamone, in particolare la
centralità di Edipo e le figure dei figli ai lati. Le
urne erano una perugina (Villa Giulia 50314), una
chiusina (Chiusi 215) ed una volterrana (Volterra
374). La prima mostrava, dietro Edipo, Capaneo
nell’atto di arrampicarsi sulla scala affiancato dalle
figure di due guerrieri; la seconda rappresentava due
quadrighe in fuga in senso opposto divergenti dal
centro – il gruppo di Adrasto sembrava identico a
quello del frontone! – con Capaneo che si arrampicava
sulla scala; mentre l’ultima restituiva chiaramente lo
schema delle quadrighe.
L’intero schema venne ricostruito totalmente nel momento in
cui, partendo delle urne, s’individuò nella figura
femminile che sostiene uno dei fratelli, attaccato al
chitone, un frammento della scala sulla quale il
combattente nudo visto frontalmente appoggia il piede
sinistro: questo elemento consegnava la prova sicura
che la parte centrale si trovava in basso e che era
sovrastata da una parte più alta.
L’urna Villa Giulia 50314 restituiva anche il duce argivo
nudo di spalle identico nel frontone, che in un primo
tempo venne considerato l’auriga di Adrasto; in
seguito identificato nel torso di Capaneo, il
palafreniere di Anfiarao, Baione.
Si pensò dopo poco che il lungo bastone al fianco del
mantello non era una parte del carro e allora fu
facile riferirlo alla scala, identificandone così il
personaggio.
Veniva così costituito l’asse centrale formato dalla
simmetria del gruppo di Edipo e i figli e dal
sovrastante Capaneo sulla scala, che comunque non ci
restituiva l'altezza assoluta del rilievo, che doveva
giungere quasi fino al vertice del timpano.
A questo punto era possibile tentare una ricostruzione
matematico-geometrica dell’intero frontone, tramite
l’adattamento dei frammenti alle lunghezze ed
inclinazioni dei lati brevi del triangolo. Purtroppo
questo tentativo cadeva anche con la misurazione
dell’inclinazione dei lati che non formava un
triangolo isoscele ma scaleno (a sinistra 15° 30', a
destra 18°). Da tale misurazione si otteneva l’angolo
del vertice superiore, e da esso la lunghezza
dell’intero frontone di 8, 80 m ca. per un’altezza di
1, 50 m ca.
Queste misure coincidevano esattamente con numeri interi se
divise per la misura di un piede etrusco-italico (=
29, 4 cm) dando rispettivamente 30 piedi di lunghezza
e 5 di altezza. Questo risultato trovava la sua
conferma nella ricostruzione della pianta e
dell'alzato del tempio, elaborata indipendentemente.
Ancora oggi dopo accurati studi e ricerche non si è ancora
certi della ricostruzione proposta. In linea di
massima sono stati individuati i personaggi chiave con
le dovute riserve e posizioni, in senso sommario. La
parte sinistra, per chi guarda, concernente il carro
di Adrasto sono state scelte distanze dall'angolo in
modo che, immaginando anche per il re argivo una
quadriga al pari di Anfiarao, si possano distribuire
quattro cavalli, anche se tutti i frammenti potrebbero
essere riferiti anche al solo Arione.
Inoltre la ricostruzione del personaggio centrale nudo si
basa esclusivamente sul confronto con l’urna perugina,
il suo posto potrebbe essere alternato con la Furia
con la fiaccola rovesciata o con il guerriero con
corazza frammentario.
Una analisi del gruppo di Anfiarao, mostra in quale misura
proprio i demoni, che il coroplasta ha affiancato al
carro, accrescano con la loro visione obliqua la
dinamica della scena: la Furia che frusta i cavalli e
spinge il carro fuori del campo frontonale, quella con
la spada che sembra invece frenare e trattenere il
cavallo a lei più vicino ed infine il demone che
indica la direzione e trascina gli animali con sé
nell'abisso. Inoltre, anche le teste molto ben
conservate ed espressive dei demoni e dei cavalli
frementi, contribuiscono ad evidenziare la
drammaticità dell'azione.
Interpretazioni
Le dimensioni ridotte del tempio, desunte da una errata
ricostruzione del frontone come allegoria storica,
indussero a pensare che si trattasse di un'edicola,
eretta quale ex voto per la vittoria romana sui Galli
nella grande battaglia di Talamone dell'anno 225 a.C.
Dubbi interpretativi permangono ancora sulla presenza e
sull’attribuzione dei c. d. Geni della Morte che, pur
appartenendo alla decorazione del tempio, non è
pertinente al rilievo dei "Sette a Tebe". Ciò
nonostante dovevano essere separati e posti o
lateralmente all’ingresso o sulle colonne più esterne
o in alto come acroteri.
L’ipotesi di collocamento cronologico subito dopo la
battaglia contro i Galli del 225 a. C. a cui
parteciparono contingenti etruschi alleati, vede una
metodica detstrutturazione topografica per
l’abbinamento Tempio – Battaglia o per lo meno
Frontone – Battaglia. W. v. Vacano affermava che,
avendo avuto luogo, come risulta dalle recenti
ricerche di Sommella, nei dintorni del Poggio
Ospedaletto a 3 Km. dal colle, nei pressi dell’Osa, “è
inverosimile una sua relazione diretta con il tempio
del Talamonaccio, di là non visibile”.
D’altro canto accettava di buon grado la fase di
distruzione del Tempio con lo sbarco di Mario
rientrato dall'Africa nell'87 a.C. , dove qui
riorganizzò la lotta contro Silla e dopo aver
assoldato un manipolo di mercenari si mise in cammino
verso Roma. Per questo motivo l’intero centro antico,
che in seguito sarebbe stato spostato nell’attuale
centro moderno, sarebbe stato distrutto da Silla in
una delle sue tante rappresaglie, e i cui segni sono
ben visibili nelle fasi di distruzione del tempio.
Tuttavia non abbiamo alcuna notizia che relazioni
l'incendio con la vittoria delle truppe sillane
dell'82 a. C. presso la colonia romana di Saturnia,
situata nell’entroterra vulcente lungo la valle dell'Albegna.
Anche se l’intera zona fu teatro continuo di scontri
tra mariani e sillani non si svolse in Maremma fino a
Chiusi.
W. v. Vacano datava il rilievo intorno al 150 a. C. sulla
base di criteri storico-artistici: le formelle fittili
che compongono l’opera sono contemporanee e messe in
opera alla stesso tempo, rispetto alle lastre di
rivestimento dell'architrave e dei travicelli. Le
stesse caratteristiche tecniche del tipo
ornamentazione sarebbero della stessa officina di
quelle corrispondenti del tempio D di Cosa, datate su
basi stratigrafiche alla metà del II sec. a.C.
Inoltre veniva tirato in ballo il maestoso altare di
pergamo le cui ‘nuove’ espressioni facciali
conferivano un nuovo volto all’arte e influenzavano a
loro volta i modelli classico-ellenistici di IV sec.
a.C.
Le figure che avrebbero dovuto rappresentare un prototipo
per il rilievo frontonale erano Alcioneo sull’altare
pergameno (Pergamon Museum, Berlino) e il Laocoonte
del gruppo omonimo (Musei vaticani, Roma), in cui
l’espressività facciale dei soggetti, contemporanea
con le datazioni proposte dallo studioso tedesco, bene
si conciliava con le datazione del rilievo e del
gruppo statuario.
In questo caso sarebbe errato definire il frontone come “il
più grande esempio di coroplastica templare etrusca
poiché nel 150 a.C., la regione era ormai da oltre di
un secolo abbondantemente romanizzata. Sappiamo che il
substrato tirrenico permase radicato fino al termine
del millennio, ma non probabilmente in queste aree,
almeno non così a lungo. In queste zone che videro
l’istallarsi della prima colonia romana, di diritto
latino, già nel 273 a.C.
Sarebbe più opportuno, ad oggi, chiederci realmente il
significato semantico di un tempio che guardava la
colonia romana collocata dall’altra parte
dell’Argentario. Un mito come quello dei ‘Sette contro
Tebe’ che aveva nella chiave la disperazione di Edipo
e il duplice fratricidio doveva necessariamente
ricondurre ad un significato storico imponente.
Una nuova rivisitazione degli elementi inscenati al suo
interno che riporterebbero a nudità eroiche, coperte
di solo mantello, a personaggi degli inferi già
codificati e rintracciabili nelle tombe delle
principali città dell’Etruria Meridionale e
soprattutto un confronto con gli armamenti e le
strutture dei carri dei personaggi, potrebbero
ricondurre ad un periodo molto più antico rispetto
alla datazione tradizionale: il frontone avrebbe così
realmente dato un’interpretazione degli eventi storici
che trova puntuale riscontro per tutti gli elementi di
cui sopra, nelle rappresentazioni della Tomba François
di Vulci, in un territorio del tutto pertinente in cui
i paragoni e i confronti sono talmente tanti da
lasciare più di qualche dubbio sulla reale
attribuzione cronologica attuale.
I soli confronti delle panoplie degli armati, ma anche la
fisionomia degli stessi, presentano analogie
sconcertanti (Anfiarao e Adrasto con i due Aiaci)
oppure la presenza del genio della morte tra Patroclo
e Achille e quello con la torcia verso il basso, senza
andare a ricercare la raffigurazione del fratricidio
che diamo per scontata.
Il messaggio nel territorio vulcente di un legame fraterno
con Roma è recepito dalla popolazione che usa l’arte,
la storia e il mito per spiegare quello che
razionalmente non è concepibile: uno scontro, forse,
durissimo tra genti che una volta erano legati da una
fratellanza indissolubile e che si concluderà con lo
schiacciamento degli Etruschi del Sud tra gli ultimi
anni del IV sec. ed i primi 30 (colonia di Cosa) del
III a.C.
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