N. 12 - Maggio 2006
TALAMON/TELAMONE
Il tempio e la
battaglia – Parte III
di
Antonio Montesanti
Evoluzione mitica
Se in Grecia, madre della storia e delle leggende, di Dei
ed Eroi, il mito era immutabile, qualcosa di
estremamente prefissato, in cui poteva variare una
versione, ma non di certo la struttura stessa del
racconto, in Etruria questi venne ad assumere una
valenza differente che presso i Greci stessi.
Ad oggi, in base alle testimonianze di tipo iconografico,
possiamo affermare con assoluta certezza che gli
Etruschi recepirono si il mito greco, ma che esso
aveva un valore differente. Mentre per i Greci i miti,
le narrazioni potevano essere qualcosa di prefissato,
con caratteristiche peculiari e la cui narrazione
veniva presa da spunto dagli artisti e probabilmente
dalle persone che assistevano alle rappresentazioni
teatrali in molteplici aspetti e forme di esso, tra
gli etruschi il Mito sembra portare sempre unico ed
inequivocabile messaggio.
La corrispondenza tra mito e apprendimento in Grecia
corrisponde ad una serie di informazioni e messaggi di
tipo ideale o empirico, mentre il mito greco in
Etruria è fonte di un messaggio unidirezionale.
È per questo che gli artisti, manifatturieri o letterari,
esplicarono in madrepatria il mito sotto una miriade
di molteplici forme, spesso prendendo, nel caso
dell’artista figurativo, un quantitativo notevole di
episodi afferenti ad un unico mito e che spesso dei
quali ne poteva rimanere nell’immaginario collettivo,
famoso uno solamente.
Nelle rappresentazioni potevano variare i dettagli
decorativi, lo svolgimento delle azioni, ma lo schema
di base rimaneva per lo più inalterato. Estremamente
difficile era, piuttosto, la possibilità che uno
schema figurativo o epico del periodo arcaico venisse
cambiato o rimosso. Al contrario, piuttosto comune era
la possibilità che altri schemi ‘mitici’ venissero ad
aggiungersi.
Ancora più variegato, invece, era il panorama che
riguardava la schematizzazione del mito sotto il
profilo letterario.
Al contrario del profilo artistico propriamente manuale lo
schema è rappresentato dal mito medesimo e non da una
sua immagine o da un momento, ma questa volta è lo
schema il mito stesso sul quale costruire, prendendo
dai meandri della mente umana, l’anima della
narrazione.
Attorno alla guerra di Troia nacquero aggiunte, le stesse
che nell’arte figurata diventavano struttura ma che in
quella letteraria erano sovrastruttura, e questo lo
sappiamo perché conosciamo e riconosciamo gli
originali o quelle opere che ci sono state tramandate
nella loro forma originaria.
Agli esordi del V secolo a.C., in uno slancio di coscienza
comune, in seguito alla scongiurata invasione
persiana, la Grecia ha un fremito culturale che già
era iniziato proprio durante i tentativi d’invasione
achemenidi.
Forse la necessità di rendere il popolo cosciente ed edotto
dei fatti perché si rendesse partecipe attivo degli
eventi modifica notevolmente la realtà del teatro
greco.
Sappiamo che prima di questo periodo, ad Atene, già si
svolgevano degli agoni teatrali, gare che
rappresentassero atti scenici durante le feste
Dionisie.
Dobbiamo pensare che ancora nel 534 a.C. anno in cui la
vittoria venne assegnata a Tespi, considerato
l’ideatore della tragedia moderna, le rappresentazioni
che dovevano commuovere il pubblico, ossia
coinvolgerlo, fossero ancora di tipo arcaico,
embrionale, primitivo. Era ancora previsto un corteo
composto di satiri e menadi che precedeva un coro che
cantava intorno ad un'ara su cui veniva immolato un
capro, animale sacro a Dioniso.
Tespi fu dunque il riformatore e ‘rivoluzionatore’ del
teatro o dell’idea che prima se ne aveva, tanto da
divenire una figura ‘semimitica’ e, se Tespi sta alla
rivoluzione teatrale antica allora Eschilo, di un
trentennio posteriore, sta alla rivoluzione stilistica
teatrale.
In una calda sera del mese di Elafebolione (marzo-aprile)
del 467 a.C., ad Attene, Eschilo riceve la corona
d’ulivo per la vittoria nell’agone teatrale con la
trilogia dedicata al ciclo tebano: I 'Sette contro
Tebe', la più antica tragedia conservata, costituiva
l’apoteosi, il picco, il frammento mancante, in cui le
altre due il 'Laio' e l"Edipo', costituivano gli
altari all’ultima, considerato un capolavoro
indiscusso, corredato dal dramma satiresco 'La Sfinge'.
Il dramma di Edipo e l’incalzante e pietoso destino che
perseguita lui, la sua famiglia e la sua stirpe e ci è
consegnato dal passato dall'unica tragedia conservata,
i 'Sette contro Tebe', appunto.
Per anni, i drammaturghi cercheranno nella rappresentazione
delle sventure, preformulate dall'epos, di
Edipo e dei suoi discendenti, una formula nuova che
avesse potuto mandare un messaggio potente in grado di
smuovere gli animi per far comprendere tramite questo
sommovimento l’eventualità delle azioni umane
rispetto, non più agli dei, ma al fato.
Come detto una struttura, che in questo caso ebbe la
funzione di ‘schema’, venne riutilizzata e modificata
nei contenuti successivamente dallo stesso Eschilo,
che rispolverò il materiale mitologico per dargli una
nuova veste cercando di condurre la tragedia
all’esasperazione teatrale, nelle 'Supplici', in cui
viene mosso uno dei temi, un altro ‘schema’, che per i
Greci era il dramma più grande: il seppellimento delle
persone care da parte dei figli, che supplicano, al
pari di Priamo con Achille, affinché possano
seppellire i padri.
Lo stesso Sofocle prenderà spunto dallo stesso mito: la sua
'Antigone' prevarrà sulle altre tragedie concorrenti
nel 440 a.C.; nel 430 a.C. scriverà l’‘Edipo re’ e
tale e anta sarà la fortuna di quest’ultima che ancora
nel 401 a.C. verrà rappresentata postuma alla morte
del tragediografo l’‘Edipo a Colono’.
Euripide, narrando in maniera esemplare l’ineluttabilità
della sorte, scriverà le ‘Fenicie’, che prende il nome
dalle fanciulle, destinate al santuario di Apollo a
Delfi, che costituiscono il coro. Rappresentata fra il
411 ed il 408 a.C., viene considerata la tragedia del
ciclo tebano più vicina al rilievo del frontone di
Talamone, quanto secondo O.W.v. Vacano, Edipo è
protagonista, vivendola nel momento in cui si compie,
della sua maledizione sotto le mura della città di
Tebe.
Il mito
La saga o ciclo tebano narra che le premesse alla tragedia
umana che si consumò sotto le mura di Tebe, capitale
della Beozia, iniziarono in un periodo mitico “tre
generazioni prima della guerra di Troia”. Laio, re di
Tebe, si dannava l’anima perché non poteva avere figli
ai quali lasciare il suo regno. Per questo si rivolse
all’oracolo di Delfi, e interrogatolo rispose che se
avesse voluto un discendente, Apollo lo avrebbe
accontentato, ma che suo figlio sarebbe stato anche
causa della sua morte perché lo avrebbe ucciso.
Non passò molto che Giocasta, moglie di Laio, partorì un
maschio. Ricordandosi della predizione, Laio, per non
commettere infanticidio, fece bucare i piedi del
figlio, attraverso i quali venne legato nei boschi del
monte Citerone ed esposto alle belve. Il piccolo venne
trovato e tratto in salvo da un pastore, che gli dette
nome Edipo (colui che ha i piedi gonfi) ed in seguito
lo consegnò a Pòlibo, re di Corinto, il quale non
aveva figli e per questo lo adottò e allevò come
legittimo erede e successore al trono della città
istmica.
Divenuto adulto Edipo venne a conoscenza del passato e per
questo si recò a Delfi dove l’oracolo gli predisse le
sue sventure: che avrebbe ucciso il padre, sposato la
madre e generato dei figli che sarebbero stati suoi
fratelli. Credendo che il dio si fosse riferito al suo
presunto padre Pòlibo, Edipo si allontanò da Corinto
per evitare il misfatto.
In quel periodo, Tebe era in balia della Sfinge, creatura
mostruosa, figlia di Echidna e di Tifone o di Ortro e
di Chimera, a seconda delle versioni, giunta in Beozia
dall’Etiopia. Il suo corpo era un incrocio: la testa
di donna corpo di leone, coda di serpente e ali di
aquila. La Sfinge venne mandata nelle campagne tebane
per punire gli abitanti della regione, perché Era, la
moglie di Zeus era adirata con Laio, che aveva rapito
il giovane Crisippo di Pisa. Risiedeva sul monte Ficio
e a tutti i viaggiatori che incontrava poneva il suo
quesito che aveva imparato dalle Muse:
«Qual’è quell’essere, che ha una voce
sola, che alla mattina ha quattro piedi, al pomeriggio
con due e alla sera tre, e più sono ed è più debole
quanti più ne ha?».
Chi non rispondeva veniva divorato sul posto.
Durante il suo esilio, lungo la strada tra Delfi e Tebe,
Edipo incontrò il corteo di Laio, che si stava
dirigendo in direzione opposta per chiedere consiglio
ad Apollo perché lo liberasse dalla Sfinge. Laio che
ovviamente non riconobbe il figlio, fece scansare lo
straniero, al quale un cavallo del carro reale gli
pestò un piede ed invece delle scuse ricevette anche
una frustata. Preso dall’ira uccise tutti escluso un
vecchio del corteo che tornò a Tebe raccontando il
fatto ai concittadini. La prima parte della predizione
si era avverata, Edipo aveva ucciso il padre.
Saputo l’accaduto, ossia che Laio era morto, i Tebani
proposero che chi avesse sconfitto la Sfinge,
risolvendo l'enigma, sarebbe divenuto re di Tebe e
sposato la regina ormai vedova.
Edipo prima di giungere a Tebe s’imbatté nella Sfinge che
anche a lui ripropose l'enigma. Edipo lo risolse
immediatamente, rispondendo che era l’uomo l’essere a
cui si riferiva il mostro, poiché:
«Quando nasce cammina a carponi e
quindi con quattro piedi; quando è nel fiore degli
anni con due, e nella vecchiaia si aiuta con un
bastone che è per lui il terzo piede».
Alla risposta la Sfinge si uccise gettandosi giù dal monte
Ficio.
Una volta giunto in città, Edipo venne accolto come un eroe
e Creonte, che faceva le veci del re, gli concesse il
trono di Tebe ottenendo in premio la mano della vedova
regina Giocasta.
La seconda parte dell'oracolo prendeva dunque forma: Edipo,
inconsapevole, si era unito alla madre.
Ignari di essersi sposati a vicenda, figlio e madre, per
quindici anni, sotto il loro regno fecero prosperare,
amati, il popolo e il paese, generarono quattro figli
gemelli a coppie, due maschi e due femmine: Eteocle,
Polinice, Antigone, Ismene.
Tebe, fu afflitta allora da una tremenda pestilenza e per
scacciare la quale venne consultato ancora una volta
la Pizia a Delfi che rispose che l’uccisore di Laio
doveva essere scacciato da Tebe, affinché il morbo
cessasse. Ma non trovandolo, poiché Edipo non sapeva
di ave ucciso il re di Tebe, venne interpellato
l’indovino Tiresia che rivelò tutta la storia.
Incredulo si rivolse ad un cortigiano di Corinto che oltre
a metterlo al corrente della morte di Pòlibo, gli
ricordò che lui era stato adottato. Giocasta, presente
al dialogo si rese conto delle disgrazie che li
attendevano. La coppia quindi si punì per il misfatto
incognito: Giocasta si suicidò impiccandosi ed Edipo
si tolse la vista con una fibbia dell’abito della
moglie.
La disperazione scese su Tebe; Edipo per un periodo
visse da recluso, confortato dalle figlie ma dannato
dai figli.
Da questo punto inizia il collegamento diretto con il
frontone di Talamone.
Quindi si svolse la diatriba su quale dei due figli dovesse
succedere ad Edipo, e dopo diverse discussioni e
soluzioni giunsero all’accordo di regnare un anno per
uno; il primo che avrebbe regnato sarebbe stato
Eteocle e l’anno successivo sarebbe toccato a Polinice
che secondo gli accordi sarebbe dovuto rimanere
lontano dalla città.
Nel frattempo Polinice si recò in esilio ad Argo con la
speranza di sposare una delle due figlie del re della
città Adrasto: Egia o Deipile. Anche Adrasto ricorse
all’oracolo delfico per scegliere i mariti tra i
pretendenti delle figlie e il responso divino fu il
seguente:
«Aggioga a un carro a due ruote il cinghiale e il leone che
combattono nel tuo palazzo».
Il cinghiale era rappresentato da Tideo di Calidone
(simbolo della città) mentre il leone era quello
tebano di Polinice che vennero “assegnati”
rispettivamente a Deipile e ad Egia.
Passato l’anno, al momento di passare il trono di Tebe al
fratello, Eteocle si rifiutò non rispettando gli
accordi.
Polinice, ormai genero di Adrasto, tornò nella città nella
quale aveva passato il suo anno di esilio e si rivolse
al re di Argo, il quale riunì tutti i capi argivi per
una guerra contro lo spergiuro e l’ipocrita Eteocle. A
Polinice si unirono immediatamente lo stesso Adrasto,
Tideo, Capaneo, Ippomedonte, Partenope e per ultimo
Anfiarao, cognato del re argivo, il quale aveva poteri
da veggente e che si dimostrò riluttante poiché
previde che la spedizione avrebbe avuto un esito
infelice.
Lo scontro fratricida tra i figli/fratelli di Edipo (che
torna di nuovo a Tebe per trovare un accordo) e
l’indignazione, lo portarono Edipo a maledirli,
dicendo che avrebbero dovuto dividersi il regno con le
armi e, dopo aver benedetto Teseo e le proprie
progenie, sprofondò nell’oltretomba.
Il frontone sembra riprendere un unico soggetto comune ai
‘Sette contro Tebe’ di Eschilo o alle ‘Fenicie’ di
Euripide,il quale prendendo spunto dal suo
predecessore, inizia descrivendo la situazione
immediatamente precedente all’assalto alla rocca
tebana. Ora, l’obbiettivo è il riconoscimento della
tragedia dalla quale prese spunto il mito etrusco che
si proietta nella coroplastica frontonale di Talamone,
per un duplice motivo: cronologico e semantico.
La versione del mito nei ‘Sette contro Tebe’ di
Eschilo
La tragedia si apre con Anfiarao nell’inutile tentativo di
dissuasione nei confronti di Adrasto, a partire per la
spedizione poiché l’indovino conosceva l’esito della
campagna.
I sette di Argo giungono a Tebe e ognuno si dispone
presso una porta perché l’assalti. Eteocle grazie ad
un “gioco semantico” impresso sugli scudi degli
attaccanti, pone ad ogni porta il giusto difensore.
Capaneo si scaglia violentemente contro la porta
Elettra, di fronte a lui si trova Polifonte.
Nell’impeto si vanta del fatto che neanche Zeus
medesimo gli avrebbe impedito la scalata, il Dio,
indispettito allora lo incenerisce con un fulmine.
Tideo nel tentativo di prendere la porta Pretide,
viene ferito da Melanippo, posto a difesa di essa.
Atena stava per soccorrere Tideo, ma Anfiarao, che
odiava l’argivo suo compagno di battaglia perché li
aveva spinti alla guerra, prevedendo che Atena
l’avrebbe salvato, taglia con colpo di spada la testa
di Melanippo, invitando Tideo a divorarne il cervello
come segno di vendetta. La dea Atena accorsa a
salvarlo, presa dal disgusto, lo lascia morire. Solo
allora Anfiarao potè riprendere il posto presso la
porta Omolea, che era difesa da Lastene.
Presso le altre porte si affrontavano Adrasto e Megareo
alla porta Neistana, Iperbio ad Ippomedonte alla
Oncaide, Partenopeo ad Attore alla Borrea , mentre la
settima e ultima porta, la Ipsistiana, era difesa
direttamente da Eteocle al quale si contrappone
direttamente Polinice.
Polinice propone al fratello di scontrarsi in una disfida
singola in modo da porre fine al massacro. Eteocle
accetta, i due si scontrano e si uccidono
vicendevolmente e in questo modo si compie la
maledizione invocata dal padre.
I sopravvissuti argivi tentano un ultimo, disperato
assalto alle mura di Tebe che resiste grazie alla
prontezza dell’ultimo discendente di Cadmo, Creonte,
fratello di Giocasta, che prende in mano le redini
dello scontro conducendo alla morte tutti gli sfidanti
esclusi Adrasto, che riesce a sfuggire al suo destino
grazie al suo magico cavallo Arione, e Anfiarao,
pronto ad abbandonare l’assedio, il quale quasi
raggiunto dalle frecce nemiche durante la fuga, viene
tratto in salvo da Zeus, il quale, riconoscendogli il
valore delle armi, squarcia la terra che lo inghiotte
con tutto il suo carro andando a regnare fra le ombre.
Nell’ultimo atto Creonte prende la decisione che il corpo
di Polinice sarebbe dovuto rimanere insepolto, poiché
aveva portato guerra alla sua patria. Antigone, ignora
gli ordini del nuovo re di Tebe e innalza una pira
funebre per il fratello, compiendo così i riti
funebri. Sorpresa, viene condannata ad essere sepolta
viva.
La versione del mito nelle ‘Fenicie’ di Euripide
L'esercito argivo opposto a quello tebano è accampato
dinanzi alle mura della città cadmea. Giocasta (che
nella versione euripidea non si uccide), attende
Polinice, perché s’incontri con Eteocle, affinché i
due trovino un accordo prima dello scontro finale.
Questo è il tentativo per un’ultima soluzione
diplomatica che non andrà a buon fine. Antigone, sugli
spalti del palazzo,si fa indicare dal suo pedagogo i
capi dell'esercito nemico. Nel palazzo siede affranto
e accorato Edipo accecato.
Presso ognuna delle sette torri della città, presso la
quale vi è una porta, gli assediati e gli assedianti
si dispongono alla battaglia: ogni capo argivo si
dispone davanti ad una porta della città pronto ad
affrontare il suo antagonista argivo.
L'indovino Tiresia, scombussola la situazione predicendo a
Creonte, fratello di Giocasta, che la città si salverà
solo quando morirà l'ultimo discendente della stirpe
di Cadmo: Meneceo, figlio di Creonte. Il fratello di
Giocasta, fa propendere l'esito della battaglia ancor
prima del suo inizio, gettandosi dalla torre più alta.
La battaglia infuria e questa viene narrata da un araldo a
Giocasta dei suoi sviluppi.
Partenopeo viene ucciso con una pietra scagliata dalle mura
dal difensore Periclimeno, Capaneo pronuncia un
proclama di immortalità (“Neppure la potenza della
folgore Zeus può trattenermi!”) prima d’inerpicarsi
con l’ausilio di una scala d'assalto da lui inventata
e venire abbattuto dal fulmine divino; Eteocle, per
evitare altro spargimento di sangue, propone al
fratello una sfida ad due decisiva per l'intera
battaglia. Giocasta tenta di gettarsi tra i due
contendenti nel vano tentativo di poterli fermare.
Terminato lo scontro con la lancia, i due passano alle
spade. Eteocle retrocede la gamba sinistra per
spronare il fratello a scoprirsi nel tentativo di
ferirlo, per poi inferirgli un rapido colpo mortale
nel bacino. Eteocle vincitore, spoglia il fratello
delle armi e ancor prima di esultare, Polinice, con le
ultime forze, lo trafigge con un fendente alla gola.
Giocasta, con Antigone, raggiunge il luogo dello scontro
solo per chiudere gli occhi ai figli e per suicidarsi
essa stessa presso i loro corpi. I Tebani
successivamente respingono gli assedianti nel loro
ultimo assalto. Edipo, viene a conoscenza del tutto
dalle urla strazianti della figlia Antigone.
Creonte, per evitare ulteriori sciagure, vieta di
seppellire Polinice, che aveva chiesto di essere
sepolto in patria e spedisce Edipo in esilio
accompagnato da Antigone che voleva seppellire il
corpo del fratello.
In
realtà né Eschilo né Euripide narrano i destini di
Tideo, di Adrasto ed Anfiarao, che vengono presupposti
come conosciuti dal mito. Adrasto, l'unico
sopravvissuto degli Argivi, riesce a sfuggire alla
morte grazie al suo cavallo divino Arione.
Anfiarao, sul suo carro guidato dall'auriga Baione, al
momento di essere trafitto dal dardo di Periclimeno,
sprofonda nelle viscere della terra, all’interno di
una crepa, di una fessura aperta appositamente da
Zeus, per impedire che il mago-guerriero perisca per
mano di un mortale. Ancora vivo, il vate, si troverà
nel regno degli inferi e il luogo dove questo evento
avvenne, diverrà la sede oracolare ufficiale
dell’indovino: Oropo.
Dati tecnici del rilievo frontonale
L’intero rilievo frontonale è composto dallo stesso tipo di
argilla. Questa ha una consistenza sabbiosa micacea,
con inclusi bianchi e a gradazione di grigi. L’argilla
è anche di una composizione molto grassa, ossia è
troppo pura per un lavoro di queste dimensioni, per
questo gli artigiani che la mescolarono utilizzarono
anche, come sostanza smagrante, terracotta
polverizzata.
Il frontone fu un’opera impensabile: non solo venne
concepito come disegno unitario, ma venne realizzato
come unitario. In realtà venne utilizzato un’enorme
base di argilla triangolare di poco inferiore ai 6.60
mq su cui vennero impostate le figure a rilievo con
blocchi di argilla modellata sulla base piana.
Tuttavia il frontone è concepito in maniera del tutto
rivoluzionaria per l’età classica e porta con se i
primi venti ellenistici degli incontri macedoni con
l’oriente. La sua composizione è basata su un gioco di
sovrapposizioni prospettiche che tendono a dare
profondità alla scena e al contempo a rendere
differenti scene in differenti situazioni
spazio-temporali.
Per questo la parte inferiore del frontone è rigonfiata,
mentre quella inferiore tende ad essere leggermente
concava in modo da formare un effetto ondulato
impercettibile all’occhio umano, ma che diviene
fondamentale nella disposizione "biplanimetrica",
ossia su due piani.
Nulla è più evidente di un uso sapiente della
sovrapposizione visiva, in cui le figure assumono la
forma desiderata in base alle esigenze. E non solo. Al
contrario della concezione propriamente greca le
figure quando è necessario vengono addirittura
‘segate’ per far posto al piano successivo o
precedente, tecnica ben conosciuta in ambito etrusco
si dai tempi arcaici e che è ragionevolmente
concepibile su bassorilievi in materiali duri (marmo,
alabastro, travertino, nenfro, peperino) ma
difficilmente immaginabile su materiali più duttili.
Dal frontone intero, al termine della sua realizzazione che
dovette avvenire in un tempo relativamente breve, per
via dell’essiccamento dell’argilla, vennero tagliate a
fresco con una lama molto affilata, le 26 lastre che
sembrano comporlo. Su ciascuna lastra si trova in
genere una o un gruppo di due figure, la cui larghezza
oscilla fra 39 e 63 cm, rispettivamente Edipo e carro
di Adrasto, mentre l'altezza, tra i 52 e 73,5 cm
(testa del cavallo di Adrasto).
I corpi e le teste delle figure sono vuoti e privi di
sfiatatoi per la cottura con una o due pareti
verticali di sostegno all'interno e realizzati a mano
libera e tra loro contigui. Al contrario per le parti
a tuttotondo, come per le braccia o le zampe dei
cavalli, sono state asportate prima della cottura e
successivamente riunite con una grappa di piombo.
Prima della cottura, l’intera superficie venne spennellata
con un composto costituito da argilla purissima
finemente diluita con acqua. Poiché le singole lastre
vennero cotte individualmente, differiscono nel colore
che assume delle variazioni cromatiche che vanno dal
grigio chiaro, al cinereo fino al rosso mattone.
Le figure erano completamente dipinte e ornate, quindi il
colore della terracotta non influiva nel contesto. I
colori utilizzati erano molto accesi ed estremamente
vivi, paragonabili a quelli delle urne chiusine, anche
se permangono davvero pochissime tracce di rosso,
arancione, giallo e azzurro su base bianca.
Alcuni dei personaggi avevano degli ornamenti forse in
differenti materiali (osso, pasta vitrea), ma le
risultanze ci dicono che mancano sicuramente le
briglie metalliche del palafreniere di Anfiarao e le
spade metalliche nelle mani delle furie e dei
guerrieri. Altri ornamenti o dettagli, forse dorati o
argentati, erano eseguiti con piccoli grumi di
terracotta più fina, come nel caso della barba di
Anfiarao e sullo scudo isolato.
Una volta terminata la cottura le lastre vennero dipinte e
adornate; disgiunte le une dalle altre erano fissate
al gigantesco pannello ligneo, che componeva il
background del frontone composto da una serie di assi
probabilmente verticali, con 4 o 6 chiodi di ferro di
cui ne è rimasto uno, come traccia solitaria, nel
corpo dell'aiutante del fratello di destra. |