N. 11 - Aprile 2006
TALAMON/TELAMONE
La battaglia e il tempio – Parte
II
di
Antonio Montesanti
Il tempio nel paesaggio
Il
tempio si innalzava sul settore sud-est della sommità
del colle di Talamonaccio, una sorta di promontorio
alto106 m. sul livello del mare. Molto probabilmente,
questo colle era il luogo originale dove sorgeva la
città protostorica e quella etrusca, o forse solo
l’acropoli di essa, che si affacciava, cosa rarissima
per gli abitati etruschi, sulla costa tirrenica a
sinistra della via Aurelia tra Cosa (Ansedonia) e
Roselle (c/o Grosseto), poco prima di Fonteblanda.
Il
tempio, e il picco del promontorio sul quale s’adagia,
spicca nel paesaggio collinoso che guarda al tramonto
invernale, mentre il suo panorama contemplava la linea
di costa, quasi un piano topografico naturale ‘progettato’,
che racchiude il sistema della bassa maremma costiera
toscana: la foce dell’Albegna, le lagune di Orbetello,
la collina, 21 Km più a sud, che ospitava la colonia
latina di Cosa, fondata dai romani nel 273 a.C., la
penisola del Monte Argentario, al centro, come sperone
sul mare e a sudovest, l'isola del Giglio.
Il
tempio costituiva un punto di riferimento per le navi
provenienti da sud, mentre non era visibile da nord.
Per chi viaggiava via terra da Roma, il santuario era
visibile da lontano; chi invece proveniva da Pisa
poteva vederlo solo una volta giunto presso il fiume
Osa, volgendosi all’indietro.
Probabilmente sulla collina più bassa, chiamata
Bengodi, attigua al Talamonaccio si trovava un secondo
tempio conosciuto solo da pochissimi frammenti di
lastre ed antefisse.
I primi scavi (1888/92-1897)
Correvano gli ultimi anni dell’80 del XIX secolo, era
l’alba di un nuovo paese, di una nuova nazione appena
riunificata, tutto sommato le linee guida di quello
che sarebbe accaduto, in proiezione, in futuro, erano
chiare: per “ragioni di sicurezza militare costiera”,
tra il 1888 e il 1892, veniva costruito un forte
difensivo sul colle di Talamonaccio.
In
quell’occasione, come avviene anche ai giorni nostri,
per questioni di comodità, o forse per calcoli
economici o per interessi privati, non si pensò
lontanamente di non costruire il forte difensivo in
quel luogo, piuttosto si ritenne necessario
l’intervento di un funzionario che salvasse i reperti
che venivano sistematicamente distrutti. Per questo
ingrato compito venne chiamato L.A. Milani, fondatore
e primo direttore del Museo Archeologico di Firenze,
al quale fu concesso solamente di schierare il maggior
numero possibile di operai perché fossero impiegati
nel recupero dei soli oggetti antichi che sarebbero
venuti alla luce.
L'11 maggio 1892, sulla parte spianata della cima del
colle, venne rinvenuta una cisterna o quella che venne
interpretata come tale, intorno e soprattutto al suo
interno vennero strappati al passato resti di
antefisse, terrecotte architettoniche e numerosi
frammenti figurati a rilievo. In breve tempo si intuì,
tra lo stupore e l’entusiasmo generale che si trattava
di frammenti pertinenti al frontone del tempio.
La
fretta, dovuta alla necessità di liberare l’area
destinata alla costruzione della presidio militare,
non rese possibile né la misurazione né la descrizione
delle strutture, lasciando oscuri per sempre non solo
le connessioni planimetriche murarie ma anche i
rapporti frammenti-strutture. Solo molto tempo dopo si
intuì che il tempio era andato distrutto in un
incendio.
Da
allora l’intera collina divenne zona militare e non
furono più possibili indagini archeologiche di alcun
tipo. Anche il posizionamento delle rovine del tempio
si perse nell’oblio degli anni.
I nuovi scavi (1962-69)
Solo nel settimo decennio del 1900, dopo la
smilitarizzazione dell’area fu possibile condurre
quattro brevi campagne di scavo (1962/64 e 1969). I
lavori iniziati dal Soprintendente d’allora G. Caputo,
vennero proseguiti da G. Maetzke, suo successore, e
finanziati, nelle prime tre campagne, dalla
Deutsche Forschungsgemeinschaft; responsabile
dello scavo, mentre incaricata della Soprintendenza,
fu la dott.ssa A. Talocchini.
Gli scavi avevano degli obbiettivi ben precisi. Da una
parte si dava importanza alla struttura templare per
la quale si doveva accertare del luogo del
rinvenimento e degli scavi ottocenteschi; evidenziare
tutte le strutture ad esse attinenti; ridefinire e
chiarire le proporzioni e le misure dedotte dagli
archivi. Dall’altra si sperava di poter recuperare i
pezzi ancora mancanti del rilievo frontonale e delle
terrecotte architettoniche, oltre all’augurio di
imbattersi in stratigrafie ancora intatte che
potessero chiarire le fasi costruttive del tempio e la
sua datazione.
Pianta e disposizione dell'edificio
Riscoperto nell'estate 1960, il tempio, riconoscibile
esclusivamente dai resti delle fondazioni costituite
da un basamento tufaceo, era incassato nel pendio
della collina con un altezza di 2 m., disgregatosi
durante gli scavi e dopo la messa in luce, di forma
rettangolare una larghezza di 12,84 m. (43 piedi
etrusco-italici ca.) e una lunghezza di 19,40 m. (65
piedi etrusco-italici ca.).
Il
rapporto tra larghezza e lunghezza del basamento che
contemplava l’incasso per una scala centrale era di
2:3. I blocchi che componevano il basamento, disposti
a filari di diversa altezza per adattarsi ai
dislivelli esistenti, sono poggiati sulla parete
rocciosa.
Dal punto di vista tipologico il tempio era un
tetrastylos sine postico di tipo etrusco-italico:
quattro colonne sulla fronte e il lato posteriore
chiuso. Per quanto riguarda la cella sappiamo
solamente che era profonda 7 m. e che ai suoi lati
correvano due stretti ambulacri (alae) aperti
sul davanti. Il pronao era profondo lo spazio di due
intercolumni.
Davanti alla fronte del tempio, e ad esso congiunta,
vi era un’area lunga 10,88 m. (37 piedi
etrusco-italici ca.) lastricata a blocchi di tufo
simili a quelli del basamento, sovrapposti in più
strati, per colmare la pendenza del terreno. Dai
frammenti rinvenuti, si evince che le pietre angolari
del podio erano modanate e in una pietra calcarea più
dura, mentre le colonne erano tornite nel tipico
nenfro vulcente grigio-azzurro.
Dati archeologici sulla storia del tempio
I
pochi dati di scavo ottenuti, soprattutto grazie alle
risultanze dei frammenti ceramici rinvenuti nell'area,
indicano la sua frequentazione sin dall'età
pre-protostorica (XIII/XII sec. a.C.), fino all’inizio
del VI sec. quando improvvisamente scompaiono le
tracce insediamentali.
Numerosi frammenti di ceramica di qualità elevata
riportano alla seconda metà del IV sec. a.C., quantità
che aumenta intorno al 300 a.C. A questo momento si
riconduce un gruppo di antefisse a testa di Sileno e
di Menade simili a quelle di tipo orvietano. Questi
dati riconducono all’epoca della costruzione
dell’edificio che si colloca nella II metà del IV sec.
a.C. L’edificazione del tempio avvenne poco prima, che
l'espansione romana raggiungesse questi luoghi,
occupati dopo la duplice sconfitta di Vulci e Volsinii
nel 280 a.C. e la costituzione della colonia di Cosa 7
anni più tardi.
Appurato che si trattasse di un tempio etrusco, rimane
il dubbio a chi fosse votato. Certamente ad una coppia
divina, probabilmente Tinia, lo Zeus greco e ad una
dea ancora sconosciuta.
Già l’autore del primo e miglior saggio sul rilivo
frontonale, W.O. v. Vacano, affermava che “…il grande
frontone non fu collocato sull'edificio esistente in
un momento qualsiasi solo per motivi di abbellimento”.
La sua collocazione era strettamente connessa con una
globale rivisitazione della facciata ed in particolare
della copertura al di sopra del pronao.
L’intera struttura venne alleggerita e di essa
soprattutto l’architrave che fu posta più leggera
della precedente, i travetti ed i morali vennero
abbelliti con elementi più leggeri come pure le
estremità del tetto dove vennero collocate nuove
antefisse di un tipo differente da quello ‘volsiniese’.
Di fronte alla cella e poco dopo la scalinata l’ordine
di colonne venne raddoppiato.
Le
lastre di rivestimento furono appositamente
ingrandite, per essere adattate alle nuove dimensioni
del frontone, mediante l'inserzione, superiormente ed
inferiormente, di cornici piatte. Tutti questi
accorgimenti di alleggerimento, da una parte, e
raddoppiamento strutturale dall’altra giustificano un
progetto finalizzato alla collocazione di una
decorazione frontonale più pesante, che forse sostituì
la precedente in legno.
Periodizzazioni del tempio
Non esistendo elementi di scavo sufficienti per una
datazione complessiva o per le sue fasi, i dubbi che
riguardano l’innalzamento dell’edificio sacro e la sua
funzione rimangono attualmente inconoscibili.
Fondamentalmente i dubbi intercorsi sull’intero
sistema templare, posizionamento, cronologia e legame
storico, si possono riassumere in tre tematiche: il
rapporto tra il tempio, o meglio il frontone, e la
battaglia del 225 a.C., il lungo intervallo tra la sua
fondazione e la messa in opera del rilievo frontonale
ed infine la distruzione dell'edificio.
Molte risposte si sono cercate nella successione
stilistica dei vari tipi di antefissa; in base ad esse
è stata fatta una suddivisione in periodi e in fasi:
Fase A: Antefisse a busto di sileno e di menade,
alternate.
Prima fase del tempio: seconda metà del IV sec. a.C.
Di
questa prima fase decorativa del tempio, databile alla
seconda metà del IV sec. a.C., siano rimasti
esclusivamente frammenti isolati.
Si
capisce che la trabeazione era molto robusta, i
frammenti del rivestimento dell'architrave erano molto
spessi ed alti. Lo stesso discorso vale anche per gli
antepagmenta dei travetti. La sima a palmette con
margine superiore ondulato era massiccia e compatta.
I
frammenti di un altorilievo multifigurato di una
lastra di rivestimento indicano che, originariamente,
il frontone era aperto, secondo il sistema etrusco
tradizionale: il timpano dunque non era chiuso come
nel tempio greco classico. Il tetto sporgeva
notevolmente oltre l’intercolumnio, sul pronao e la
sua fronte era fornita di un tettuccio obliquo.
Probabilmente non vi era alcuna scultura di
abbellimento sul frontone. Quanto resta della
decorazione originaria risalente al periodo di
fondazione del tempio rivela.
Le
antefisse con busto di Sileno e di Menade, come gli
acroteri clipeati con testa femminile e i frammenti
del rivestimento della testata del columen
mostrano caratteri marcatamente arcaici. Questa serie
di elementi ben si allacciano col carattere tuscanico
arcaico del frontone aperto e nella pesantezza della
trabeazione, sia nella struttura che nella
disposizione della plastica decorativa.
Fase B: Antefisse a busto di Minerva e di Ercole,
alternate. Pezzi di ricambio, abbellimenti e
riparazioni: 300-150 a.C.
La
presenza di antefisse a testa di Minerva ed Ercole, le
sime decorate a rose e gigli, identifica nuovi
apporti, nel IV e III sec. a.C. che non intaccarono,
nella sostanza strutturale, l'edificio medesimo.
Fase C: Antefisse a busto di Arianna e di Dioniso,
alternate. Antefisse con palmetta. Ristrutturazione,
pezzi di ricambio, abbellimenti e riparazioni: 150 /
inizi I sec. a.C.
Fase D: Tracce di un incendio prolungato sono date da
scorie, piombo fuso e annerimenti sulle terrecotte
architettoniche. Distruzione del tempio, per effetto
di un incendio poco dopo il 100 a C., che non venne
mai più ricostruito.
Fase E: Durante i primi scavi, furono raccolte molte
monete romane, quella più recente è di L. Julius
Bursio datata all'85 a.C. ed alcuni frammenti
ceramici, provenienti dagli ultimi scavi, risalgono ai
decenni iniziali del I sec. a.C.
Subito dopo l'incendio del tempio vi fu ancora vita
sulla collina per un breve periodo: vennero condotti
dei lavori quasi per “sacralizzare” l’area, le rovine
furono spianate e i frammenti delle decorazioni
frontonali ed architettoniche, vennero collocati in
una cisterna.
Frontone aperto o chiuso, ristrutturazione e
decorazioni
Uno dei dati fondamentali su cui si sono soffermati
gli studiosi, nell’analisi del tempio e della sua
decorazione, è la presenza del frontone aperto di tipo
etrusco-italico e la sua sostituzione con quello di
tipo greco, chiuso e decorato con raffigurazioni.
Sicuramente sembra non trattarsi di una questione
cronologica ma semmai topografica. Per questo motivo
interessanti sono i riscontri cronologici con le tombe
tarquiniesi di VI e V sec. a.C., a cui fa da
contraltare il grandioso rilievo inserito in un
frontone aperto del tempio A di Pyrgi (460/55 a.C.)
dove è raffigurata per la prima volta la
rappresentazione dei "Sette a Tebe" a cui su
affiancano, benché più di un secolo più tardi i famosi
cavalli, pertinenti alla decorazione della testata del
columen, del tempio c.d. ‘Ara della Regina’ di
Tarquinia.
Come vedremo, uno dei problemi fondamentali su questa
tematica è la disposizione frontonale dei rilievi e la
loro collocazione all’interno del timpano: è il caso
del tempio del Belvedere o della necropoli della
Cannicella di Orvieto (fine V sec. a.C.), le cui
figure erano fissate mediante chiodi, o quelle dei
templi di Cosa (prima metà del II sec. a.C.).
Per esempio i frontoni delle due tombe a tempio di
Norchia (ca. 300 a.C.), decorati con scene di
battaglia ad altorilievo, recavano lateralmente
acroteri a disco, reminiscenza della più antica forma
frontonale aperta. A Bolsena (II sec. a.C.) le
antefisse antropomorfe, decoravano il piccolo tetto
obliquo e vennero sostituite da gruppi figurati,
collocati nel vano aperto del frontone.
Elemento comune di tutte queste soluzioni adottate
sembra essere stata quella precisa prescrizione che
vedeva nell’immodificabilità della pianta del tempio
ed una ridotta convertibilità della struttura della
facciata, con il frontone aperto aggettante sul pronao
e le estremità delle travi lunghe portanti coperte da
antepagmenta.
Questa immodificabilità di alcune caratteristiche deve
essere ricondotta a prescrizioni religiose, se ancora
nel 70 d.C., in occasione della ricostruzione del
tempio di Giove Capitolino a Roma, distrutto da un
incendio, vennero consultati gli aruspici che
vietarono qualsiasi modifica della pianta originaria e
dell’orientamento pur accordando trasformazioni
nell'elevato e alla decorazione:
Curam restituendi Capitolii in Lucium Vestinum confert,
equestris ordinis virum, sed auctoritate famaque inter
proceres. ab eo contracti haruspices monuere ut
reliquiae prioris delubri in paludes aveherentur,
templum isdem vestigiis sisteretur: nolle deos mutari
veterem formam.
(Tac., Hist., 4,53).
Sembra che la collocazione del rilievo dei "Sette a
Tebe" nel frontone del tempio di Talamone comportò una
notevole innovazione. Mutuli e columen vennero
completamente coperti dalla decorazione fittile, si
accorciò la sporgenza del tetto fino e non oltre un
massimo di 60 cm. dall'architrave.
Venne eliminato il tettuccio obliquo trasversale e il
triangolo frontonale venne chiuso da una serie di
tavole. Questa parte lignea doveva essere ben fissata
ed estremamente stabile per poter sopportare e
sostenere il peso del rilievo che intero doveva pesare
almeno 5 quintali, se quella parte del rilievo che ci
è pervenuta pesa 385 kg.
Le
figure inoltre erano state modellate tutte con
un’inclinazione in avanti per una vista migliore dal
basso, particolare che per forza di gravità ne
aumentava naturalmente la spinta verso il basso.
Certamente non era sufficiente una parete di tavole
lignee per sopportare una tale forza.
Le
figure frontonali non vennero semplicemente incassate
all’interno del timpano come le lastre di rivestimento
dei travicelli e dei mutuli furono attaccate
direttamente alla lastra di fondo del rilievo.
Le
figure, inserite ognuna in una sua formella, non erano
quindi collocate in uno spazio indipendente, ma ognuna
si legava a quella contigua, dipendendo dalla parete
di fondo. Per una maggiore stabilità vennero
utilizzati degli accorgimenti: il bordo inferiore del
rilievo venne ingrossato in modo da scaricare il peso
dell’intera struttura decorativa e per tenere le
singole formelle, vennero praticati dei fori per
chiodi nelle lastre prima della cottura; inoltre sulla
sommità delle lastre vennero operate delle aperture
arrotondate di 5 cm ca. dove doveva infiltrarsi la
pioggia.
Quello meteorologico doveva essere uno dei problemi
più pressanti per i costruttori. La stabilità del
frontone non era data solo dalla presenza del peso
delle lastre della decorazione ma anche dal
comportamento di essa in determinate condizioni
atmosferiche che ne avrebbero pregiudicato non solo la
statica ma anche la conservazione.
Le
teste e le spalle delle figure del rilievo spesso
oltrepassano la linea della cornice ornamentale,
sporgendo in avanti oltre l'aggetto della sima: in
questo modo erano esposte alle intemperie al pari
degli acroteri e le antefisse.
Oltre a dover sopportare sollecitazioni dovute alla
statica di vettori verticali, quali il peso della neve
e a forze vettoriali più casuali come quelle del
vento, le decorazioni frontonali avrebbero sofferto
soprattutto le intemperie dell’acqua e del sole. La
prima per una questione erosiva, che facilmente
avrebbe attaccato l’argilla, mentre il secondo avrebbe
sbiadito i colori, la cui unica protezione era data
dalla buona qualità dell'argille e dalla tenacia dei
colori di rivestimento.
Il
rilievo del frontone nella sua cornice
Quello di Talamone è finora l'unico esempio noto di
frontone tardoetrusco completo di lastre di
rivestimento e di rilievo figurato. Concepito come
scultura architettonica, il rilievo dei "Sette a Tebe"
necessitava, per raggiungere pienamente il suo
effetto, di essere inserito in un'adeguata cornice
architettonica e ornamentale.
Questo era già stato compreso e realizzato nella
vecchia ricomposizione esposta nel Museo Topografico,
ma solo dopo una verifica complessiva dei rapporti
proporzionali, della quantità e della tipologia dei
frammenti delle figure e degli elementi decorativi
pertinenti al frontone, è stato possibile tentare un
nuovo restauro complessivo.
I
rapporti proporzionali sono semplici da stabilire. La
larghezza dell'architrave, uguale a quella dei periodi
A e B, è determinabile in base alla larghezza del
podio e alla posizione delle colonne: 11 m. (= 37
piedi e 1/2 etrusco-italici). L'altezza del frontone,
dal margine inferiore dell'architrave a quello
superiore della sima, corrisponde alla distanza
assiale delle colonne della fronte: 3,53 m. (= 12
piedi). La lastra triangolare di fondo del rilievo si
impostava sul rapporto 1,47:8,82 m. ( = 1:6 piedi).
Dato che il margine esterno del tetto, stando alla
testimonianza di un canaletto esistente lungo il
basamento, sporgeva a entrambi i lati di 1,47 m. (= 5
piedi), il frontone era largo complessivamente 13,93
m. ( = 47 piedi e 1/2). Gli antepagmenta hanno tutti
la stessa altezza, cioè 49 cm. ( = 1 piede e 2/3);
fissati gli uni agli altri, essi unificavano i vari
elementi dell'intelaiatura lignea del tetto, dando
luogo a fasce decorative unitarie che costituivano una
cornice monumentale chiusa attorno al rilievo.
Questa conferiva alla figurazione un suo proprio
spazio isolandola dell'ambiente circostante, mentre le
colonne davano slancio al rilievo sollevandolo in una
sfera elevata ed esosa. Nel caso di Talamone però è
invertito il consueto rapporto tra rilievo figurato e
cornice; quest'ultima infatti, altrove sporgente
plasticamente, è qui sullo stesso piano della lastra
di fondo del rilievo e sono le figure ad emergere
plasticamente e talvolta ad invadere la stessa
cornice. Manca però un elemento decisivo per la sua
completa valorizzazione, dato che la policromia
originale non è ricostruibile ed i resti esistenti non
sono sufficienti a darne un'idea.
Il
repertorio ornamentale
Nel confronto con la più severa ornamentazione del IV
sec. a. C., la nuova appare più abbondante e ricca di
elementi vegetali.
Quanto allo schema, quelli contemporanei al rilievo
corrispondono ai precedenti: presentano lo stesso
ornamento di palmette e volute su girali ed in
entrambi le palmette sono a nove foglie. Ma la foglia
lanceolata delle palmette delle lastre più antiche è
diventata, in quelle più recenti, un bocciolo
allungato ed assottigliato alla sommità; le foglie
laterali superiori arcuate verso l'esterno sono
diventate due calici appena schiusi, ingrossati alle
estremità, che avvolgono i boccioli.
Analogamente, i tralci ad S che cingono le palmette
sono sulle lastre più antiche, geometricamente
stilizzati e presentano presso le estremità tre
bottoni arrotondati disposti diagonalmente, mentre su
quelle più recenti, raggiungono un effetto
naturalistico con l'aggiunta di un germoglio laterale
e di una rosa su una corolla aperta alle estremità.
La
sima è tripartita, comprendendo la doppia fascia di
copertura dei mutuli e gli antepagmenta dei
travicelli. Essa non è più, come la precedente: un
listello decorativo di coronamento e di delimitazione.
Nel complesso è più alta; inoltre la lavorazione a
giorno della fascia superiore ondulata, unita al
coronamento dei menischi, determina l'impressione che
il frontone si dissolva gradualmente verso l'alto.
In
Etruria, come a Roma, si profila per la prima volta
quel processo costitutivo della cultura europea, nel
quale la spiritualità greca viene assimilata dalle
forze locali, senza che si giunga alla piena
ellenizzazione.
Già in tale ambito, infatti, appare quel fenomeno che
giungerà continuamente a compimento attraverso
l'Impero Romano, il Rinascimento e il Classicismo,
ovvero quell'incontro e confronto con l'Ellade come
fattore essenziale nella formazione dell'Occidente: la
cultura etrusca, senza il continuo confronto con l'Ellade,
non sarebbe comprensibile. Pertanto anche la mitologia
greca è attiva in Etruria già molto presto.
Il
mito tebano, soprattutto la saga dei 'Sette a Tebe',
sembra aver goduto di una particolare ricezione. I
famosi eroi, primi fra tutti Capaneo e Tideo, adornano
numerosi sigilli, specchi; appliques bronzee e urne
funerarie e perfino tombe intere vennero decorate con
rappresentazioni del mito dei 'Sette a Tebe'.
Nell'arte funeraria di età ellenistica,però, fu
particolarmente apprezzato il destino di Edipo e dei
suoi figli, come pure quello dei loro compagni d'arme.
Sarcofagi di IV e III sec. a.C., ma soprattutto urne
di II e I sec. a. C., attraverso i centri artistici di
Chiusi, Perugia e Volterra, rappresentano la saga di
Edipo e la fine della sua stirpe, non come racconto di
fenomeni psicologici, bensì come mito del fatale
destino di questa famiglia reale.
Prima ricostruzione del rilievo dopo la sua scoperta
Fra i ritrovamenti degli scavi del 1892-93 sul
Talamonaccio, portati al Museo Archeologico di
Firenze, vi era un gran numero di frammenti modellati
in terracotta. Essi furono trovati tutti assieme in
una cisterna vicino al tempio.
Sotto la direzione dell'ispettore G. Sordini e, dopo
la sua morte, di L.A. Milani, il restauratore P. Zei
riuscì a ricomporre dalla quantità enorme di
pezzettini, gran parte di un rilievo frontonale e di
un settore considerato di fregio. Del rilievo
frontonale, la parte destra era conservata quasi
completamente e poté essere ricostruita con una certa
sicurezza.
Inoltre un motivo consentiva di riconoscere il
soggetto del frontone: il guerriero sul carro
trascinato con la quadriga nel baratro non poteva
essere altri che l'indovino Anfiarao, un episodio ben
conosciuto della guerra dei 'Sette a Tebe'. A lui era
contrapposto a sinistra, un altro eroe greco, pure su
carro, da interpretare come Adrasto; la sua posizione
nel complesso del rilievo era approssimativamente
indicata dalla sua altezza in relazione
all'inclinazione d'angolo nota per il gruppo di
Anfiarao.
Alle misure totali del rilievo mancava ancora
l'altezza assoluta. Si credeva di averla trovata con
la figura di un genio alato, interpretato come figura
centrale, certamente in analogia con il frontone del
tempio di Zeus ad Olympia, con il dio fra le due
quadrighe. Il fatto che si doveva ricostruire questo
genio in modo allungato per ottenere l'altezza minima
ipotizzabile, fu contestato. Le altre figure furono
distribuite nei posti disponibili secondo criteri
diversi e si era già riconosciuto che nel centro la
rappresentazione doveva essere disposta su due piani.
Le
misure, probabilmente non originate da uno studio
profondo dei resti del tempio, ma piuttosto dall'idea
che il genio fosse sull'asse del rilievo, erano molto
vicine all'odierna ricostruzione. Fu per dare l'idea
del timpano completo che il rilievo fu incorniciato da
terrecotte architettoniche.
Come secondo complesso — sempre dai frammenti trovati
nella cisterna — fu composto un 'fregio' di tre
lastre, anch'esso raffigurante un episodio della
guerra dei 'Sette a Tebe': Edipo accecato, in
ginocchio fra i suoi figli morenti. L'interpretazione
di queste tre lastre come fregio sembrava essere
indicata dal taglio orizzontale conservato al margine
superiore della lastra di Edipo.
Fin poco dopo l'alluvione del 1966 tutte queste
terrecotte di Talamone erano esposte come sopra
indicato nella Sala di Talamone del Museo Archeologico
di Firenze. Lo smontaggio obbligatorio per i danni
causati dall'alluvione presentò l'occasione di
controllare e perfezionare la ricostruzione elaborata
fino a quel tempo. |