vITA E MORTE IN
SYLVIA PLATH
LA STORIA DI UNA PULSIONE
POETICA
di
Francesca Zamboni
Donna,
poetessa e madre, Sylvia Plath ha
percorso un sentiero esistenziale
tortuoso e allo stesso tempo
appassionante; una ciclicità di
sensazioni e pulsioni tra la vita e
la morte, eros e tanathos;
un’esistenza tradotta dalle sue
poesie e dai suoi romanzi. «La
scrittura è la mia sostituta: se non
ami me, ama quello che scrivo, amami
per questo», così recita una sua
poesia, ribadendo l’importanza di un
dono che le appartiene come idea
innata per riequilibrare i suoi
sbalzi d’umore, per smussare gli
angoli della sua esistenza e non
ridurre la visione del mondo a una
cinica dicotomia.
Di Sylvia Plath ricordiamo la morte,
avvenuta a soli 31 anni l’11
febbraio 1963, molto più della sua
nascita, e il modo in cui ha scelto
di andarsene rappresenta
l’interruzione di una routine
quotidiana che aveva sperimentato
con una pienezza tale da ricercare
spasmodicamente la perfezione
divina.
Sylvia voleva essere tutto: madre,
scrittrice, moglie; desiderava
sperimentare la sua femminilità
sotto tutti i profili, ma non
adorava essere etichettata per
questo la si può definire una donna
poliedrica libera dagli schemi, che
non amava gli stereotipi della sua
epoca; una donna per Sylvia non
doveva necessariamente realizzarsi
attraverso la maternità alla mercé
di un marito come richiesto dai
canoni della società del suo tempo;
la realizzazione era un coacervo di
emozioni più complesso e caotico, a
cui Sylvia dava ordine con la
scrittura.
Orfana di padre a dieci anni, Sylvia
ha sempre cercato questo ordine così
come una una figura che fungesse da
ago della bilancia, una figura
autorevole a cui affidarsi e da cui
alla fine dipese: Ted Hughes, un
giovane poeta a cui la Plath dedicò
la raccolta poetica The Colossus
& Other Poems e con cui
condivise la passione per la
scrittura, il matrimonio, ma anche
il dolore dell’infedeltà e la
necessaria separazione.
Un
amore disfunzionale dove arrivò a
sentirsi realizzata anche attraverso
i suoi successi, temendo allo stesso
tempo di non essere alla sua
altezza. Ted la sostenne infatti
quando decise di tornare in America
nel 1957 per insegnare letteratura
inglese proprio nel college dove
Sylvia aveva studiato, ma
parallelamente si affermò come poeta
attraverso la forza motrice
incarnata dalla Plath; una simbiosi
pericolosa. Un amore
anticonvenzionale iniziato come
condivisione dei compiti familiari
per realizzare il sogno della
scrittura e finito con il tradimento
del marito nonostante la nascita dei
due figli e la stima professionale
reciproca.
La campana di vetro, romanzo
scritto sotto lo pseudonimo
Vicotoria Lucas a causa dei palesi
riferimenti autobiografici, è
l’unico romanzo della poetessa la
cui pubblicazione precede di pochi
giorni la sua morte. Sebbene sia
stato inizialmente sottovalutato
dalla critica come spesso accade, il
romanzo diverrà nel corso degli anni
il simbolo della lotta femminile
contro gli schemi soffocanti imposti
dalla società, che pretendono una
donna perfetta compiacente per una
società patriarcale.
L’allegorica campana di vetro
rappresenta la situazione in cui la
protagonista si trova, ovvero in
bilico tra aspettative e codici
istituzionali, cercando di diventare
altro, proclamando la liberazione
sessuale, dichiarando l’odio per la
madre. Un libro non solo dalla forte
componente autobiografica ma anche
estremamente attuale.
Sylvia
Plath punta il dito, con estrema
lucidità, contro i rigidi modelli
che incasellano il soggetto
rendendolo un oggetto vulnerabile in
pasto agli stereotipi, partendo dal
complesso rapporto con le figure
maschili fino alla descrizione della
malattia mentale. È la prima autrice
ad affrontare il tema, descrivendone
gli aspetti e infrangendone i tabù.
Sylvia Plath ci accosta alla
depressione con grande
consapevolezza; ci mostra attraverso
la sua protagonista Esther, quanto
la depressione possa essere
insidiosa e colpire persone
brillanti fino a renderle malati
invisibili stigmatizzati sotto una
coltre di nebbia.
La morte della scrittrice, i
precedenti tentativi di suicidio, i
ricoveri psichiatrici ruotano sempre
attorno a due estremità bipolari,
altalenando tra il desiderio di
scrivere e l’amore per i propri
figli, tra la voglia di evadere e
l’angoscia di restare, tra l’amore e
la morte.
Lady Lazarus è la poesia che
con riferimenti biblici accosta la
vita alla morte. che le mette a
confronto: «Herr Nemico / Sono il
tuo capolvoro / il tuo bene prezioso
/ l’infante d’oro puro / che si
scioglie in un grido. / Mi rigiro e
brucio».
Sono questi alcuni dei dei versi in
cui in cui Sylvia Plath mostra le
sue fragilità ma anche la sua grande
forza nel raccontarsi, nel
descrivere i suoi dolori passati, ma
anche anche la voglia di evadere da
una vita controllata, oppressa e
patriarcale. “Morire è un’arte”:
annientarsi fisicamente per
rinascere artisticamente più
potente.