[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

194 / FEBBRAIO 2024 (CCXXV)


arte

vITA E MORTE IN SYLVIA PLATH
LA STORIA DI UNA PULSIONE POETICA

di Francesca Zamboni

 

Donna, poetessa e madre, Sylvia Plath ha percorso un sentiero esistenziale tortuoso e allo stesso tempo appassionante; una ciclicità di sensazioni e pulsioni tra la vita e la morte, eros e tanathos; un’esistenza tradotta dalle sue poesie e dai suoi romanzi. «La scrittura è la mia sostituta: se non ami me, ama quello che scrivo, amami per questo», così recita una sua poesia, ribadendo l’importanza di un dono che le appartiene come idea innata per riequilibrare i suoi sbalzi d’umore, per smussare gli angoli della sua esistenza e non ridurre la visione del mondo a una cinica dicotomia.


Di Sylvia Plath ricordiamo la morte, avvenuta a soli 31 anni l’11 febbraio 1963, molto più della sua nascita, e il modo in cui ha scelto di andarsene rappresenta l’interruzione di una routine quotidiana che aveva sperimentato con una pienezza tale da ricercare spasmodicamente la perfezione divina.

 

Sylvia voleva essere tutto: madre, scrittrice, moglie; desiderava sperimentare la sua femminilità sotto tutti i profili, ma non adorava essere etichettata per questo la si può definire una donna poliedrica libera dagli schemi, che non amava gli stereotipi della sua epoca; una donna per Sylvia non doveva necessariamente realizzarsi attraverso la maternità alla mercé di un marito come richiesto dai canoni della società del suo tempo; la realizzazione era un coacervo di emozioni più complesso e caotico, a cui Sylvia dava ordine con la scrittura.


Orfana di padre a dieci anni, Sylvia ha sempre cercato questo ordine così come una una figura che fungesse da ago della bilancia, una figura autorevole a cui affidarsi e da cui alla fine dipese: Ted Hughes, un giovane poeta a cui la Plath dedicò la raccolta poetica The Colossus & Other Poems e con cui condivise la passione per la scrittura, il matrimonio, ma anche il dolore dell’infedeltà e la necessaria separazione.

 

Un amore disfunzionale dove arrivò a sentirsi realizzata anche attraverso i suoi successi, temendo allo stesso tempo di non essere alla sua altezza. Ted la sostenne infatti quando decise di tornare in America nel 1957 per insegnare letteratura inglese proprio nel college dove Sylvia aveva studiato, ma parallelamente si affermò come poeta attraverso la forza motrice incarnata dalla Plath; una simbiosi pericolosa. Un amore anticonvenzionale iniziato come condivisione dei compiti familiari per realizzare il sogno della scrittura e finito con il tradimento del marito nonostante la nascita dei due figli e la stima professionale reciproca.


La campana di vetro, romanzo scritto sotto lo pseudonimo Vicotoria Lucas a causa dei palesi riferimenti autobiografici, è l’unico romanzo della poetessa la cui pubblicazione precede di pochi giorni la sua morte. Sebbene sia stato inizialmente sottovalutato dalla critica come spesso accade, il romanzo diverrà nel corso degli anni il simbolo della lotta femminile contro gli schemi soffocanti imposti dalla società, che pretendono una donna perfetta compiacente per una società patriarcale.

 

L’allegorica campana di vetro rappresenta la situazione in cui la protagonista si trova, ovvero in bilico tra aspettative e codici istituzionali, cercando di diventare altro, proclamando la liberazione sessuale, dichiarando l’odio per la madre. Un libro non solo dalla forte componente autobiografica ma anche estremamente attuale.

 

Sylvia Plath punta il dito, con estrema lucidità, contro i rigidi modelli che incasellano il soggetto rendendolo un oggetto vulnerabile in pasto agli stereotipi, partendo dal complesso rapporto con le figure maschili fino alla descrizione della malattia mentale. È la prima autrice ad affrontare il tema, descrivendone gli aspetti e infrangendone i tabù. Sylvia Plath ci accosta alla depressione con grande consapevolezza; ci mostra attraverso la sua protagonista Esther, quanto la depressione possa essere insidiosa e colpire persone brillanti fino a renderle malati invisibili stigmatizzati sotto una coltre di nebbia.


La morte della scrittrice, i precedenti tentativi di suicidio, i ricoveri psichiatrici ruotano sempre attorno a due estremità bipolari, altalenando tra il desiderio di scrivere e l’amore per i propri figli, tra la voglia di evadere e l’angoscia di restare, tra l’amore e la morte.


Lady Lazarus è la poesia che con riferimenti biblici accosta la vita alla morte. che le mette a confronto: «Herr Nemico / Sono il tuo capolvoro / il tuo bene prezioso / l’infante d’oro puro / che si scioglie in un grido. / Mi rigiro e brucio».


Sono questi alcuni dei dei versi in cui in cui Sylvia Plath mostra le sue fragilità ma anche la sua grande forza nel raccontarsi, nel descrivere i suoi dolori passati, ma anche anche la voglia di evadere da una vita controllata, oppressa e patriarcale. “Morire è un’arte”: annientarsi fisicamente per rinascere artisticamente più potente.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]