N. 15 - Marzo 2009
(XLVI)
SuperbiKE
a tutta velocità
con moto di seriE
di
Simone Valtieri
Il sogno di ogni
appassionato di motociclismo? Facile: correre su un
circuito con la propria moto. E’ probabilmente per
questo motivo che il giovane campionato mondiale
Superbike riscuote un successo tanto clamoroso,
soprattutto tra chi, la domenica, invece di andare allo
stadio o rimanere nel letto fino a tardi, spolvera il
sellino della sua due ruote e si avventura, casco in
testa, in lunghe “cavalcate” sulle strade statali di
tutta la penisola.
Nel mondiale Superbike le motociclette al via sono tutte
derivate da modelli in commercio e questo rappresenta un
richiamo cui il centauro della domenica non sa
resistere. Moto di serie che tra l’altro devono avere un
buon numero di esemplari sul mercato per potersi
presentare sulla griglia di partenza; ad esempio
l’ultimo modello della Ducati (Desmosedici RR), prodotto
in soli 1500 esemplari, non potrebbe iscriversi al
campionato. Ad ogni giro è un po’ come se il pilota
della Superbike ti dicesse: “Guarda cosa riesco a fare
con la tua moto”. In realtà bisogna fare subito una
grossa precisazione: delle moto di serie questi bolidi
hanno solo la forma, visto che, se è vero che il
regolamento del mondiale vieta di modificarne il telaio
e sostanzialmente il profilo, tutte le componenti
riservate alla competizione sono ampiamente ritoccabili.
Motore, scarichi, trasmissione, centralina, sono parti
elaborate a dovere per rendere questi mezzi dei veri e
propri fulmini.
Il mondiale Superbike è solo la punta dell’iceberg, la
massima competizione internazionale riservata a queste
moto. Esistono altre gare con mezzi derivati dalla
produzione di serie, alcuni dei quali propedeutici allo
stesso mondiale, come i campionati Supersport e
Superstock, ed esistono anche campionati nazionali molto
seguiti, come quello americano, britannico, australiano
o giapponese. Il fascino del mondiale Superbike resta
però unico.
Se si fa un giro tra gli
appassionati di motociclismo ci si accorge che, pur non
disdegnando il motomondiale (quello per intenderci, con
Valentino Rossi e con le moto realizzate appositamente
per la competizione), si ha un giudizio nettamente più
positivo per le gare con moto derivate. Sono più
genuine, più spettacolari ma anche più facili da guidare
rispetto alle MotoGP, anche perché, legge non scritta
degli sport motoristici, se una categoria viene
esasperata nello sviluppo e nelle prestazioni,
paradossalmente perde di interesse, in quanto le gare
diventano noiose, vincono quasi sempre gli stessi e i
mezzi meccanici prendono il sopravvento sul pilota.
Parliamo di storia: il mondiale Superbike nasce dalla
felice intuizione dell’americano Steve McLaughlin, un ex
pilota degli anni Settanta che, sulla scia di quanto
stava accadendo negli anni Ottanta negli Stati Uniti,
ossia la nascita di corse riservate esclusivamente alle
moto di produzione , ottiene dalla FIM (Federazione
Internazionale di Motociclismo) la gestione di un nuovo
campionato dedicato a questo tipo di motociclette.
E’ il 1988 quando parte il
primo mondiale. Un anno prima era stato ideato un
campionato analogo, definito Formula TT1, nato su
volontà della federmoto britannica per giustificare
l’esistenza del Tourist Trophy, leggendaria e
pericolosissima manifestazione motociclistica esclusa
dal motomondiale dal 1977 a causa dell’alto numero di
morti che ogni anno contava, e soprattutto per istituire
un evento di riferimento per le moto derivate dalla
produzione. La TT1 però era destinata a breve vita, in
quanto il ritorno economico principale era dato dalla
sola prestigiosa gara sul circuito olandese di Assen.
Per il resto si correva su circuiti sconosciuti e ai
grandi costruttori, impegnati anche in altre categorie,
non conveniva sobbarcarsi spese ingenti senza averne in
cambio un ritorno pubblicitario.
Nel 1988 nasce dunque la Superbike: Donington,
Hockenheim, Le Mans sono circuiti di alto prestigio e il
campionato è pronto a spiccare il volo. E’ un evento di
altri tempi. Il talentuoso Fabrizio Pirovano ad esempio,
pilota italiano della Yamaha, non nasconde che i soldi
per correre glieli prestavano il macellaio sotto casa e
qualche amico, mentre il primo campione del mondo,
l’americano Fred Merkel, aveva alle spalle un team
formato da due meccanici, il manager del team Honda,
Oscar Rumi, un camioncino e un’officina sotto casa di
Rumi stesso. Merkel è lo stereotipo del bravo ragazzo:
biondo, bello ed educato. E’ stato il primo campione
della categoria. Tre volte vincitore nella Superbike
americana, sbarca nel mondiale per caso. Dopo aver
disputato una gara esibizione in Italia, viene notato da
un talent scout della Honda e portato nel team di Rumi.
Fred vince collezionando due vittorie e tanti buoni
piazzamenti e mettendosi alle spalle un trio di bravi
piloti italiani: Pirovano secondo, Tardozzi terzo e
Lucchinelli quinto. Quarto è Stéphane Mertens, belga,
che contenderà il titolo a Merkel fino all’ultima gara
dell’anno successivo, riuscendo a vincerla ma non
riuscendo a fare suo l’iride per soli sette punti.
Nel 1989 la prima grande svolta. La FIM licenzia
McLaughlin a causa della pessima gestione del primo
campionato, pieno di problemi organizzativi dalla prima
all’ultima gara, e affida le redini del mondiale a due
fratelli italiani, Paolo e Maurizio Flammini, già
esperti di sport motoristici per aver patrocinato un
buon numero di eventi per conto delle federmoto
italiana, cecoslovacca e sudafricana. Con il “Flammini
Group” la Superbike trova una dirigenza competente che
riesce a farla crescere di anno in anno, intrattenendo
rapporti con le maggiori scuderie e donando un’identità
ad una categoria che oggi si differenzia nei tratti
fondamentali dalla “sorellastra” Motomondiale.
Dal punto di vista regolamentare le differenze evidenti
sono due: Per prima cosa il sistema di qualifiche, la
cosiddetta Superpole, un giro secco in cui i piloti si
confrontano senza possibilità d’errore e, per secondo,
il fatto che ogni tappa del mondiale è divisa in due
manche (dette round o gare), in pratica due gran premi
per ogni circuito, sulla distanza di un centinaio di
chilometri circa. Con queste regole e con gli
imbizzarriti cavalli dei motori quattro tempi, si
corrono gare storiche e sempre sul filo del centesimo di
secondo. A spuntarla nel campionato del 1990 è il
francese Raymond Roche che in sella a una Ducati 851,
domina il campionato con otto vittorie e un buon margine
sul secondo. E’ il primo di una serie infinita di
successi per la casa italiana di Borgo Panigale, una
minuscola azienda se paragonata ai giganti nipponici, ma
che con la passione e la competenza professionale delle
sue poche centinaia di dipendenti mette in riga, numeri
alla mano, Honda, Kawasaki, Suzuki e Yamaha.
Nei due anni successivi sarà l’americano Doug Polen a
portare sul gradino più alto del podio la Rossa Ducati
con l’accompagnamento dei due titoli costruttori. Polen
lascerà un segno profondo quanto veloce nel campionato
mondiale, parteciperà a cinque stagioni, lasciando con
due titoli e un terzo posto assoluto, ma soprattutto con
l’ottimo numero di 27 successi. A subentrargli come
campione del mondo sarà il connazionale Scott Russell,
su una Kawasaki ZXR 750cc. Piccola parentesi per i non
addetti ai lavori, la sigla “cc” sta per centimetri
cubici ed indica la cilindrata del motore. Alla
Superbike fino al 1993 possono partecipare moto con
750cc a quattro cilindri, 900 a tre cilindri e 1000
bicilindriche. Poi dal 2003, grazie a un cambio di
regolamento, sono ammesse anche le 1000cc a quattro
cilindri, per permettere alle case giapponesi di poter
schierare al via del mondiale i modelli di punta della
loro produzione di serie. Un ulteriore cambio di
regolamento porterà nel 2008 all’allargamento ai motori
bicilindrici da 1200cc. Chiusa la parentesi tecnica e la
stagione 1993, nel 1994 parte l’era di “King” Carl
Fogarty.
“Foggy”, com’era chiamato dai suoi tifosi, aveva già
debuttato nel mondiale del 1990 in alcune gare, e poi
nel 1992 quando a Donington era arrivata la sua prima
vittoria. Nato a Blackburn, si discostava dallo
stereotipo del pilota britannico per il modo di
approcciare le gare, poco riflessivo e sempre
all’attacco, tutto grinta e determinazione. Stretto da
un legame indissolubile alla Ducati, Fogarty si era già
messo in luce sulla fine degli anni Ottanta vincendo tre
mondiali consecutivi di Formula TT1 con prestazioni
spettacolari soprattutto al Tourist Trophy, e un
mondiale Endurance nel 1992. Dopo qualche gran premio
nel Motomondiale e apparizioni sparse in altre categorie
decide di fissare un solo obiettivo: il mondiale
Superbike.
Nel 1993, stagione del rodaggio, ottiene il buon
risultato di un secondo posto finale dietro Russell.
L’anno successivo porta all’esordio la Ducati 916R ed
ottiene la sua rivincita, conquistando il primo titolo
con un risicato margine su Russell e sull’eccentrico
neozelandese Aaron Slight, cresta in testa e numero 111
sulla carena. Quindi, si presenta all’ultimo
appuntamento del mondiale, a Phillip Island in
Australia, con soli quattro punti di vantaggio su
Russell, ma grazie a un primo e ad un secondo posto
archivia la pratica piangendo come un bambino durante
tutto l’ultimo giro di gara-2. Nel 1995 è un dominio,
con quasi 140 punti di distanza in classifica sul
secondo, il giovane fenomeno australiano Troy Corser,
sempre su Ducati, che di lì a poco sarebbe diventato uno
dei suoi rivali più duri nonché una delle stelle più
lucenti del panorama motociclistico internazionale.
Corser infatti arriverà secondo pur non conoscendo la
stragrande maggioranza dei circuiti, avendo avuto, fino
a quella stagione, esperienze motociclistiche solamente
nella natia Australia.
Nel 1996 Fogarty tenta l’impresa. Passa alla Honda
lasciando la moto migliore, per provare a dimostrare che
il pilota conta più del mezzo meccanico ed anche per
rimpinguare un po’ le casse con un ingaggio milionario.
Arriverà quarto in un mondiale ferratissimo, dove i
primi quattro saranno racchiusi alla fine in soli 38
punti. A vincere sarà proprio Troy Corser, australiano
di Wollongong, nel Nuovo Galles del Sud, in sella da
quando aveva 10 anni e proveniente da esperienze
giovanili in motocross e dirt track. Il 1997 è un anno
difficile per “King Carl”, che se la deve vedere con
l’americano John Kocinski, l’unico pilota a riuscire a
turbare gli umori del glaciale Fogarty. Funambolo delle
due ruote, John ha le potenzialità di un campione ma la
sua discontinuità e la sua irruenza lo porteranno a
raccogliere molto meno di quanto avrebbe potuto. Tre
titoli americani Superbike, un titolo 250 nel
motomondiale e una gara da rimonta record in Supersport,
dove vince partendo da cinquantatreesimo, costituiscono
il suo biglietto da visita. Aveva lasciato le gare per
un anno dedicandosi allo sci nautico e tornando a
correre nel 1996 su una Ducati Superbike, nel 1997 si
impone nel mondiale in sella a una Honda portando a casa
anche il titolo costruttori, l’unico Honda in una
parentesi di quattordici anni dominati dalla Ducati, e
costringendo Fogarty, secondo, a veder vincere, per la
seconda volta consecutiva, un pilota alla guida della
sua ex-moto.
L’anno, o meglio, il biennio del riscatto è quello
immediatamente seguente. Nelle stagioni 1998 e 1999
Fogarty porta a casa terzo e quarto titolo mondiale,
ancora oggi un record, sopravanzando in classifica
avversari molto quotati come l’eterno secondo Aaron
Slight, il rientrante Troy Corser dopo una stagione
sfortunata nel motomondiale, il velocissimo e
altalenante italiano Pierfrancesco Chili ed un giovane
americano di nome Colin Edwards. La bella favola di
Foggy si chiude nel 2000, dopo ben 59 vittorie, quando
durante delle prove in Sud Africa, urta in rettilineo un
pilota più lento, cade e si procura diverse fratture tra
cui una alla spalla che non gli consentirà di guidare
mai più una moto da corsa. Il suo posto verrà preso in
Ducati, dopo scrupolosa ricerca, da un navigato pilota
nelle formule minori, l’australiano Troy Bayliss.
Il 2000 è l’anno di apprendistato per Bayliss, che
dimostra comunque la sua grande grinta e la sua bravura
sconfinata. Chiamato in fretta e furia dall’America,
dove stava disputando la 200 miglia di Daytona, per
sostituire l’infortunato Fogarty, Troy al debutto viene
speronato due volte in partenza e rispedito
frettolosamente al mittente. Dopo qualche gara con
l’italiano Cadalora in sella, la Ducati decide di
richiamare Bayliss, che a Monza si presenta al pubblico
con una staccata da brividi alla prima variante, dove
supera in un solo colpo quattro piloti: Edwards,
Yanagawa, Haga e Chili. Termina l’anno con un sesto
posto finale condito da due vittorie ad Hockenheim ed a
Brands Hatch. Il mondiale viene vinto dal sorprendente
Edwards, che su una Honda VTR 1000 riporta il titolo
alla casa nipponica e sbaraglia l’agguerrita
concorrenza. Il texano si mette dietro un giovane
centauro dagli occhi a mandorla, Noriyuki Haga in sella
a una Yamaha, e l’ormai esperto Troy Corser.
Il 2001 è l’anno di Bayliss che si aggiudica il mondiale
al termine di una stagione condotta con la saggezza di
un veterano. Secondo arriva Edwards, terzo il giovane
compagno di squadra, l’americano Ben Bostrom e quarto
Corser. Nel 2002 il mondiale è una storia a due. Edwards
si prende la rivincita, rimontando e superando Bayliss
con una strepitosa serie di nove successi nelle ultime
nove gare e concludendo il campionato con il record di
552 punti, solo undici in più di Bayliss. Come a dire:
agli altri solo le briciole.
Il 2003 è un anno chiave, cambiano i regolamenti,
cambiano i protagonisti. La sfida si sposta nel
motomondiale dove Bayliss è chiamato per portare
all’esordio la Ducati “desmosedici” nella massima serie,
mentre Edwards lo segue per guidare un’altra moto
italiana, l’Aprilia. I nuovi nomi del mondiale Superbike
sono quelli degli inglesi, Neil Hodgson e James Toseland,
e dello spagnolo Ruben Xaus, tutti su Ducati. E’ il
primo di questi tre piloti a dominare la stagione,
chiudendo con più di cento punti di vantaggio sullo
spagnolo e duecento sul connazionale. Un dominio.
Toseland si rifarà l’anno seguente, la prima stagione
della cosiddetta monogomma Pirelli, che fu introdotta
per livellare le prestazioni delle squadre, e vincerà il
suo secondo titolo nel 2007. In mezzo altri due mondiali
vinti dai due “Troy”; Corser nel 2005, che rientrante in
sella a una buona moto, dopo tre anni passati alla guida
dell’esperimento “Petronas”, porta la Suzuki al primo
iride, e Bayliss, tornato anche lui dopo tre ottimi anni
di motomondiale nei quali aveva contribuito allo
sviluppo della potentissima desmosedici. Il resto è
cronaca. Nel 2008 Bayliss vince la sua cinquantaduesima
gara e il suo terzo titolo mondiale nonostante la
concorrenza agguerritissima di vecchi e nuovi “nemici”.
Max Biaggi, l’italiano quattro volte vincitore del
mondiale 250, lo spagnolo Carlos Checa, il tedesco Max
Neukirchner e i sempreverdi Noriyuki Haga e Troy Corser.
Tanti bravi piloti non sono stati citati in questo breve
resoconto. Viene in mente su tutti Giancarlo Falappa, il
Leone di Jesi, un “eroe romantico” dall’immenso coraggio
che rimontava in sella dopo ogni caduta portando a
termine gare con pedaline rotte o ferite varie, e che
concluse anzitempo nel 1994 la carriera, dopo un
rovinoso incidente che lo tenne in coma per 38 giorni; o
ancora vengono in mente lo scorbutico Rob Phillis, che
odiava le formalità e non rilasciava interviste, il
geniale Anthony Gobert, i bravi Laconi e Vermeulen.
A ventidue anni dall’arruffato mondiale organizzato da
McLaughlin si può oggi affermare, senza timore di essere
smentiti, che la Superbike ha raggiunto un successo
enorme, quasi equivalente a quello della classe regina
del Motomondiale. Questo per due motivi: il primo,
prettamente commerciale, cioè che i costruttori si sono
interessati sempre di più ad un mondiale dove gareggiano
motociclette di serie. BMW, Aprilia e prossimamente KTM
sono pronte al debutto nella serie al grido di “domenica
vinci e lunedì vendi”, come si è ormai soliti dire tra i
costruttori; il secondo e più profondo motivo del
successo della Superbike sta nello spettacolo.
Le derivate di serie, la
monogomma, l’impegno dei costruttori al fine di vendere,
fanno sì che le gare siano incerte dal primo all’ultimo
giro, con sorpassi spettacolari, staccate al millimetro
e piloti con un cuore grande come un palazzo, perché per
guidare al limite tutti quei cavalli bisogna essere, o
folli, o follemente innamorati delle due ruote.
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