N. 127 - Luglio 2018
(CLVIII)
sul Summit di Helsinki
Declino
del
Trump
Bump
e
risalita
di
Platov
di Leila Tavi
Il Summit di Helsinki tra Putin e Trump è
stato
l'argomento
di
politica
internazionale
più
dibattuto
degli
ultimi
tempi.
Le
televisioni
e i
quotidiani
negli
Stati
Uniti
ancora
oggi
si
crogiolano
nel
circo
mediatico
che
l'evento
ha
scatenato
e
nel
supporto
che
i
cittadini
statunitensi
stanno
dimostrando
alla
crociata
dei
media
contro
il
Trumpismo.
Il Trump Bump è stato un fenomeno
mediatico
durante
la
campagna
elettorale
per
le
presidenziali
statunitensi
del
2016.
È un
paradosso,
più
si è
rudi,
aggressivi
e
insopportabili,
più
si è
popolari.
Nell’ottica
della
deriva
populista
che
stanno
attraversando
le
democrazie
occidentali,
il
corto
circuito
che
ne è
scaturito
è
frutto
delle
interferenze
operate
attraverso
la
rete
informatica
sulla
politica
interna
dei
singoli
Paesi,
mette
in
crisi
i
tradizionali
sistemi
politici
basati
sul
costituzionalismo
e
apre
inquietanti
scenari
di
autoritarismo
digitale,
in
cui
sarà
possibile,
attraverso
l’intelligenza
artificiale,
controllare
i
popoli
attraverso
la
rete.
Eppure se Trump rappresenta l’outsider
dell’establishment
statunitense,
la
rottura
con
la
tradizione,
l’ibrido
risultato
che
incarna
nell’immaginario
collettivo
statunitense,
un
modello
di
benessere
a
cui
aspirare
e un
semplice
uomo
comune,
ne
mette
in
evidenza
la
sua
più
grande
debolezza:
non
avere
dimestichezza
con
le
pratiche
politiche
tradizionali.
Ciò
si
traduce
in
ripetute
défaillance
in
pubblico,
che
lo
espongono
di
volta
in
volta
al
giudizio
diretto
dell’opinione
pubblica,
così
come
la
gente
comune
giudica
le
gag
di
un
comico.
La continua sovraesposizione mediatica a
cui
Trump
è
sottoposto
dall’inizio
del
suo
mandato,
di
cui
i
media
statunitensi
ed
europei
traggono
beneficio,
come
sottolineato
dal
motto
della
Columbia
Journalism
Review
«If
it’s
Trump,
it
leads»,
non
ha
soltanto
screditato
la
figura
istituzionale
di
spicco
di
una
delle
maggiori
potenze
mondiali,
ma
la
spasmodica
ricerca
di
lettori
da
parte
delle
grandi
testate
contribuisce
in
modo
pericoloso,
come
argomentato
da
Andrea
Miroshnichenko
e
Sergei
A.
Samoilenko,
a
fomentare
un
sentimento
bellicoso
nei
confronti
della
Russia.
I
due
analisti
ricordano
che
William
R.
Hearst
e
Joseph
Pulitzer
sfruttarono
le
tensioni
tra
la
Spagna
e
gli
Stati
Uniti
nel
periodo
precedente
alla
guerra
del
1898,
proprio
per
incrementare
la
vendita
dei
loro
giornali
In risposta agli attacchi dei media, il
presidente
statunitense
ha
architettato
quello
che
gli
esperti
dei
social
media
chiamano
il
Trump
filter
bubble,
la
possibilità
di
scegliere
attraverso
le
piattaforme
social
solo
le
notizie
e i
punti
di
vista
che
condividiamo.
Per esempio Trump ha oltre 53 milioni di
seguaci
su
Twitter,
ma
segue
solo
47
profili,
tra
cui
familiari,
sue
imprese,
il
suo
entourage,
la
Fox,
l’unico
network
televisivo
che
non
è
critico
nei
suoi
confronti.
Il fenomeno Trump non ha giovato soltanto
ai
media
statunitensi,
ma
ha
rafforzato
la
propaganda
russa
e i
suoi
mezzi
di
comunicazione.
Se
Trump
è
esposto
alla
gogna
mediatica
quotidianamente,
negli
Stati
Uniti,
in
Europa
e in
Russia,
la
figura
di
Putin,
attraverso
una
contemporanea
accezione
del
culto
della
personalità
è
stata
nel
corso
degli
anni,
durante
il
lungo
ventennio
al
potere,
è
stata
assurta
a
icona
globale
dagli
specialisti
del
Cremlino,
tra
i
quali
Gleb
Pavlosky.
Chi non ha presente l’immagine di Putin a
cavallo
di
un
orso
a
torso
nudo,
che
getta
a
terra
il
suo
avversario
con
una
repentina
mossa
di
judo
o
immortalata
in
forme
diverse
di
souvenir
che
vanno
dalla
t-shirt
alla
matrioska.
L’immagine
dell’uomo
forte
ha
contribuito
a
risollevare
le
sorti
di
un
Paese
indebolito
alla
fine
del
bipolarismo.
Lo stesso Trump ha un’ammirazione per Putin
che
ha
espresso
perfino
durante
la
conferenza
stampa
congiunta
in
Helsinki
del
16
luglio
scorso,
come
non
ambire
a
ricoprire
lo
stesso
ruolo
di «strongman»
per
Trump,
con
i
media
russi
totalmente
asserviti
al
volere
del
loro
presidente,
che
ne
celebrano,
osannano
le
gesta.
Un
eroe
paradossalmente
in
stile
hollywoodiano,
come
sottolineato
da
Pavlosky
in
un’intervista
a
Anton
Troianovski,
autore
della
recente
pubblicazione
«Branding
Putin».
Una sorta di deferenza che mette in imbarazzo
le
istituzioni
statunitensi
e
contribuisce
a
concedere
ancora
più
fiducia
a
Putin
in
aree
del
mondo
un
tempo
sotto
l’egemonia
statunitense,
in
primis
i
Paesi
MENA.
Perfino negli Stati Uniti, dove lo scandalo
del
Russiagate
ha
riportato
un’immagine
della
Russia
come
acerrimo
nemico,
la
figura
di
Putin,
anche
se
varie
volte
messa
in
ridicolo
dai
programmi
satirici
televisivi,
non
è
considerata
stupida,
al
contrario
di
Trump,
che
regolarmente
interpreta
il
ruolo
del
«bumbling
fool».
Il brand Putin funziona, sostituisce il
culto
della
personalità,
ma
con
le
stesse
finalità
politiche
e
strategiche
e
finora
ha
dato
i
suoi
risultati.