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filosofia & religione


N. 111 - Marzo 2017 (CXLII)

sul suicidio

TOPOS LETTERARIO E DRAMMA DELLA SOCIETÀ POSTMODERNA
di Norberto Soldano

 

Stando a quanto riportato da una recente inchiesta giornalistica di “State of mind”, a cura di Claudio Nuzzo e Zeno Regazzoni, il suicidio è la dodicesima causa di morte nel mondo. Rappresenta una delle principali cause di morte per le persone di età compresa tra i 15 e i 44 anni, insieme agli incidenti stradali e alle malattie cardiovascolari. Le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) sono poco rassicuranti. Nel 2012 nel mondo sono state circa 800.000 le persone che si sono tolte la vita.

 

Si stima che i decessi per suicidio annuali possano salire a 1,5 milioni entro il 2020. La sensibilità della società civile e della cittadinanza tutta, nonché delle istituzioni, verso questa delicata tematica è andata crescendo negli ultimi anni. A dimostrazione di ciò, è stata infatti istituita la Giornata Mondiale per la Prevenzione del Suicidio, ma il fenomeno non tende ad attenuarsi, anzi. Hanno scosso, come non mai, le coscienze, a riguardo, le parole scritte in una lettera dal trentenne precario suicida, “stufo di sopravvivere”, toltosi la vita il 31 gennaio scorso. Parole sazie di amarezza, rabbia, tristezza malinconica, frustrazione e sofferenza logorante. La paura di un futuro incerto e la terribile piaga del precariato sembrano aver inesorabilmente decretato la sua fine prematura.

 

Parole di resa le sue, di sconfitta, che hanno fatto breccia negli animi, già scoraggiati, di una generazione con le ruote sgonfie, i cui sogni si vedono spesso inevitabilmente infrangere nell’alto tasso di disoccupazione giovanile e nella complessiva crisi del mondo del lavoro. Siamo in presenza di un fenomeno che non può ridursi a cronaca quotidiana limitandosi a riempire le pagine dei giornali e foraggiando le fantasiose ricostruzioni dei giornalisti più indiscreti, ma che va posto sotto la nostra lente di ingrandimento, analizzato, studiato e decriptato per poter individuare efficaci strategie volte ad arginarlo. Il suicidio è stato d’ispirazione per molti artisti. Pensiamo al famoso quadro di Édouard Manet.

 

Ha affascinato scrittori ed intellettuali divenendo un topos della letteratura. Pensiamo alla tragica conclusione di “Romeo e Giulietta” di William Shakespeare, “I dolori del giovane Werther” di Johann Wolfgang Goethe, le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo. Suggestiva anche la morte dell’attrice Sybil Vane nel “Ritratto di Dorian Gray”. Le sue tracce più recondite nel mondo della letteratura si perdono nella notte dei tempi. Si consideri la tragedia sofoclea “Aiace”. Straziante la morte suicida di Didone, narrata nel IV libro del capolavoro virgiliano, quale esito della tormentata vicenda d’amore fra la regina cartaginese e l’eroe troiano costretto dal volere del Fato a partire per raggiungere il Lazio. Il tema del suicidio che in ogni tempo ha incuriosito, talvolta rabbrividito, talaltra indotto a profonde riflessioni non poteva mancare nella “Divina Commedia”. Il “sommo poeta”, le cui spoglie riposano in pace osannate quotidianamente dalle miriadi di visitatori nel ravennate, lo immerge in una selva «quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, che cacciar de le Strofade i Troiani con tristo annunzio di futuro danno».

 

Celebre è divenuto nella storia della letteratura l’incontro fra Dante e Pier della Vigna, «colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo». Altrettanto celebri sono i vv. 70-72 del Canto I del Purgatorio «or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch'è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta». Tendenzialmente univoca sembra essere la direzione delle opinioni espresse in materia dalle diverse religioni. Nella maggior parte delle confessioni cristiane il suicidio è considerato un peccato. Il suicidio non è consentito neanche nell'Islam. Nel corso della storia, il suicidio è talvolta divenuto una solenne forma di martirio. Sono noti gli attacchi kamikaze dei giapponesi contro le navi da guerra degli Alleati durante la seconda guerra mondiale. Fu il canto del cigno della potenza nipponica prossima al crepuscolo, sulla cui falsa riga sembrano oggi muoversi le formazioni più estremiste delle cellule di Al Qaeda e del temibile Stato Islamico. In ambito giuridico il discorso si fa decisamente interessante.

 

L’orientamento della giurisprudenza, a livello planetario, non sembra infatti convergere in un unico verso. Nella maggior parte dei Paesi occidentali il suicidio non è più considerato un reato. Lo è stato lungo tutto il Medioevo fino al XIX secolo. Molti Paesi islamici lo considerano però tuttora un reato. Anche in India il suicidio è illegale. Chiare, talvolta nette e dai contorni scanditi, le divergenze emerse sul terreno filosofico fra le disparate correnti di pensiero. Aristotele nell’Etica Nicomachea giudica il suicidio un atto di vigliaccheria. Seneca nelle Lettere a Lucilio ne ammette la liceità. Abbiamo gettato un po’ di luce sui diversi aspetti del fenomeno suicida cercando di fotografarlo da diverse angolazioni. Tanti sono i delicati e complessi quesiti che circolano irrisolti nella società attuale. Cosa spinge nell’era postmoderna l’essere umano al suicidio? Quali tanto gravi asperità possono indurlo a ciò? La nostra viene spesso dipinta nei salotti mondani come una società pervasa dal cinismo. Ad incoraggiare i pessimismi diffusi, a dare manforte alle tesi hobbesiane provvedono i vari intellettuali di turno. Non è un segreto che l’antropologia negativa riscuote da sempre facili consensi. Siamo nel contempo in una società che ogni giorno riesce a garantire materialmente il soddisfacimento di gran parte dei nostri bisogni primari e non solo. Una società tanto vituperata da quegli stessi che dei vantaggi, che questa offre, usufruiscono volentieri e non intendono rinunciare.

 

Un’ipocrisia imperdonabile. Una società intellettualmente bipolare: vi è, da un lato, chi la disprezza con rancore e chi, dall’altro, ne tesse le lodi e si compiace dei benefici che ne trae. Scorre l’acqua calda nei rubinetti dei nostri bagni di casa; non manca il cibo nelle dispense delle cucine; le opportunità per conseguire i propri studi sono maggiori rispetto al passato; sono migliorate le condizioni igieniche individuali; l’attenzione verso l’estetica è divenuta ossessiva, la cura del proprio fisico quasi patologica; la vacanza estiva, un tempo appannaggio per pochi, oggi è un lusso alla portata di due famiglie su tre; l’istruzione scolastica è un’istituzione affermata; i servizi offerti dagli Stati nazionali sono stati notevolmente incrementati; lo stesso terzo settore ha fatto giganteschi passi in avanti rispetto al passato. Sembra poco? Un altro dubbio sorge ora spontaneo: possiamo accontentarci di ciò? Continuiamo inavvertitamente a rincorrere il mito dell’agiata sudditanza: stabilità economica, lusso e rilassatezza perenne. Pronunciamo con piacere ed estrema solerzia la parola “diritto” avendo, di contro, rimosso dal nostro vocabolario quotidiano il termine “dovere”. I nostri nonni lavoravano la terra, rimettendoci la schiena, le articolazioni, eppure erano morivano felici dopo anni di sfruttamento e lavori pesanti. I muratori tornando a casa gustavano con piacere il semplice ragù delle proprie mogli. Oggi persino una cena al ristorante sembra non essere abbastanza.

 

L’artigiano gioiva delle sue creazioni compiacendosi della propria vena artistica. In un mondo semianalfabeta, in un cielo cupo e grigio i pochi raggi di sole, perpetranti dalle fitte nubi, riscaldavano gli animi della gente più delle “lampade” nei centri estetici della società postmoderna. La perdita di un posto di lavoro non può che essere la goccia che fa traboccare il vaso, analogo discorso vale per una delusione sentimentale. Quale sia la reale causa, a monte, che spinge l’uomo nella post-modernità all’atto estremo del suicidio resta però l’enigma. Da buoni imitatori di Edipo proveremo quantomeno a rinvenirne qualche chiave di lettura. La velocità è un elemento costitutivo della post-modernità. “Tutto alla portata di tutti, tutto a tutti, tutto e subito”: questo potrebbe essere il suo motto. Viviamo, inoltre, in un mondo in cui prova a farsi strada l’utopia dell’autosufficienza della razionalità umana. Per secoli l’uomo ha temuto la fine del mondo.

 

La stessa potrebbe oggi cagionarla da sé premendo un bottone sbagliato in una base missilistica nucleare. Il punto è proprio questo: siamo sicuri che l’uomo, nell’era postmoderna, postindustriale, delle telecomunicazioni e apparecchiature informatiche avanzate, abbia trovato una risposta a tutte le sue domande? Ai suoi interrogativi? La tecnologia, gli alimenti prelibati e selezionati con cura, i percorsi benessere, le lussuose crociere, i piaceri fisici risolvono i nostri drammi esistenziali? La scienza, l’informatica, l’economia ne sono in grado? Quanto ci appaga realmente una cena al ristorante? Come si spiega il divenuto, segretamente, ormai frequente ricorso a vecchie pratiche esoteriche come l’esorcismo? Non basta la psichiatria a spiegare e curare certi malesseri? E il capillare diffondersi delle sette sataniche legalmente perseguite? La scienza sembra spadroneggiare nel campo dei “perché”. Mentre la fede, siamo sicuri di poterla degradare relegandola ad esercizio paranoico ed anacronistico di mansioni consuetudinarie, come rosari e ricorrenze liturgiche, per gente poco appagata? Le Tesi 92 e 93 di Lutero, rese note nel 1517 a Wittenberg offrono significativi spunti di riflessione. (Tesi 92) «Addio, dunque, a tutti quei profeti che dicono al popolo di Cristo: «Pace, pace!», mentre pace non c’è». (Tesi 93) «Benvenuti tutti quei profeti che dicono al popolo di Cristo: «Croce, croce!» mentre croce non c’è». Esprimono due importanti concetti che, riletti in chiave laica e spogliati della loro veste teologica, si rivelano fondamentali pilastri di una società sana, più equa e sempre prospera: la verità e la vocazione al sacrificio. Mai state così attuali le tesi luterane. La realtà è questa, triste constatarlo.

 

Ci viene da sempre negata la verità. Una stretta cerchia la detiene e la custodisce gelosamente. La vocazione al sacrificio è divenuta una spada di Damocle sulle spalle di pochi. Nessuno ci racconta la verità sin da quando nasciamo: la brutalità che l’essere umano ha manifestato nel corso dei secoli e le fisiologiche avversità della vita. Il culto della fatica, il valore del sorriso sincero e delle lacrime hanno ceduto lentamente il posto alla propaganda del “cielo sempre più blu”. Quello che accade nel “terzo mondo”, i macabri risvolti dell’innovazione tecnologica, lo sfruttamento nei continenti in via di sviluppo, gli interessi dei cosiddetti “pescecani” che si celano dietro le guerre civili sparpagliate qua e là praticamente in tutto il globo. Tutto questo genera inconsapevole frustrazione. La verità ci viene negata anche in casa nostra, nel nostro Paese, da una classe politica che racconta ai suoi cittadini che non c’è da preoccuparsi e che l’economia cresce pensando di racimolare qualche consenso in più. La sfortuna vuole che qualcuno ci creda.

 

Ai giovani andrebbe detta la verità: bisogna sudare per portare il pane sulla tavola, studiare ed impegnarsi al massimo. Oggi un posto di lavoro è una conquista. Ogni istante di felicità una conquista. Andrebbe insegnato nelle scuole che la cultura dei doveri nobilita l’uomo. Predicare l’eroicità, l’ingegno multiforme, la vocazione imprenditoriale, l’ideale ciceroniano per salvare migliaia di giovani dal lassismo, dall’assistenzialismo, dai più disparati vizi, dal fumo, dall’alcool, dalla criminalità organizzata, dalle droghe. L’aspettativa perenne, la fiducia cieca della “manna dal cielo”, la scarsa dedizione al sacrificio, alla lotta, all’investimento, alla correttezza, alla lealtà, al sentimento puro e genuino, al sangue amaro, alle gocce di sudore dalla fronte, il disprezzo diffuso verso i sentimenti da una società che promuove l’edonismo sfrenato, l’illusione della felicità che si può ottenere in un facile “click” come un acquisto fatto su internet, la mancata predisposizione al piacere della scoperta, sommati alla sterile retorica, falsa e demagogica, del capitalismo moderno stilano i tragici capi di accusa di una sanguinosa sentenza. La pena prevista è il suicidio, la cui esecuzione è rimessa al libero arbitrio.



 

 

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