SUL DOLORE
RIFLESSIONI DAL SAGGIO DI BYUNG-CHUL
HAN
di Raffaele Pisani
In quest’opera agile e snella,
Byung-Chul Han, filosofo tedesco di
origine coreana, tratteggia
chiamando in causa numerosi
pensatori il tema del dolore; lo fa
per mettere in luce il tempo che
stiamo vivendo caratterizzato da una
società che invece di affrontare il
problema si adopera per
marginalizzarlo e nasconderlo.
Sia il titolo: La società senza
dolore, come anche il
sottotitolo: Perché abbiamo
bandito la sofferenza dalle nostre
vite, presi alla lettera
potrebbero indurre a pensare che si
parla di una comunità felice.
L’autore intende invece farci vedere
come la società attuale sia
caratterizzata da un’anestesia
permanente.
Se accettiamo questa tesi possiamo
dire di essere diventati l’opposto
degli antichi Greci di cui ci
diciamo eredi: il bello e il tragico
sono spariti dai nostri orizzonti
per lasciare spazio a un sistema
culturale e sociale che l’autore
definisce democrazia palliativa.
Leggiamo: «Il dolore viene
interpretato come un segno di
debolezza, qualcosa da
nascondere o da eliminare in nome
dell’ottimizzazione. Esso non è
compatibile con la performance. La
passività della sofferenza
non ha alcun posto nella società
dominata dal poter fare. Oggi
il dolore viene privato di qualsiasi
possibilità diespressione: viene
condannato a tacere. La
società palliativa non permette di
animare, verbalizzare il dolore
facendone una passione» (p.
7).
La politica palliativa non ha il
coraggio di guardare gli aspetti
dolorosi della realtà e preferisce
accontentare nel presente la sua
base popolare di riferimento, anche
l’arte diventa compiacente e
consumabile. Ma così si scorda la
funzione catartica del dolore,
comunque si possa intendere il
termine.
A questo proposito vale forse la
pena di confrontare l’attualità
presentata dall’autore con la
condizione umana nel lungo periodo.
Il dolore come privazione: il
deserto purificatore del popolo
ebreo contrapposto alla tentazione
di un ritorno a una cattività, che
comunque garantisce cibo abbondante.
Al giorno d’oggi l’alternativa che
si propone per il cittadino è tra
una vita politica coraggiosamente
partecipata e la prospettiva,
peraltro sempre meno certa, di un
benessere economico capace di
mettere a tacere ogni idealità
sociale.
La verità si trova spesso a essere
legata al dolore; nel caso di
Socrate gli Ateniesi, feriti da una
verità che li vedeva colpevoli,
preferirono eliminare il filosofo.
Re Davide invece, che aveva fatto in
modo che Uria perisse in battaglia e
si era preso la moglie Betsabea,
richiamato dal profeta Natan, prende
atto della dolorosa verità che lo
vede colpevole e affronta la
situazione.
La verità purificante si accompagna
al dolore, Hadewijch di Anversa,
poetessa mistica del XIII secolo,
dice in un verso di Mengeldicht: «un
pensiero tanto puro ferirebbe la
lingua di chi volesse parlarne».
Nel breve e intenso paragrafo
intitolato La verità del dolore,
il Nostro fa tante affermazioni
perentorie che richiedono qualche
riflessione. Leggiamo: «Il dolore
è realtà. Sortisce un effetto di
reale. Noi percepiamo la realtà a
partire dalla resistenza che provoca
dolore. L’anestesia permanente della
società palliativa derealizza il
mondo» (p. 41).
Nella stessa pagina leggiamo anche:
«Provo dolore quindi sono». Scontato
il riferimento a Cartesio, si può
cercare di procedere nell’analogia.
Se il cogito cartesiano conduce alla
consapevolezza di essere pensiero,
il soffrire byung-chulhaniano (sic!)
porta a riconoscersi come dolore.
«Tutto ciò che è vero è doloroso»,
troviamo scritto in corsivo a pagina
39; poco dopo parla del rapporto tra
la totalità di un organismo e un
qualunque organo, di cui si prende
coscienza nel momento in cui duole.
Questo porterebbe a una visione
radicalmente pessimista di tipo
leopardiano e schopenhaueriano.
Quando respiriamo aria fresca o
siamo accarezzati dal tepore del
sole scopriamo gli organi
corrispondenti nella piacevolezza,
quando Byung-Chul Han coltiva il suo
giardino segreto, come egli stesso
racconta nel suo Elogio della
terra, prende coscienza di una
realtà profonda senza che il dolore
la faccia da padrone.
Se il dolore è una modalità di
conoscere la verità, pensiamo lo
possa essere anche l’armonia, da
quella di un corpo organico ben
funzionante a quella cosmica. Tutto
ciò senza mettere in discussione la
tesi fondamentale del saggio, che
vede la società attuale bandire la
sofferenza dalle nostre vite e che
giudica il dolore come un
imbarazzante residuo privo di
significato.
La società palliativa riesce
talvolta a tenerlo lontano, ma il
dolore ritorna in altre forme: i
progressi della medicina hanno messo
ai margini tante malattie, ma il
male si prende le sue rivincite con
le patologie degenerative, la noia e
l’autolesionismo; per questo nel
libro si parla della dialettica e
dell’astuzia del dolore.
Questo non si limita a perseguitare
l’uomo ma fa in modo di essere
reclamato, qualora fosse assente; la
produzione artistico-letteraria lo
richiede. Riportando un discorso di
Proust: «Malgrado mi amareggi il
fatto di dover patire dolori fisici
così insopportabili, divenuti
soprattutto negli ultimi mesi
inesorabili accompagnatori delle mie
ambasce, io m’aggrappo a questi miei
dolori e detesto il sol pensiero che
possano andarsene» (p. 43).
Il dolore dell’altro, con il quale
un soggetto genuinamente umano
dovrebbe entrare in un rapporto
empatico sentendosi per così dire
ferito nella propria carne, viene
oggi svilito nell’abbondanza di
immagini di violenza, che con gli
attuali mezzi di diffusione ci
raggiungono continuamente, quando
non siamo noi stessi a cercarle.
La trasformazione dell’altro in
oggetto e in numero porta l’autore a
riprendere per un po’ il tema della
pandemia già trattato nel paragrafo
intitolato "Sopravvivere" (pp.
19-25). Leggiamo all’inizio: «Il
virus fa breccia nella zona di
benessere palliativa e la trasforma
in una quarantena in cui la vita
s’irrigidisce diventando mera
sopravvivenza. Più la vita è
sopravvivenza, più si ha paura della
morte. In fin dei conti, l’algofobia
è tanatofobia. La pandemia rende di
nuovo visibile la morte da noi
meticolosamente rimossa e sfrattata.
La sovraesposizione della morte ci
rende nervosi».
Alla società palliativa, permissiva
e pervasiva, se ne contrappone nei
periodi pandemici una caratterizzata
da barriere e divieti; dove prima
eravamo sovrani pressoché assoluti
ora dobbiamo fare i conti con un
avversario invisibile e perciò ancor
più temibile.
L’autore racconta come la società
reagisca medicalizzando e
monitorando l’esistenza della
popolazione, tutto ciò al fine di
una mera sopravvivenza biologica,
con il sacrificio dell’essenza di
umanità, la sola che possa rendere
significativa la vita.
Il testo non accenna a soluzioni
alternative che le istituzioni
dovrebbero attuare e non accenna
neppure alle posizioni negazioniste,
queste sì palliative. Nascondono il
dolore e la morte, oppure, come il
manzoniano don Rodrigo colto dai
sintomi della peste che vorrebbe
attribuire al vino e alla calura
estiva, fanno riferimento a un’altra
origine che forse inquieta meno.
Chiedersi nel momento della
tribolazione quale sia l’essenza del
dolore pare essere una questione
oziosa; analoga a quella che don
Ferrante, altro personaggio
manzoniano, poneva nei confronti
della peste. Il buon senso spinge
piuttosto ad azioni pratiche come
fuggire o anche affrontare per
tentare di porre qualche rimedio.
Nel paragrafo intitolato "Ontologia
del dolore", il Nostro parla della
posizione di Heidegger in proposito.
Interpretando arditamente il
pensiero del filosofo di Friburgo e
il rapporto tra essere e dolore,
giungerà ad affermare che «Heidegger
direbbe addirittura: essere è
dolore» (p. 54).
A Ernst Jünger che tratta
l’argomento nel saggio intitolato
appunto: Sul dolore,
presupponendo che ognuno sappia
cos’è, Heidegger risponde: «Dimmi
il tuo rapporto con l’essere, nel
caso tu ne abbia presentimento, e ti
dirò come e se ti “occuperai” “del
dolore” o se ti è possibile
riflettere su di esso col pensiero»
(pp. 53-54).
Ma cos’è il dolore? Byung-Chul Han
si confronta con Heidegger il quale
«Vuole penetrare nell’essenza del
dolore passando per l’essere» (p.
54). L’uomo come gli altri enti
sgorga per così dire dall’essere
«viene colpito e chiamato da una
voce (Stimme) che suona tanto
più pura, quanto più senza suono
essa risuona attraverso ciò che è
sonoro» (p. 55), in riferimento
all’opera Heideggeriana: Il
principio di ragione.
La morte, che condiziona l’intera
umana esistenza, è relazione con il
completamente Altro, con ciò di cui
non possiamo disporre; il male è una
sorta di morte in miniatura. «Il
dolore rende l’essere umano
ricettivo nei confronti
dell’indisponibile che gli offre
soggiorno e appiglio. Il dolore
regge l’esistenza umana» (p.
56).
La voce dell’essere del
completamente Altro appare quando la
parola nella sua sonorità viene
meno; la poesia è quel residuo
cantabile che ci avvicina al
silenzio. Il sentimento del dolore e
della morte, che accompagna
l’esistenza umana ci mette in
relazione con il totalmente Altro,
per questo esso si configura,
paradossalmente, come un dono.
Riferimenti bibliografici:
Byung-Chul Han, La società senza
dolore, Einaudi, Torino 2022;
Byung-Chul Han, Elogio della
terra, Nottetempo, Milano 2021;
Martin Heidegger, Il principio di
ragione, Adelphi, Milano 1991;
Martin Heidegger, In cammino
verso il linguaggio, Mursia
Editore, Milano 2014.