attualità
UNA NAVE PER BLOCCARLI TUTTI
LA QUESTIONE DI SUEZ E IL CASO DELLA
EVER GIVEN
di Gian Marco Boellisi
Spesso quando usiamo nel gergo
quotidiano il termine “collo di
bottiglia” non facciamo caso a quanto
bene esso rappresenti certe situazioni
reali nel mondo di tutti i giorni.
Un esempio da manuale si è presentato
nell’ultima settimana di marzo 2021,
quando una nave portacontainer ha
ostruito il Canale di Suez, mandando
così in tilt l’intero commercio
mondiale. Caso più unico che raro, il
blocco del Canale ha sollevato numerose
preoccupazioni sulla fragilità delle
rotte commerciali e su quanto l’intera
economia globale sia basata su un
fragilissimo equilibrio. Risulta quindi
interessante analizzare le dinamiche
dell’accaduto e comprendere anche nel
dettaglio perché la struttura del
commercio marittimo mondiale sia stato
colpita così violentemente da questo
evento particolare.
Partiamo da dei brevi cenni storici.
Considerato sin dai tempi dell’Antico
Egitto una delle sfide ingegneristiche
più grandi dell’umanità, il Canale di
Suez ha costituito sempre oggetto di
enorme interesse per tutte le maggiori
potenze internazionali. Il Canale come
lo conosciamo noi venne completato nel
1867, collegando così per la prima volta
nella storia in maniera stabile il Mar
Mediterraneo e il Mar Rosso.
La costruzione fu resa possibile grazie
al contributo della Francia, la quale
ottenne in cambio la comproprietà
assieme all’Egitto. A seguito delle
dinamiche interne al governo del Cairo,
questi fu costretto a vendere la propria
quota di proprietà del Canale all’Impero
Britannico, rendendo così Suez una zona
di transito a esclusivo utilizzo e
controllo delle potenze occidentali.
Questa situazione fu completamente
ribaltata nel 1956, quando il presidente
egiziano Nasser nazionalizzò il Canale,
espropriando così tutte le potenze
straniere ivi insediatisi
commercialmente e militarmente da quasi
un secolo. Ciò causò la ben nota “crisi
di Suez”, dove Israele, sotto forti
pressioni inglesi e francesi, invase
l’Egitto per tornare in possesso del
passaggio artificiale.
Tuttavia, a seguito della minaccia
dell’Unione Sovietica di unirsi al Cairo
nel conflitto e dello schieramento degli
Stati Uniti dalla parte di Nasser,
Israele insieme a Gran Bretagna e
Francia furono costrette a ritirarsi,
giungendo quindi a un pieno possesso
egiziano del Canale. Status quo
che perdura ancora oggi.
Da allora il Canale di Suez risulta
essere uno delle principali vie di
passaggio del commercio marittimo
globale. È importante ricordare infatti
che la maggior parte del commercio
dell’attuale società globalizzata
avviene ancora per nave, passando nella
maggior parte dei casi per certi
percorsi obbligati difficilmente
bypassabili.
Nel dettaglio Suez risulta essere lo
snodo principale di comunicazione tra
l’Europa, e più in generale il
Mediterraneo, e l’Asia, con una media di
circa 17.000 navi che lo attraversano
ogni anno. Proprio a causa di questo
enorme traffico il Canale ha subito un
ampliamento nel 2015 e non è escluso che
ve ne siano altri nel prossimo futuro.
Giusto per dare alcuni valori di
riferimento, attraverso Suez transita
circa il 30% del commercio marittimo
globale, il 12% del commercio
complessivo sul nostro pianeta nonché il
10% del greggio e gas naturale estratto
nel mondo. Già da soli questi numeri
possono far comprendere a pieno la
gravità per le economie di tutto il
globo di quanto accaduto negli ultimi
giorni di marzo 2021.
L’incidente in sé ha avuto luogo tra il
23 e il 29 marzo 2021 e ha coinvolto la
nave portacontainer Ever Given, un
mastodonte lungo 400 m e dal peso di
224.000 tonnellate registrato a Panama
dalla compagnia taiwanese Evergeen
Marine. A seguito delle forti raffiche
di vento presenti quel giorno la Ever
Given si è così incagliata di traverso
al kilometro 151 del Canale, bloccando
così interamente il traffico marino e
tutte le navi che vi dovevano
transitare.
Per quanto possa sembrare strano che una
nave di simili dimensioni venga resa
ingovernabile, bisogna considerare che
il vento stimato al momento del
passaggio era di 40 nodi, il quale ha
spostato la nave e ha sollevato tanta
sabbia da rendere la visibilità
pressoché nulla, e che l’enorme quantità
di container presenti a bordo avrebbe
costituito una superficie così estesa da
creare un vero e proprio “effetto vela”.
Il vento che ha causato la deviazione
della rotta non è stato un evento
casuale, ma un fenomeno naturale che
ogni anno si presenta periodicamente nel
Sahara e anche in Egitto, il cosiddetto
khamsin. Il termine khamsin deriva
dall’arabo
خمسين
(khamsīn) e significa 50, ovvero il
numero di giorni in cui il vento
soffierebbe ininterrottamente tra la
fine dell’inverno e l’inizio
dell’estate. Raramente si arriva a
tempeste di sabbia di così lunga durata,
tuttavia è innegabile che proprio in
questo periodo dell’anno il khamsin
presenta la sua massima intensità.
Per quanto il vento abbia sicuramente
contribuito in larga parte
all’incidente, è molto difficile che
esso ne sia stato l’unica causa. Gli
analisti infatti ritengono che un’altra
buona fetta di responsabilità sia stata
dovuta a un comando sbagliato impartito
alla nave. Prova ne sia che il livello
di incagliamento raggiunto dalla Ever
Given è difficilmente spiegabile
unicamente dal contributo del vento, se
non anche insieme al contributo di un
aumento di potenza del motore dato alla
nave per cercare di correggere la rotta
poco prima dell’arresto. Altre ipotesi
ben più coraggiose affermano che il
tutto potrebbe essere stato frutto di un
attacco hacker sui sistemi elettronici
della nave, tuttavia al momento non vi
sono prove che puntino in questa
direzione.
Qualunque sia stata la causa, all’apice
del blocco vi erano 320 navi in attesa
su entrambi i lati del Canale. Le stime
parlano di circa 400 milioni di dollari
persi per ogni ora di fermo del
transito, per un totale di circa 9
miliardi al giorno. Tutti gli armatori
del mondo hanno tirato un sospiro di
sollievo quando il 29 marzo la Smit
Salvage, una compagnia olandese
specializzata nel recupero di navi, ha
disincagliato la Ever Given e ha
permesso nuovamente il traffico
attraverso Suez.
Al netto della crisi superata quella che
è stata colpita maggiormente è stata
l’immagine di Suez stessa, vista ora
come un potenziale punto di blocco delle
rotte commerciali da e verso il
Mediterraneo. Molte compagnie
addirittura stanno valutando
concretamente un potenziale cambio di
rotta per il futuro in maniera da
evitare ritardi del genere. Qualora
questo scenario si concretizzasse, ciò
comporterebbe un’enorme perdita in
termini politici e soprattutto economici
per l’Egitto, il quale in questo periodo
particolarmente delicato per il Medio
Oriente non può fare a meno delle
entrate derivanti dal Canale.
Proprio l’Egitto risulta essere uno dei
tasselli chiave all’interno del contesto
geopolitico mediorientale odierno, fatto
di storici riassestamenti degli
equilibri di potere e di importanti
mutamenti verso un’acuta polarizzazione
delle parti.
In questo scenario estremamente
complesso, Suez non risulta essere
solamente un’enorme fonte di introiti
per il Cairo (si parla di circa 5,6
miliardi di dollari di diritti di
passaggio nel solo 2020) ma anche un
asset geopolitico di valore
inestimabile. La travagliata economia
egiziana al giorno d’oggi sopravvive
grazie anche alle entrate del Canale,
motivo per il quale per chiunque volesse
colpire al cuore l’Egitto sa che
l’obiettivo ideale sarebbe proprio Suez.
Per tutelare i propri interessi in
quest’area tanto particolare, il governo
egiziano ha istituito una zona economica
speciale nell’area di Suez per attirare
investimenti esteri e incrementarne
ancora di più i profitti a lungo
termine. Una delle prime potenze estere
che non ha perso tempo nell’investire in
Egitto è stata la Cina, la quale nel
2016 ha firmato nel contesto della Nuova
Via della Seta svariati accordi con il
Cairo per un totale di 15 miliardi di
dollari di investimenti nel settore
delle infrastrutture e dei servizi. Al
netto di queste considerazioni, possiamo
quindi capire quanto vi sia l’interesse
da parte non solo dell’Egitto ma anche
di player esteri molto importanti
affinché le cose a Suez continuino a
scorrere come hanno sempre fatto.
Tra tutte le merci e le commodities
che hanno accusato il colpo della
recente crisi, il petrolio è sicuramente
quella che ha subito le fibrillazioni
maggiori. Alla sola notizia del blocco
del Canale, il greggio ha subito un
aumento netto del 5%. Questo poiché
attraverso Suez passano ogni giorno
circa 2 milioni di barili di petrolio
greggio e circa altrettanti di prodotti
petroliferi raffinati. In questo senso
le nazioni europee sono state
sicuramente quelle più in apprensione,
visto che per qualche giorno le loro
forniture provenienti dal Golfo Persico
sono state messe in forse.
Inoltre il problema si aggrava
ulteriormente considerando che esistono
ben poche alternative al Canale di Suez
e nessuna di esse è altrettanto sicura o
economica. La prima è la
circumnavigazione dell’Africa attraverso
il Capo di Buona Speranza, il quale
richiede 10 giorni di navigazione oltre
a innumerevoli costi per ogni giorno
speso in più mare, senza contare i
rischi alla sicurezza derivanti dalla
pirateria. La seconda invece è
attraverso l’oleodotto Sumed, il quale
parte da Ain Sokhna nel Golfo di Suez
per arrivare nel Mediterraneo al
terminal di Sidi Kerir. Tuttavia anche
questa via porta a tempistiche e costi
ulteriori, quindi non sempre è preferita
dalle compagnie di distribuzione
petrolifera.
Un altro prodotto profondamente colpito
è stato il gas naturale liquefatto, il
quale ormai anch’esso si muove
prevalentemente via mare nelle
cosiddette “gassiere”. A seguito quindi
della consapevolezza che una larga fetta
del mercato degli idrocarburi viaggia
per nave, le nazioni produttrici di tali
risorse hanno ritenuto possibile
cambiare destinazione, e quindi cliente
finale, al posto di lasciare le navi in
attesa per un tempo indefinito di
fronte al Canale, come tra l’altro già
fatto in alcuni casi in passato. Questo
ovviamente solo nel mentre della crisi e
qualora la stessa si fosse protratta più
a lungo, tuttavia ci mostra quanto sia
multiedrica la domanda mondiale di
idrocarburi e allo stesso tempo di
quanto flessibile sia la corrispondente
offerta.
Lo shift delle rotte degli
idrocarburi comporta tuttavia anch’esso
dei rischi non indifferenti. Bisogna
infatti tenere conto che Suez non è
l’unico collo di bottiglia che le
petroliere devono attraversare per
raggiungere la propria destinazione. Un
altro celebre punto estremamente
delicato è lo stretto di Hormuz,
attraverso il quale si stima che ogni
giorno transitino tra i 16 e i 20
milioni di barili di petrolio, ovvero
circa un quinto dell’intera produzione
mondiale. Colpire questo stretto così
come Suez, se non in maniera più grave,
comporterebbe sicuramente uno
stressor critico per l’economia
energetica mondiale.
Da qui possiamo capire come i cosiddetti
“chokepoints petroliferi” siano dei
punti geografici estremamente delicati,
da cui dipendono le sorti degli
equilibri economici e politici della
maggior parte del mondo.
Scendendo a un ulteriore livello di
dettaglio, si può quindi comprendere
come il recente blocco di Suez abbia
riacceso veementemente il dibattito
sulla sicurezza e sulla criticità in
generale dei chokepoints marini,
ovvero quei punti geografici attraverso
i quali la maggior parte del commercio
mondiale via nave è obbligato a passare
senza possibilità di deviazioni. Spesso
si dimentica infatti che il mercato
globale altro non è che un flusso
continuo di merci che si sposta via nave
24 ore su 24 senza mai fermarsi. Per
farla in soldoni, il flusso di cargo
rappresenta il sangue nelle vene del
mondo capitalizzato che noi tutti oggi
conosciamo.
Il 90% del commercio odierno è fatto via
nave e le imbarcazioni usate per questo
scambio di merci sono sempre più grosse,
come tutti abbiamo scoperto con
l’incidente della Ever Given. Questo
ovviamente comporta minori costi di
trasporto poiché si impiegano meno
viaggi per portare sempre un maggior
numero di merci ma dall’altro lato
sempre maggiori costi di investimento
per gli armatori di tali mostri
galleggianti.
A seguito del blocco di Suez una delle
prime argomentazioni di dibattito è la
ricerca di rotte alternative che possano
in qualche modo accorciare le rotte
commerciali senza dover passare da uno
dei chokepoints attualmente
esistenti. Una delle tante proposte ha
ripreso in considerazione la celeberrima
rotta Artica, la quale accorcerebbe il
percorso tra Asia ed Europa del 40%
rispetto a quella dell’Oceano Indiano.
Questa soluzione tuttavia dipende
fortemente dagli sviluppi che avrà nei
prossimi anni il cambiamento climatico e
da quali potenze vorranno controllare
per prime le rotte di questi mari a oggi
inutilizzati.
Come accennato il Canale di Suez non è
il primo stretto per volume di merci.
Infatti al primo posto troviamo lo
Stretto di Malacca con 59,4 TEU, ovvero
unità equivalente a venti piedi (sarebbe
la misura standard di volume nel
trasporto dei container ISO ed
equivarrebbe a circa 38 metri cubi). Al
secondo posto vi è il sopracitato
stretto di Hormuz 30,2 milioni di TEU,
poi vi è il ponte di Öresund in
Danimarca con 22,2 milioni, lo Stretto
di Gibilterra con 17,1 milioni, lo
stretto di Suez con 15,6 milioni e
infine il Canale di Panama, con 11,7
milioni di TEU.
Come si può vedere, il globo risulta
essere costellato di questi
chokepoints, i quali rendono il
commercio globale un immenso flusso di
navi giganti e lente che deve
attraversare aree geografiche instabili
con percorsi molto lunghi passando per
colli di bottiglia intrinsecamente
vulnerabili. Non la più rosea delle
situazioni si potrebbe dire.
Questa particolare fragilità porta a un
rischio estremamente alto le navi in
circolazione, tanto che potrebbero
diventare un domani uno dei principali
obiettivi delle cosiddette guerre
asimettriche. Un conflitto asimmetrico è
uno scontro tra due o più belligeranti
in cui le forze tra i contendenti
differiscono in maniera significativa,
motivo per cui si ricorre il più delle
volte a scontri indiretti quali azioni
di guerriglia, sabotaggio e azioni di
disturbo multilaterali.
La sensibilità del sistema commerciale
di cui sopra, unita a una progressiva
digitalizzazione dei sistemi di
controllo delle navi, potrebbe portare
un domani a creare dei danni immani a
livello locale e internazionale,
colpendo ad esempio una petroliera
carica piuttosto che un cargo contenente
minerali semiconduttori destinati al
settore industriale dell’alta
tecnologia. Chiunque possa essere
l’autore di questo tipo di azione, sia
esso un’entità non statuale come
un’organizzazione terroristica o uno
stato vero e proprio, l’effetto finale
non cambierebbe: vista la profonda
natura dell’interdipendenza complessa
presente nel mondo globalizzato odierno
tra le nazioni e le varie
multinazionali, un’azione contro i
commerci sensibili rischierebbe di
mettere in ginocchio l’intero sistema
nell’arco di pochissime ore. L’incidente
di Suez ne è la prova da manuale che
finirà nei libri di storia proprio per
essere stato il potenziale antesignano
di una siffatta crisi a livello
sistemico.
Questo dibattito, se preso in un’ottica
globale, sta portando alcuni analisti a
ritenere che una simile fragilità
dell’apparato commerciale possa mettere
in discussione potenzialmente anche il
concetto di globalizzazione stessa.
Ovviamente questa sarebbe una via
piuttosto radicale, motivo per il quale
attualmente è più pratico il cosiddetto
reshoring, ovvero il tentativo di
rimpatrio di tutti i capitali e le
filiere di produzione relative sia ai
beni di prima necessità sia ai beni
avvertiti come strategici da parte dello
stato (difesa, hi-tech). Questo
banalmente al fine di divenire meno
dipendenti da produzioni estere e quindi
meno dipendenti dalle tratte di
commercio marittime odierne.
Per quanto gli scambi commerciali in uno
scenario simile avverrebbero comunque
all’interno di ogni regione e non più a
livello mondo, ciò porterebbe al rischio
di creare tanti microcosmi indipendenti
(o quasi) che orbitano ognuno attorno a
se stessi senza mai toccarsi. Inoltre si
avrebbe sicuramente un aumento del costo
del lavoro rispetto al passato e una
minore diversificazione dei prodotti,
non avendo alcuna influenza esterna nel
design dei prodotti. Tutto ciò
ovviamente non eliminerebbe comunque in
alcun caso la dipendenza della maggior
parte dei paesi mondiali dalle materie
prime essenziali su cui si basa la
nostra società: minerali, carburanti,
risorse alimentari e idriche. Un esempio
fra tutti può essere l’Italia, la quale
di certo non avrebbe un’indipendenza
energetica vista la quasi totale assenza
di idrocarburi all’interno del nostro
territorio nazionale.
In conclusione, l’incidente di Suez ha
evidenziato come un singolo episodio in
una specifica area possa interrompere
ciò che la maggior parte della
popolazione dà per scontato, ovvero il
regolare flusso delle merci all’interno
del nostro globo. Sebbene è altamente
improbabile che questo evento modifichi
la struttura globalizzata del commercio,
esso ha sicuramente messo in evidenza la
debolezza di un sistema che spesso viene
pensato come indistruttibile.
Il blocco del Canale dovrebbe quindi
costituire uno spunto importante di
riflessione da parte di tutta la
comunità internazionale per cercare di
concepire un’alternativa sostenibile nel
lungo termine. Si sta iniziando a
parlare in questi anni di sistemi
economici autosufficienti basati su
macroregioni, con le diverse
macroregioni permeabili agli scambi, ma
non dipendenti esistenzialmente da essi.
Per arrivare a un risultato tanto
ambizioso saranno necessari decenni e
uno sforzo comune collettivo, il quale
però oggi sembra essere solo un sogno,
essendo la nostra quella che è stata
definita da alcuni studiosi “la società
internazionale meno internazionale e più
divisa mai vista”. |