NUOVO GOLPE IN SUDAN
CRONACHE DI UN SAHARA SEMPRE PIÙ A
PEZZI
di Gian Marco Boellisi
Rivisitando una celebre citazione
del grande saggista e filosofo
George Santayana, solo i morti hanno
visto la fine dei colpi di stato.
Questo è soprattutto vero per il
Sudan, paese martoriato da
un’instabilità perenne e che vive
una nuova fase di acuta violenza a
seguito del tentato colpo di stato
inaugurato il 15 aprile 2023. Che
siano false guerre lampo o colpi di
stato altrettanto pseudo-fulminei,
sembriamo vivere nell’epoca storica
in cui tutto dovrebbe concludersi
prima ancora di rendersi conto che
sia iniziato e invece il tutto
degenera in un conflitto a
bassa-media intensità per un tempo
indefinito. Caso specifico per il
Sudan, il fallito golpe sembra
sempre più delinearsi come una
guerra civile che non avrà durata
breve e che anzi potrebbe infiammare
numerosi dossier internazionali
nell’immediata vicinanza dei propri
confini. È quindi di fondamentale
importanza comprendere come si è
arrivati al 15 aprile e dove verso
quali nuovi equilibri internazionali
potrà portare questo nuovo tragico
conflitto.
Partiamo dalla conformazione
geografica del Sudan. Paese di
grandi dimensioni, affacciato sul
Mar Rosso a Est e confinante con
l’Egitto a Nord, il Sudan è sempre
stato storicamente molto importante
per le dinamiche sociali, politiche
ed economiche della regione.
Crogiolo di etnie tra le più
disparate, Khartoum è sempre stata
vista come collegamento tra il mondo
arabo affacciato sul Mediterraneo e
l’Africa sub-sahariana. Tuttavia
proprio questa sua ricchezza etnica
ha portato in numerose occasioni il
paese sull’orlo del baratro. Un
esempio fra tutti fu la scissione
del Sudan del Sud da Khartoum nel
2011, ritenuta una soluzione atta a
sanare le ragioni delle guerre
civili succedutisi nel corso degli
anni ma che al contrario portarono
ulteriore instabilità alla regione.
Il recente tentativo di colpo di
stato ha avuto origine il 15 aprile,
a due anni di distanza dall’ultimo
golpe, quando le Forze di Intervento
Rapido (Rsf) comandate da Mohammed
Dagalo, noto anche come Hemeti,
hanno cercato di prendere il potere
assaltando i palazzi del potere
nella capitale. Le cose però non
sono andate bene e ora la situazione
è in una fase di stallo in tutto il
paese, tant’è che gli scontri tra le
Rsf e l’esercito regolare sono
costanti indipendentemente dai
cessate al fuoco dichiarati.
L’intervento armato di Hemeti è il
terzo colpo di stato che avviene in
Sudan dal 2019. Il primo fu condotto
nell’aprile 2019 per togliere lo
scranno all’allora dittatore Omar Al
Bashir, storica figura al potere in
Sudan che non accennava a voler
lasciare la propria posizione. Fu
proprio negli anni in cui Al Bashir
era al potere che la figura di
Hemeti inizia a emergere. Infatti le
Rsf (Rapid Support Forces)
furono costituite nel 2013 e da
allora hanno costituito un esercito
a sé stante, con agenda variabile in
funzione del momento storico che il
paese affrontava. A oggi le Rsf
contano circa 100 mila effettivi e
sono la diretta evoluzione della
tristemente nota milizia Janjaweed,
la quale dal 2003 in poi ha
combattuto in Darfur contro i
ribelli anti governativi che
dilagavano nella regione in quegli
anni. L’efferatezza e la cabarbietà
nel sedare le etnie ribelli nel
sangue sono valsi sia ai capi della
milizia sia al presidente al-Bashir
accuse di genocidio e crimini contro
l’umanità da parte della Corte
Penale Internazionale.
Proprio nel contesto della guerra
civile, al-Bashir permise la
creazione di diversi gruppi armati
“indipendenti” nonché centri di
poteri militari al di fuori
dell’esercito regolare proprio allo
scopo di evitare che quest’ultimo
potesse avere troppo potere nelle
proprie mani tale per cui un giorno
avrebbe potuto destituirlo. L’errore
di al-Bashir fu credere di poter
controllare queste milizie, sogno
ovviamente non concretizzato.
All’indomani del colpo di stato del
2019 questo variopinto mosaico di
gruppi armati non scomparì, al
contrario iniziò immediatamente a
lavorare per ritagliarsi uno spazio
sempre maggiore nel nuovo Sudan.
Ovviamente vista l’enorme differenza
di composizione etnica ma anche di
interessi economici fondanti, le
varie milizie lo scontro intestino
al paese era solo questione di
tempo.
Se il colpo di stato contro
al-Bashir fu un mix di proteste
popolari e militari che videro
l’occasione per scalzare il vecchio
presidente, il colpo di stato
dell’ottobre 2021 fu prevalentemente
dovuto all’intervento delle sfere
militari comandate dal generale
Abdel Fattah Abdelrahman Burhan.
Infatti dopo il golpe del 2019 il
potere venne affidato al primo
ministro ad interim Abdalla Hamdok,
il quale fu incaricato di
convogliare lo stato verso un
governo civile senza l’ausilio delle
alte sfere militari. Questo tuttavia
risultò impossibile, poiché sia le
milizie sia gli alti gradi
dell’esercito regolare avevano
accumulato troppi interessi e troppi
privilegi durante gli anni di
al-Bashir per rinunciarvi, motivo
per il quale instaurarono una giunta
militare al comando al posto di
Hamdok. Dopo alcuni mesi di
trattative il governo civile ad
interim fu in qualche maniera
reintegrato, tuttavia l’ennesimo
golpe indebolì ulteriormente lo
stato, rendendolo ancora più preda
di interessi locali e particolari.
Arriviamo così al motivo del terzo
colpo di stato dell’aprile 2023. Qui
infatti si hanno le Rsf che tentano
di prendere il potere proprio perché
il governo centrale fedele al
presidente Abdel Fattah al-Burhan ha
cercato di inquadrarle all’interno
dell’esercito regolare, togliendo
così loro la propria sfera
d’influenza nel paese nonché i
numerosi traffici che generano
profitti tuttora per milioni e
milioni di dollari. Tra le maggiori
fonti di guadagno vi è infatti il
traffico di oro proveniente dalle
varie miniere in possesso alle Rsf,
le quali hanno permesso a Hemeti di
diventare l’uomo più influente di
tutto il Sudan. In questo senso
Hemeti ha provato a temporeggiare,
chiedendo al governo centrale un
periodo di dieci anni per effettuare
la transizione e il relativo
scioglimento delle Rsf al posto dei
due anni previsti inizialmente.
Quando il governo ha dato segnali
negativi in merito, Hemeti ha fatto
la sua mossa. Per quanto a oggi
sembri abbastanza chiaro che siano
state le Rsf a iniziare le
operazioni a Khartoum, vi sono
ancora scambi di accuse in questo
senso tra le due fazioni rispetto a
chi abbia iniziato gli scontri.
Quale sia la verità, la scopriremo
forse solo quando le armi
inizieranno a tecere.
L’ironia della storia ha voluto che
le Rsf e l’esercito regolare fossero
uniti sia nel 2019 per rovesciare la
dittatura di al Bashir sia nel 2021
per reprimere le proteste
pro-democrazia avvenute
successivamente al colpo di stato.
Oggi invece queste due fazioni sono
impegnate in feroci scontri proprio
in virtù di quella tanto vituperata
transizione democratica promessa
fatta anni orsono dal presidente
sudanese. A oggi secondo quanto
riportato dal campo l’esercito
regolare avrebbe un vantaggio
tattico sulle Rsf, essendo in
possesso di numerose strutture
chiave del paese e meglio attrezzata
per difenderle. Inoltre le Rsf sono
abituate a combattere prettamente in
aree aperte e rurali e non in centri
urbani densamente abitati. Prova ne
sia che appena 24 ore l’avvio del
colpo di stato l’esercito
presidenziale era nuovamente in
controllo delle strade di Khartoum.
Un fattore interessante da riportare
è la storia del comandante delle Rsf,
Hemeti. Nato nel Darfur e cresciuto
come allevatore di cammelli, aveva
preso parte egli stesso alla
ribellione che successivamente
avrebbe lui medesimo combattuto con
le proprie milizie. Sotto la sua
guida le Rsf si sono evolute da
piccola milizia combattente a vera e
propria compagnia di mercenari
addestrati, tanto da portare i
propri soldati a combattere in Libia
sotto committenza degli Emirati
Arabi Uniti o in Yemen parteggiando
per le fazioni a guida Saudita.
Essendo mercenari, Hemeti ha reso
fedeli i propri sottoposti nel più
antico dei modi: pagando lautamente
i soldati e i comandanti delle
milizie, rendendoli enormemente
ricchi e influenti in certe aree del
paese. Dall’altro lato le alte sfere
dell’esercito regolare hanno sempre
visto con enorme disprezzo i
componenti delle Rsf, tanto da
creare tensioni tra le due
componenti armate sin dagli albori
della loro collaborazione. Una volta
raggiunto da parte delle Rsf un
potere così grande in Sudan, lo
scontro era solo questione di tempo.
Una delle chiavi dell’efficienza
delle Rsf negli ultimi anni è stato
il loro legame con uno dei gruppi
mercenari più famigerati e
tristemente noti degli ultimi anni:
il Gruppo Wagner. Infatti Hemeti
stesso è molto vicino alla Wagner e
ai suoi vertici, tanto da trovarsi a
Mosca la notte del 24 febbraio 2022
quando iniziò l’invasione russa in
Ucraina. Ovviamente non è
confermato, ma si ritiene verosimile
che la Wagner abbia grandi interessi
proprio nelle miniere d’oro in
possesso alle Rsf e in cambio gli
uomini di Prigozhin avrebbero
fornito addestramento avanzato a
decine e define di miliziani,
rendendoli più efficienti in
tattiche di contro insurrezione e
non solo.
Le attività della Wagner denotano un
più ampio interesse da parte di
Mosca nei confronti del Sudan. Il
tutto iniziò nel 2017, quando si
arrivò alla firma tra il Cremlino e
il dittatore Al Bashir di un
contratto per la costruzione di una
centrale nucleare in Sudan (accordo
peraltro ancora oggi valido
nonostante i vari cambi di regime).
Dopo qualche anno si palesò un altro
accordo tra i due paesi: la
costruzione di una base navale russa
a Port Sudan sul Mar Rosso,
principale città costiera del Sudan.
Nonostante i vari colpi di stato,
solo pochi mesi fa il governo
centrale ha dato il nullaosta per
l’insediamento e l’eventuale
costruzione della base. Questo ci fa
notare come, nonostante Al Bashir
non sia più al potere da svariati
anni, il governo russo non ha mai
perso la propria influenza sui vari
governi sudanesi, anzi ne ha sempre
più aumentato il peso.
Un’osservazione importante da fare è
come Mosca intrattenga quindi ottimi
rapporti con entrambe le parti oggi
in conflitto. Infatti gli accordi
per la base a Port Sudan sono stati
suggellati con il governo
riconosciuto di Al Burhan. Quindi,
al contrario di come alcuni analisti
hanno ritenuto, non vi è
necessariamente il Cremlino dietro
il tentato colpo di stato delle Rsf.
Probabilmente il rapporto con
entrambi gli schieramenti è tanto
forte che a Mosca non importa chi
uscirà vincitore da questo
conflitto, in entrambi i casi i suoi
interessi saranno tutelati.
Dal punto di vista degli esteri,
l’inizio degli scontri ha
preoccupato molto la comunità
internazionale, per ciò che comporta
nell’immediato una guerra civile in
un paese importante come il Sudan
sia per quello che potrebbe accadere
nel prossimo futuro. Il paese che ha
osservato l’accaduto sin dai primi
minuti è l’Egitto di Al Sisi. Qui
infatti si è palesato un appoggio
immediato al governo centrale di
Khartoum. Solo poche ore dall’inizio
degli scontri le Rsf hanno
pubblicato un video dove venivano
inquadrati alcuni militari egiziani
arrestati in una base militare non
molto distante dal confine. Questa,
oltre a essere un’immensa
provocazione da parte delle Rsf,
potrebbe costituire un casus
belli del Cairo in un potenziale
intervento in Sudan, qualora la
situazione non si ristabilisse
secondo un certo ordine. Infatti
sono numerosi i dossier che uniscono
l’Egitto e il Sudan, tutti molto
critici e di difficile risoluzione.
Dal problema dei migranti ai
traffici illeciti lungo la
frontiera, dalla lotta ai gruppi
estremisti alla risoluzione della
controversia con l’Etiopia sulla
diga sul Nilo. Quest’ultima in
particolare potrebbe avere impatto
su milioni di persone, essendo la
portata del Nilo potenzialmente a
rischio diminuzione. Le economie di
Sudan ed Egitto dipendono da questo
fiume visceralmente, motivo per il
quale il Cairo ha bisogno di un
alleato a Khartoum per poter
frontegiare comunemente il governo
di Addis Abbeba.
Sia gli Emirati Arabi Uniti sia
l’Arabia Saudita hanno invece optato
per un approccio più cauto, così
come fatto anche dalla Lega Araba,
chiedendo la cessazione delle
ostilità e invitando le parti al
dialogo. Ovviamente ognuno di questi
attori ha interessi ben diversi in
Sudan, quindi verosimilmente la loro
cautela è solamente paura di
schierarsi dalla parte del perdente.
Un paese che potrebbe essere
interessato da un prolungarsi del
conflitto in Sudan è la Libia.
Infatti nonostante Libia e Sudan
condividano solo pochi chilometri di
confine, i destini dei due paesi
sono fortemente intrecciati. Basti
pensare che vi sono migliaia di
combattenti e mercenari sudanesi
attualmente in Libia assoldati dal
generale Khalifa Haftar. Nello
scenario in cui le Rsf si trovassero
in difficoltà o volessero dare una
svolta al conflitto, Hemeti potrebbe
assoldare senza alcun problema
economico i mercenari presenti in
Libia per farli combattere di nuovo
a casa. Questo ovviamente
comporterebbe dei problemi enormi
per il generale Haftar, il quale
dovrebbe trovare altre forze che
andrebbero a sostituire quelle
partite per il Sudan, compito non
facile in questo momento storico.
Altra potenziale conseguenza sarebbe
una rediviva instabilità nel Fezzan,
dove le varie milizie locali e tribù
autoctone tornerebbero a lottare per
il potere non avendo più il
controllo armato delle truppe del
generale. Per quanto al momento non
vi siano evidenti prove di
trasferimenti massicci di mercenari
dal Sudan alla Libia, è importante
sottolineare quanto fragile sia
l’equilibrio tra queste due nazioni
e come il prolungarsi degli scontri
in Sudan potrebbe portare nel
breve-medio termine anche a shiftare
gli equilibri nel vicino libico.
Un altro paese confinante pieno di
gruppi mercenari potenzialmente
assoldabili è il Ciad, il quale
potrebbe subire un effetto domino
similare a quello libico. La Turchia
di Erdogan invece si è mossa subito
come mediatrice tra le parti in
lotta, distinguendosi ancora una
volta nella comunità internazionale
per cercare di portare i contendenti
a un tavolo. È una ricorrenza
abbastanza frequente nella storia
recente quella di vedere Ankara che
cerca di agire da
mediatore/pacificatore. Ovviamente
vi è un’agenda tutt’altro che
benefica dietro questa propositività,
tuttavia nel silenzio generale la
voce della Turchia risuona di un
rumore assordante. Erdogan aveva
avviato svariati anni fa trattative
con il governo del Sudan per
l’utilizzo del porto di Suakin sia
come scalo per il pellegrinaggio
alla Mecca sia come centro turistico
locale. Ovviamente una simile
iniziativa non fece che allarmare
tutti gli attori dell’area, in
primis Egitto e Arabia Saudita, ma
con la caduta di al Bashir il tutto
si tradusse in un nulla di fatto.
Ora la Turchia vorrebbe
capitalizzare quanto lasciato
indietro e, unita alla presenza
turca in Somalia ormai da alcuni
anni, si vorrebbe attuare il
progetto di proiezione di potenza
turco tanto caro ai teorici del
cosiddetto “neo-ottomanesimo”.
Infine non si possono non citare i
paesi europei, dei quali colpisce
(ma non sorprende) la grande
indifferenza inerente alla
situazione sudanese. Oltre a
effettuare una prontissima
evacuazione dei cittadini stranieri
(alcuni analisti hanno voluto
commentare indicando il ritiro in
“stile Kabul”), non vi è alcuna
azione concreta né tantomeno
attenzione ricorrente alle vicende
sudanesi, tanto che la questione è
passata ben presto nel dimenticatoio
sia della classe politica sia
dell’opinione pubblica. È triste
riscontrare come nonostante passino
gli anni (e i colpi di stato), le
potenze occidentali agiscano da
mute, cieche e sorde, interessandosi
dei dossier africani all’acuirsi
dell’ennesima crisi migratoria, ma
non facendo nulla per comprenderne
le sue origini o addirittura per
evitarla sul nascere. Come recita un
celebre detto, chi semina vento
raccoglie tempesta.
In conclusione, quella a cui stiamo
assistendo in Sudan è ormai una vera
e propria guerra civile, l’ennesima
che questo paese deve affrontare. Se
nel 2019 e nel 2021 le cose sono
andate molto più lisce da un punto
di vista macroscopico, le enormi
tensioni accumulate nel paese sono
sfociate nel tentato colpo di stato
di Hemeti e delle sue Rsf. A oggi
nessuna delle parti in causa ha
intenzione di mollare la presa né
tanto meno di muovere il paese verso
una transizione democratica una
volta ripreso il potere, a
testimonianza di come la tradizione
autoritaria in questo paese sia ben
lontana dall’essere archiviata, con
buona pace di al Bashir. A oggi fare
una stima di quanto potranno durare
le ostilità è veramente complesso.
L’unica cosa certa è che, oggi come
nel 2019 o nel 2021, per il Sudan i
colpi di stato non finiscono mai.