[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

185 / MAGGIO 2023 (CCXVI)


attualità

NUOVO GOLPE IN SUDAN

CRONACHE DI UN SAHARA SEMPRE PIÙ A PEZZI

di Gian Marco Boellisi

 

Rivisitando una celebre citazione del grande saggista e filosofo George Santayana, solo i morti hanno visto la fine dei colpi di stato. Questo è soprattutto vero per il Sudan, paese martoriato da un’instabilità perenne e che vive una nuova fase di acuta violenza a seguito del tentato colpo di stato inaugurato il 15 aprile 2023. Che siano false guerre lampo o colpi di stato altrettanto pseudo-fulminei, sembriamo vivere nell’epoca storica in cui tutto dovrebbe concludersi prima ancora di rendersi conto che sia iniziato e invece il tutto degenera in un conflitto a bassa-media intensità per un tempo indefinito. Caso specifico per il Sudan, il fallito golpe sembra sempre più delinearsi come una guerra civile che non avrà durata breve e che anzi potrebbe infiammare numerosi dossier internazionali nell’immediata vicinanza dei propri confini. È quindi di fondamentale importanza comprendere come si è arrivati al 15 aprile e dove verso quali nuovi equilibri internazionali potrà portare questo nuovo tragico conflitto.

 

Partiamo dalla conformazione geografica del Sudan. Paese di grandi dimensioni, affacciato sul Mar Rosso a Est e confinante con l’Egitto a Nord, il Sudan è sempre stato storicamente molto importante per le dinamiche sociali, politiche ed economiche della regione. Crogiolo di etnie tra le più disparate, Khartoum è sempre stata vista come collegamento tra il mondo arabo affacciato sul Mediterraneo e l’Africa sub-sahariana. Tuttavia proprio questa sua ricchezza etnica ha portato in numerose occasioni il paese sull’orlo del baratro. Un esempio fra tutti fu la scissione del Sudan del Sud da Khartoum nel 2011, ritenuta una soluzione atta a sanare le ragioni delle guerre civili succedutisi nel corso degli anni ma che al contrario portarono ulteriore instabilità alla regione.

 

Il recente tentativo di colpo di stato ha avuto origine il 15 aprile, a due anni di distanza dall’ultimo golpe, quando le Forze di Intervento Rapido (Rsf) comandate da Mohammed Dagalo, noto anche come Hemeti, hanno cercato di prendere il potere assaltando i palazzi del potere nella capitale. Le cose però non sono andate bene e ora la situazione è in una fase di stallo in tutto il paese, tant’è che gli scontri tra le Rsf e l’esercito regolare sono costanti indipendentemente dai cessate al fuoco dichiarati.

 

L’intervento armato di Hemeti è il terzo colpo di stato che avviene in Sudan dal 2019. Il primo fu condotto nell’aprile 2019 per togliere lo scranno all’allora dittatore Omar Al Bashir, storica figura al potere in Sudan che non accennava a voler lasciare la propria posizione. Fu proprio negli anni in cui Al Bashir era al potere che la figura di Hemeti inizia a emergere. Infatti le Rsf (Rapid Support Forces) furono costituite nel 2013 e da allora hanno costituito un esercito a sé stante, con agenda variabile in funzione del momento storico che il paese affrontava. A oggi le Rsf contano circa 100 mila effettivi e sono la diretta evoluzione della tristemente nota milizia Janjaweed, la quale dal 2003 in poi ha combattuto in Darfur contro i ribelli anti governativi che dilagavano nella regione in quegli anni. L’efferatezza e la cabarbietà nel sedare le etnie ribelli nel sangue sono valsi sia ai capi della milizia sia al presidente al-Bashir accuse di genocidio e crimini contro l’umanità da parte della Corte Penale Internazionale.

 

Proprio nel contesto della guerra civile, al-Bashir permise la creazione di diversi gruppi armati “indipendenti” nonché centri di poteri militari al di fuori dell’esercito regolare proprio allo scopo di evitare che quest’ultimo potesse avere troppo potere nelle proprie mani tale per cui un giorno avrebbe potuto destituirlo. L’errore di al-Bashir fu credere di poter controllare queste milizie, sogno ovviamente non concretizzato. All’indomani del colpo di stato del 2019 questo variopinto mosaico di gruppi armati non scomparì, al contrario iniziò immediatamente a lavorare per ritagliarsi uno spazio sempre maggiore nel nuovo Sudan. Ovviamente vista l’enorme differenza di composizione etnica ma anche di interessi economici fondanti, le varie milizie lo scontro intestino al paese era solo questione di tempo.

 

Se il colpo di stato contro al-Bashir fu un mix di proteste popolari e militari che videro l’occasione per scalzare il vecchio presidente, il colpo di stato dell’ottobre 2021 fu prevalentemente dovuto all’intervento delle sfere militari comandate dal generale Abdel Fattah Abdelrahman Burhan. Infatti dopo il golpe del 2019 il potere venne affidato al primo ministro ad interim Abdalla Hamdok, il quale fu incaricato di convogliare lo stato verso un governo civile senza l’ausilio delle alte sfere militari. Questo tuttavia risultò impossibile, poiché sia le milizie sia gli alti gradi dell’esercito regolare avevano accumulato troppi interessi e troppi privilegi durante gli anni di al-Bashir per rinunciarvi, motivo per il quale instaurarono una giunta militare al comando al posto di Hamdok. Dopo alcuni mesi di trattative il governo civile ad interim fu in qualche maniera reintegrato, tuttavia l’ennesimo golpe indebolì ulteriormente lo stato, rendendolo ancora più preda di interessi locali e particolari.

 

Arriviamo così al motivo del terzo colpo di stato dell’aprile 2023. Qui infatti si hanno le Rsf che tentano di prendere il potere proprio perché il governo centrale fedele al presidente Abdel Fattah al-Burhan ha cercato di inquadrarle all’interno dell’esercito regolare, togliendo così loro la propria sfera d’influenza nel paese nonché i numerosi traffici che generano profitti tuttora per milioni e milioni di dollari. Tra le maggiori fonti di guadagno vi è infatti il traffico di oro proveniente dalle varie miniere in possesso alle Rsf, le quali hanno permesso a Hemeti di diventare l’uomo più influente di tutto il Sudan. In questo senso Hemeti ha provato a temporeggiare, chiedendo al governo centrale un periodo di dieci anni per effettuare la transizione e il relativo scioglimento delle Rsf al posto dei due anni previsti inizialmente. Quando il governo ha dato segnali negativi in merito, Hemeti ha fatto la sua mossa. Per quanto a oggi sembri abbastanza chiaro che siano state le Rsf a iniziare le operazioni a Khartoum, vi sono ancora scambi di accuse in questo senso tra le due fazioni rispetto a chi abbia iniziato gli scontri. Quale sia la verità, la scopriremo forse solo quando le armi inizieranno a tecere.

 

L’ironia della storia ha voluto che le Rsf e l’esercito regolare fossero uniti sia nel 2019 per rovesciare la dittatura di al Bashir sia nel 2021 per reprimere le proteste pro-democrazia avvenute successivamente al colpo di stato. Oggi invece queste due fazioni sono impegnate in feroci scontri proprio in virtù di quella tanto vituperata transizione democratica promessa fatta anni orsono dal presidente sudanese. A oggi secondo quanto riportato dal campo l’esercito regolare avrebbe un vantaggio tattico sulle Rsf, essendo in possesso di numerose strutture chiave del paese e meglio attrezzata per difenderle. Inoltre le Rsf sono abituate a combattere prettamente in aree aperte e rurali e non in centri urbani densamente abitati. Prova ne sia che appena 24 ore l’avvio del colpo di stato l’esercito presidenziale era nuovamente in controllo delle strade di Khartoum.

 

Un fattore interessante da riportare è la storia del comandante delle Rsf, Hemeti. Nato nel Darfur e cresciuto come allevatore di cammelli, aveva preso parte egli stesso alla ribellione che successivamente avrebbe lui medesimo combattuto con le proprie milizie. Sotto la sua guida le Rsf si sono evolute da piccola milizia combattente a vera e propria compagnia di mercenari addestrati, tanto da portare i propri soldati a combattere in Libia sotto committenza degli Emirati Arabi Uniti o in Yemen parteggiando per le fazioni a guida Saudita.

Essendo mercenari, Hemeti ha reso fedeli i propri sottoposti nel più antico dei modi: pagando lautamente i soldati e i comandanti delle milizie, rendendoli enormemente ricchi e influenti in certe aree del paese. Dall’altro lato le alte sfere dell’esercito regolare hanno sempre visto con enorme disprezzo i componenti delle Rsf, tanto da creare tensioni tra le due componenti armate sin dagli albori della loro collaborazione. Una volta raggiunto da parte delle Rsf un potere così grande in Sudan, lo scontro era solo questione di tempo.

 

Una delle chiavi dell’efficienza delle Rsf negli ultimi anni è stato il loro legame con uno dei gruppi mercenari più famigerati e tristemente noti degli ultimi anni: il Gruppo Wagner. Infatti Hemeti stesso è molto vicino alla Wagner e ai suoi vertici, tanto da trovarsi a Mosca la notte del 24 febbraio 2022 quando iniziò l’invasione russa in Ucraina. Ovviamente non è confermato, ma si ritiene verosimile che la Wagner abbia grandi interessi proprio nelle miniere d’oro in possesso alle Rsf e in cambio gli uomini di Prigozhin avrebbero fornito addestramento avanzato a decine e define di miliziani, rendendoli più efficienti in tattiche di contro insurrezione e non solo.

 

Le attività della Wagner denotano un più ampio interesse da parte di Mosca nei confronti del Sudan. Il tutto iniziò nel 2017, quando si arrivò alla firma tra il Cremlino e il dittatore Al Bashir di un contratto per la costruzione di una centrale nucleare in Sudan (accordo peraltro ancora oggi valido nonostante i vari cambi di regime). Dopo qualche anno si palesò un altro accordo tra i due paesi: la costruzione di una base navale russa a Port Sudan sul Mar Rosso, principale città costiera del Sudan. Nonostante i vari colpi di stato, solo pochi mesi fa il governo centrale ha dato il nullaosta per l’insediamento e l’eventuale costruzione della base. Questo ci fa notare come, nonostante Al Bashir non sia più al potere da svariati anni, il governo russo non ha mai perso la propria influenza sui vari governi sudanesi, anzi ne ha sempre più aumentato il peso.

Un’osservazione importante da fare è come Mosca intrattenga quindi ottimi rapporti con entrambe le parti oggi in conflitto. Infatti gli accordi per la base a Port Sudan sono stati suggellati con il governo riconosciuto di Al Burhan. Quindi, al contrario di come alcuni analisti hanno ritenuto, non vi è necessariamente il Cremlino dietro il tentato colpo di stato delle Rsf. Probabilmente il rapporto con entrambi gli schieramenti è tanto forte che a Mosca non importa chi uscirà vincitore da questo conflitto, in entrambi i casi i suoi interessi saranno tutelati.

 

Dal punto di vista degli esteri, l’inizio degli scontri ha preoccupato molto la comunità internazionale, per ciò che comporta nell’immediato una guerra civile in un paese importante come il Sudan sia per quello che potrebbe accadere nel prossimo futuro. Il paese che ha osservato l’accaduto sin dai primi minuti è l’Egitto di Al Sisi. Qui infatti si è palesato un appoggio immediato al governo centrale di Khartoum. Solo poche ore dall’inizio degli scontri le Rsf hanno pubblicato un video dove venivano inquadrati alcuni militari egiziani arrestati in una base militare non molto distante dal confine. Questa, oltre a essere un’immensa provocazione da parte delle Rsf, potrebbe costituire un casus belli del Cairo in un potenziale intervento in Sudan, qualora la situazione non si ristabilisse secondo un certo ordine. Infatti sono numerosi i dossier che uniscono l’Egitto e il Sudan, tutti molto critici e di difficile risoluzione. Dal problema dei migranti ai traffici illeciti lungo la frontiera, dalla lotta ai gruppi estremisti alla risoluzione della controversia con l’Etiopia sulla diga sul Nilo. Quest’ultima in particolare potrebbe avere impatto su milioni di persone, essendo la portata del Nilo potenzialmente a rischio diminuzione. Le economie di Sudan ed Egitto dipendono da questo fiume visceralmente, motivo per il quale il Cairo ha bisogno di un alleato a Khartoum per poter frontegiare comunemente il governo di Addis Abbeba.

 

Sia gli Emirati Arabi Uniti sia l’Arabia Saudita hanno invece optato per un approccio più cauto, così come fatto anche dalla Lega Araba, chiedendo la cessazione delle ostilità e invitando le parti al dialogo. Ovviamente ognuno di questi attori ha interessi ben diversi in Sudan, quindi verosimilmente la loro cautela è solamente paura di schierarsi dalla parte del perdente.

 

Un paese che potrebbe essere interessato da un prolungarsi del conflitto in Sudan è la Libia. Infatti nonostante Libia e Sudan condividano solo pochi chilometri di confine, i destini dei due paesi sono fortemente intrecciati. Basti pensare che vi sono migliaia di combattenti e mercenari sudanesi attualmente in Libia assoldati dal generale Khalifa Haftar. Nello scenario in cui le Rsf si trovassero in difficoltà o volessero dare una svolta al conflitto, Hemeti potrebbe assoldare senza alcun problema economico i mercenari presenti in Libia per farli combattere di nuovo a casa. Questo ovviamente comporterebbe dei problemi enormi per il generale Haftar, il quale dovrebbe trovare altre forze che andrebbero a sostituire quelle partite per il Sudan, compito non facile in questo momento storico.

 

Altra potenziale conseguenza sarebbe una rediviva instabilità nel Fezzan, dove le varie milizie locali e tribù autoctone tornerebbero a lottare per il potere non avendo più il controllo armato delle truppe del generale. Per quanto al momento non vi siano evidenti prove di trasferimenti massicci di mercenari dal Sudan alla Libia, è importante sottolineare quanto fragile sia l’equilibrio tra queste due nazioni e come il prolungarsi degli scontri in Sudan potrebbe portare nel breve-medio termine anche a shiftare gli equilibri nel vicino libico.

 

Un altro paese confinante pieno di gruppi mercenari potenzialmente assoldabili è il Ciad, il quale potrebbe subire un effetto domino similare a quello libico. La Turchia di Erdogan invece si è mossa subito come mediatrice tra le parti in lotta, distinguendosi ancora una volta nella comunità internazionale per cercare di portare i contendenti a un tavolo. È una ricorrenza abbastanza frequente nella storia recente quella di vedere Ankara che cerca di agire da mediatore/pacificatore. Ovviamente vi è un’agenda tutt’altro che benefica dietro questa propositività, tuttavia nel silenzio generale la voce della Turchia risuona di un rumore assordante. Erdogan aveva avviato svariati anni fa trattative con il governo del Sudan per l’utilizzo del porto di Suakin sia come scalo per il pellegrinaggio alla Mecca sia come centro turistico locale. Ovviamente una simile iniziativa non fece che allarmare tutti gli attori dell’area, in primis Egitto e Arabia Saudita, ma con la caduta di al Bashir il tutto si tradusse in un nulla di fatto. Ora la Turchia vorrebbe capitalizzare quanto lasciato indietro e, unita alla presenza turca in Somalia ormai da alcuni anni, si vorrebbe attuare il progetto di proiezione di potenza turco tanto caro ai teorici del cosiddetto “neo-ottomanesimo”.

 

Infine non si possono non citare i paesi europei, dei quali colpisce (ma non sorprende) la grande indifferenza inerente alla situazione sudanese. Oltre a effettuare una prontissima evacuazione dei cittadini stranieri (alcuni analisti hanno voluto commentare indicando il ritiro in “stile Kabul”), non vi è alcuna azione concreta né tantomeno attenzione ricorrente alle vicende sudanesi, tanto che la questione è passata ben presto nel dimenticatoio sia della classe politica sia dell’opinione pubblica. È triste riscontrare come nonostante passino gli anni (e i colpi di stato), le potenze occidentali agiscano da mute, cieche e sorde, interessandosi dei dossier africani all’acuirsi dell’ennesima crisi migratoria, ma non facendo nulla per comprenderne le sue origini o addirittura per evitarla sul nascere. Come recita un celebre detto, chi semina vento raccoglie tempesta.

 

In conclusione, quella a cui stiamo assistendo in Sudan è ormai una vera e propria guerra civile, l’ennesima che questo paese deve affrontare. Se nel 2019 e nel 2021 le cose sono andate molto più lisce da un punto di vista macroscopico, le enormi tensioni accumulate nel paese sono sfociate nel tentato colpo di stato di Hemeti e delle sue Rsf. A oggi nessuna delle parti in causa ha intenzione di mollare la presa né tanto meno di muovere il paese verso una transizione democratica una volta ripreso il potere, a testimonianza di come la tradizione autoritaria in questo paese sia ben lontana dall’essere archiviata, con buona pace di al Bashir. A oggi fare una stima di quanto potranno durare le ostilità è veramente complesso. L’unica cosa certa è che, oggi come nel 2019 o nel 2021, per il Sudan i colpi di stato non finiscono mai.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]