attualità
UNA
NUOVA BASE NAVALE RUSSA IN SUDAN
PROVE TECNICHE DI HARD POWER
di Gian Marco Boellisi
Con il passare dei decenni la capacità
di proiettare la propria influenza verso
i mari e gli oceani è sempre più
diventata una componente essenziale per
ogni nazione che voglia definirsi
“potenza”, sia essa regionale o globale.
Consci di quanta importanza abbia da
sempre rivestito il mare nelle scelte
strategiche, innumerevoli attori nel
corso della storia si sono adoperati per
presidiare i punti nodali presenti nel
nostro pianeta per trarne un vantaggio,
politico o economico.
Un esempio da manuale sono gli Stati
Uniti i quali, all’indomani della
Seconda Guerra Mondiale, hanno costruito
in svariate zone del globo le proprie
installazioni navali militari, consci
che un controllo dei flussi commerciali
marittimi e in generale delle principali
direttrici di navigazione avrebbe
portato conseguentemente a una posizione
di preminenza tra tutti gli altri attori
del contesto internazionale. Questa
tendenza è ancora in atto oggi da parte
dei più disparati attori globali. Visto
il contesto odierno ormai improntato al
multilateralismo, non è raro che venga
aperta una nuova base militare di un
paese in forte espansione politica in un
paese terzo. Quando ciò succede, è
sempre interessante analizzarne le
implicazioni e i possibili risvolti
futuri. Ed è proprio ciò che è accaduto
recentemente tra la Russia e il Sudan.
Il 16 novembre 2020 è stato divulgato da
parte del Cremlino un accordo in forma
preliminare tra il governo russo e
quello sudanese riguardante l’apertura
di una base militare navale russa a Port
Sudan, sul Mar Rosso. L’accordo è stato
ratificato il 10 dicembre e prevede la
costruzione di una PMTS (acronimo che
sta per “punto di riferimento tecnico
materiale”), ovvero una vera e propria
base navale gestita da personale
militare russo. Da notare il linguaggio
elaborato per dire una cosa molto
semplice: questo infatti altro non è che
un vecchio retaggio sovietico nella
dialettica di Mosca, volta a non
chiamare basi militari estere con il
loro vero nome per evitare di assumere
un lessico troppo imperialista.
La base risulta essere la prima base
navale inaugurata da Mosca dopo il
crollo dell’Unione Sovietica e avrà la
funzione di centro logistico e
manutentivo per le navi in transito nel
Mar Rosso. È importante ricordare che la
Russia attualmente detiene un’unica base
militare al di fuori dei propri confini
nazionali, ovvero la base militare di
Tartus in Siria, dalla quale Mosca ha
gestito l’intera campagna contro lo
Stato Islamico e i ribelli
anti-governativi siriani. Proprio questa
base in passato venne concepita come
semplice centro logistico per poi
evolversi nel corso del tempo. La storia
ci ha mostrato quanto questo concetto
sia variato negli ultimi dieci anni e
quale possibile futuro possa attendere
la base sudanese.
L’installazione militare potrà ospitare
circa 300 uomini e 4 navi al massimo, le
quali potrebbero essere anche a
propulsione nucleare. Si sta discutendo
anche se vi sarà la possibilità di
ancoraggio per sottomarini anch’essi a
propulsione nucleare, ma attualmente è
un’ipotesi da escludere. Per quanto
altisonante e minaccioso ciò possa
sembrare, le implicazioni strategiche
sono più scarse di quanto si possa
pensare.
Infatti vista la mancanza di fondi a
livello governativo da impiegare per la
difesa, la marina russa versa in uno
stato non ottimale dal punto di vista
operativo. Le navi a propulsione
nucleare sono molto poche all’interno
del parco navi russo, e quelle presenti
sono o in manutenzione o in fase di
costruzione. Non è più come in passato,
dove la flotta russa (all’epoca
sovietica) era al massimo della sua
forza e poteva vantare una rosa molto
ampia di unità e di raggio d’impiego.
La capacità di proiezione russa oggi è
molto limitata, sia a causa dello
smantellamento militare generale
avvenuto all’indomani del crollo
dell’Unione Sovietica sia per i costi
elevati di gestione di una marina
efficiente e moderna, incompatibile con
il bilancio della difesa russo. Un
esempio fra tutti, basti pensare che
l’unica portaerei russa attualmente
operativa, l’Admiral Kuznetsov, risulta
essere presso i cantieri di Murmansk dal
2018 per lavori di ammodernamento (la
nave fu varata nel 1985) e, a seguito di
alcuni incidenti durante i lavori, non
si sa quando potrà riprendere il mare.
Le restanti unità della marina russa
sono navi non di grandissime dimensioni
e non completamente aggiornate, nulla a
che vedere con le unità statunitensi o
quelle in attuale sviluppo della
Repubblica Popolare Cinese. Ad
aggiungersi a tutto questo vi è anche la
mancanza in prospettiva di investimenti
sostanziali che possano riportare la
flotta a russa a uno status operativo di
livello, declassando de facto la
marina di Mosca quasi a quella di una
potenza regionale piuttosto che globale.
Ed è proprio questo uno dei motivi per
cui, in mancanza di una flotta di navi
adeguata, Mosca si sta attivando
soprattutto nell’ultimo decennio a
potenziare le basi presenti all’estero
(gli esempi attuali sono appunto Siria,
Sudan e potenzialmente la Libia di
Haftar).
La futura base sudanese avrà una
concessione per 25 anni e sarà
potenzialmente rinnovabile per altri 10.
Sebbene sia stata pianificata la
costruzione interamente da parte di
personale russo, le tempistiche di
realizzazione non sono state definite
ancora a pieno. Queste infatti dipendono
da quanto Mosca sia disposta a investire
per portare a termine la costruzione
dell’importante opera.
Allo stato attuale l’economia russa non
versa in una condizione ottimale. Messa
sotto stress dalla crisi pandemica,
dalle rinnovate sanzioni occidentali e
da debolezze strutturali di lungo corso,
l’economia di Mosca ha faticato molto
negli ultimi anni a tenere il passo,
portando anche a un crescente scontento
tra la popolazione. Essendo il budget
per la difesa russo estremamente
inferiore rispetto a molti competitor in
ambito internazionale, il Cremlino non
ha fatto altro che privilegiare negli
ultimi anni alcuni settori d’interesse
strategico per trascurarne
conseguentemente altri. Basti pensare
che i soli lavori di ampliamento e
miglioramento della base russa di Tartus
in Siria sono pari a circa 41 milioni
all’anno. Cifra questa non elevata in
termini assoluti, ma di un certo peso su
un bilancio statale che non concede
molti spazi di manovra.
Nonostante queste difficoltà economiche,
Mosca riserva ancora qualche asso nella
manica. Infatti dove non arriva
l’economia vi giunge la diplomazia. Da
quel che sappiamo infatti è probabile
che la concessione del suolo sudanese
verrà ceduta a titolo gratuito con la
condizione di ammortare l’intero importo
con una serie di forniture belliche e
militari che verranno fatte da parte di
Mosca nei confronti del governo di
Khartum.
Per quanto riguarda la scelta del luogo,
Port Sudan risulta essere il migliore
candidato per questo tipo di
installazione. Sia per quanto riguarda
la profondità delle acque sia per quanto
riguarda la presenza di una struttura
portuaria già ben avviata, ’importante
scalo sudanese è praticamente l’unico
posto dove la marina russa avrebbe
potuto installare la propria base nel
paese nordafricano. Un fattore di
rilievo è costituito anche dal fatto che
qui è presente l’unica raffineria
sudanese, la quale risulterà in futuro
vitale per gli approvvigionamenti di
carburante alle navi e all’intera
struttura russa.
Attualmente si sta discutendo su quali
tipologie di sistemi di difesa
installerà Mosca nella sua nuova base,
se saranno presenti sistemi per la
guerra elettronica o se verranno
installate delle batterie antiaeree
composte dai famosi S-400. La
possibilità che spaventa maggiormente
gli analisti è la creazione di quelle
che vengono chiamate bolle A2/AD,
acronimo che sta per Anti-Access/Area
Denial.
Questa non sarebbe altro che un’area di
interdizione di una certa circonferenza
all’interno della quale navi e aerei di
un’eventuale nazione straniera
potrebbero essere neutralizzati dai
sistemi missilistici o difensivi
presenti al centro della bolla,
impendendo così alcuna azione offensiva
convenzionale all’interno di quell’area.
Di questa tipologia di aspetti
strategici si sente molto spesso quando
si parla di Cina e di ciò che avviene
nel Sud-Est Asiatico. Tuttavia negli
ultimi anni stanno iniziando ad
affacciarsi numerosi esempi di bolle
A2/AD anche in altre aree del mondo.
Vi è un acceso dibattito rispetto alla
creazione di bolle A2/AD all’interno del
Mediterraneo da parte del governo di
Mosca. In particolare, si sta discutendo
qualora ciò possa avvenire in
corrispondenza della base di Tartus in
Siria e di una possibile base fittizia
in Libia all’interno del territorio del
generale Haftar, quest’ultima al momento
più un’ipotesi che un’eventualità reale.
Tuttavia una bolla similare posta
direttamente sul Mar Rosso avrebbe
tutt’altra valenza strategica. Infatti
qui siamo a ridosso di uno dei
cosiddetti “choke points” del commercio
globale, ovvero uno dei colli di
bottiglia attraverso i quali, volenti o
nolenti, passano la maggior parte delle
rotte commerciali mondiali. La base
russa si troverebbe infatti proprio in
mezzo tra lo Stretto di Suez e il Golfo
di Aden, entrambi percorsi di passaggio
vitali per tutti rifornimenti energetici
e non solo che viaggiano verso il
Vecchio Continente.
La costituzione di una bolla A2/AD in
quest’area potrebbe portare
potenzialmente non pochi problemi un
domani in un’ottica di competizione
strategica con altre potenze
occidentali. Andando oltre questa
eventualità, che costituirebbe
senz’altro un “worst case scenario”, vi
è il rischio concreto che nei prossimi
anni il bacino del Mediterraneo e alcune
zone limitrofe possano essere un dedalo
di aree di interdizione russe, con tutto
il carico politico che una strada del
genere comporta. Scenari possibilistici
a parte, è molto più probabile che la
nuova base russa sudanese costituirà
meramente un punto di rifornimento per
la navi russe in viaggio nonché un punto
d’appoggio per il florido mercato delle
armi che la Russia ha sviluppato nel
corso degli ultimi anni in tutta
l’Africa e al quale tiene
particolarmente nell’ottica di
un’influenza politica verso le nazioni
del continente nero.
A testimonianza di quanto il Sudan stia
diventando sempre più negli ultimi anni
polo di passaggio per gli interessi più
disparati, a Haidob, ovvero a circa 60
km di distanza a nord da Port Sudan, la
Cina sta costruendo un porto intero che
servirà in futuro come snodo regionale
per la Nuova Via della Seta. La
struttura è costruita dalla China Harbor
Engineering Co. e sarà dedicata al
trasporto di bovini, ovini e cammelli
verso i mercati asiatici, oltre che
all’importazione e alla distribuzione di
merci provenienti dalla Cina.
Visto l’enorme interesse strategico
della zona, non è improbabile che
Pechino investa molto in questa
struttura, fornendovi anche supporto
logistico tramite la vicina base
militare che la Repubblica Popolare
Cinese possiede nello staterello di
Gibuti. Come si può vedere, nonostante
quest’area sia dimenticata dalla maggior
parte dell’opinione pubblica, gli
interessi di molte nazioni convergono
proprio qui.
I rapporti tra Sudan e Russia non si
sono sviluppati recentemente, ma sono un
qualcosa che proviene da lontano. Le
relazioni tra i due stati sono sempre
state molto cordiali e negli ultimi anni
hanno subito un’accelerazione non
indifferente, in particolare tra il 2017
e il 2019, anni in cui è stata siglata
tutta una serie di accordi di
cooperazione militare. La costruzione
della base navale giunge quindi a
coronamento di un rapporto profondo. Da
anni infatti il Cremlino ha cercato di
stabilire un presidio navale nell’area,
fallendo reiteratamente. Dopo aver
tentato con Eritrea e Somaliland, ora la
porta del Sudan ha finalmente avuto
successo.
La concessione per la costruzione della
base può anche essere interpretata come
un ringraziamento da parte di Khartum
verso Mosca per aver supportato, o
quanto meno non ostacolato, i militari
al potere. Infatti, a seguito del colpo
di stato che ha destituito il dittatore
al-Bashir nel 2019, vi fu una grande
incertezza su che direzione dovesse
prendere il paese. I militari, forti di
un potere pluridecennale, presero quindi
le redini dello stato lasciando poco
spazio alle restanti forze politiche. A
seguito di questi eventi la Russia si
mantenne distante e in una maniera
abbastanza velata impedì che
interferenze esterne agissero nel paese
nordafricano, tutelando la nuova giunta
militare da possibili ingerenze esterne
e/o occidentali. Era scontato che prima
o poi i militari avrebbero dovuto pagare
il conto per quanto offerto da Mosca.
Mettendo per un attimo da parte la
questione con il Sudan, ciò che si è
notato negli ultimi anni è
un’intensificazione dei rapporti tra
Russia e molti stati africani,
specialmente concentrati in Africa
centro-orientale. Nonostante questa
importante tendenza, non è più come ai
tempi dell’Unione Sovietica, quando
Mosca deteneva basi militari in Somalia,
Etiopia o Yemen e guadagnava consensi
con la sua retorica di partito. Oggi
l’approccio è molto diverso, ma non per
questo meno efficace. Infatti la
presenza russa può essere testimoniata
in vari paesi sotto forma di accordi
commerciali, di acquisizioni di armi e
sistemi di difesa, di accordi per
l’utilizzo di addestratori militari o
per l’impiego di contractors negli
scenari più caldi della regione. In
cambio di tutti questi servizi Mosca
ottiene importanti concessioni
nell’ambito petrolifero e minerario, le
quali sono essenziali per far muovere
l’economia russa.
Tuttavia, oltre alle mere ragioni
economiche, la presenza russa in
quest’area del mondo è stata anche
orientata a un accrescimento
dell’influenza politica a livello
internazionale. Non è infatti un segreto
che, a seguito dell’intervento nel
conflitto ucraino, lo spazio di manovra
russo in Europa e anche parzialmente in
tutta l’area degli ex Stati Indipendenti
si sia ridotto in maniera considerevole.
Isolata dagli stati occidentali e messa
all’angolo in molti scenari, Mosca non
ha potuto fare altro che cercare altrove
delle alternative ai propri partner
esteri. Ed è stata proprio l’Africa uno
dei luoghi dove sono stati trovati
numerosi governi pronti a collaborare
con la Russia, la quale ha dovuto
peraltro solamente rinsaldare vecchi
rapporti di amicizia già in piedi dai
tempi dell’Unione Sovietica.
Un’ultima osservazione è doveroso farla
per quanto riguarda il maggior
potenziale competitor di Mosca in
quest’area, ovvero la Turchia. Infatti,
da quando Ankara ha ripreso a espandersi
politicamente e militarmente negli
ultimi anni, la presenza turca nei più
vari scenari mediorientali e africani
non ha fatto altro che moltiplicarsi.
L’influenza della Turchia ormai non è
più trascurabile e più di una volta si
sono viste le forze turche entrare in
campo, complicando ulteriormente
conflitti e crisi internazionali già
dannatamente complicate. La base russa
di Port Sudan si va a inserire
all’interno di una fitta rete di paesi
alleati con la Turchia, quali la Somalia
e il Qatar. Quindi si ritiene che anche
qui, con le dovute condizioni al
contorno, si potrebbero venire a creare
equilibri instabili tra le due potenze,
analogamente a quanto ancora oggi
presente in Siria, Libia o nel Caucaso.
Voci di corridoio affermano addirittura
che i russi sarebbero riusciti a
sottrarre la concessione della base di
Port Sudan proprio ai turchi, i quali
stavano corteggiando la giunta militare
di Khartum ormai da qualche mese. Se
così fosse, il Cremlino avrebbe impedito
di creare una basa stabile ai turchi sul
Mar Rosso, cosa che avrebbe turbato il
sonno di non poche cancellerie nel
mondo, occidentali in primis.
In conclusione, l’accesso al mare e alle
principali rotte commerciali globali è
sempre stato uno degli obiettivi della
Russia, sia in epoca sovietica sia ora
nell’era di Vladimir Putin. Per quanto
difficoltà economiche e strutturali
dell’esercito rallentino in varie
occasioni le ambizioni russe, Mosca
continua a espandere la propria sfera
d’influenza in ogni area geopolitica
possibile, agendo in sincrono (per ora)
con gli alleati cinesi e riempiendo i
vuoti lasciati dalle controparti
occidentali.
La nuova
base in Sudan sarà sicuramente
un’occasione per proiettare il raggio
d’azione di Mosca verso nuovi mercati e
nuove opportunità geo-strategiche, ma
bisognerà vedere se lo sforzo economico
e politico che porterà alla sua
costruzione sarà sostenibile dalla
Russia all’indomani della pandemia e
soprattutto all’interno di un contesto
internazionale in cui gli alleati su cui
fare affidamento sono sempre meno.
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