[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

176 / AGOSTO 2022 (CCVII)


contemporanea

SU Edgar Allan Poe
LA realtà dei sogni che l’America non comprese

di Gaetano Cellura

 

La poesia Sogni inizia con un sospiro: «Oh, fosse un lungo sogno questo mio tempo/giovanile«. Edgar Allan Poe preferiva persino un sogno pieno d’affanni al suo oscuro vivere diurno.
 
“Coi loro vividi colori di vita”, i sogni – senza i quali nulla avrebbe visto – hanno permesso al cuore del poeta di vagare “nelle remote regioni” dell’immaginazione: solo sollievo a quel groviglio e caos ardente, dialogo della follia con la morte che è stata per lui la vita.
 
I sogni per Poe sono visioni di svanite gioie, come dirà nella poesia A Dream. Ma nessuna visione di “notturna tenebra” ha avuto nel suo cuore l’effetto di un sogno fatto da sveglio: quando lo sguardo del poeta colse “in chiaro giorno” qualcosa intorno a lui che lo riportava a quel tempo giovanile che avrebbe voluto eterno. Pur vedendo il mondo essergli avverso, quel sogno beato gli colma l’anima di vita e di luce.
 
In Terra di sogno, Poe si fa viandante. Attraversa selvagge valli dove dimorano vampiri; attraversa titaniche foreste; “montagne che strapiombano per sempre dentro mari senza lidi”; contrade in cui incontra “con sgomento segrete memorie del passato”. Se vi si attarda può solo guardarle “attraverso annebbiati vetri”. Perché, per volere del monarca, all’occhio umano devono restare sconosciuti i misteri di quei luoghi. E tuttavia per lui, che affranto e “solitario erra nell’ombra”, quelle malvagie contrade sono un Eldorado. Che anima afflitta era Poe! L’anima d’un fuggitivo nella valle dell’inquietudine.
 
Il poema Ulalume può essere visto come il naturale seguito di Terra di sogno. Il poeta si ritrova smarrito in un luogo – di “cieli cinerei e mesti” e di “foglie disseccate e vizze” – dove lui e Psiche, l’angelo che l’accompagna e le cui piume pendenti strisciano tristemente nella polvere, sono già stati, ma di cui nulla ricordano: né l’umido stagno, né le selve popolate di vampiri, né il “titanico viale di cipressi” in cui adesso vagano scambiando “parole austere, sommesse” e in preda a pensieri “torpidi e vizzi”. Neppure ricordano quale mese fosse e quale notte dell’anno. Ulalume è parola composta da ula (in latino, grido) e lumen (in latino, luce), ma ha anche una radice turca: ulu, che significa morto.
 
Un prodigioso arco di luna, mentre la notte cominciava a volgere verso il giorno, appare in fondo al viale e vuole indicargli la strada. è l’arco di Astarte, dea fenicia dell’amore, “tutto di diamanti, sfavillante nel suo duplice corno”. E il poeta dice a Psiche che l’arco è venuto per indicare a loro il giusto cammino, il sentiero dei cieli. Ma la “dolce sorella” diffida dello strano pallore di quella luce. Vuol fuggire via da quel luogo, nonostante il compagno la rassicuri con queste parole: «Questo non è che un sogno: procediamo lungo quel tremulo chiarore, del suo bagliore potremo fidarci». Ma Psiche aveva ragione: dell’arco non c’era proprio da fidarsi.
 
In fondo al viale, infatti, un sepolcro con la scritta Ulalume sulla porta ferma il loro cammino. è la tomba della tua perduta Ulalume – dice Psiche al poeta che non riusciva a leggere la scritta. Allora tutto gli fu chiaro. E ricordò quel che aveva dimenticato; e rivide quel che aveva visto: il giorno, la notte dell’anno (la notte di Halloween) in cui era stato nella selva dei vampiri. Quale demone l’aveva ricondotto fin lì?
 
Ora, si dicevano, tutto si spiega: quell’arco nel cielo era stato evocato dai benevoli vampiri che popolavano la valle non per indicare il giusto sentiero, ma per sbarrare loro il cammino, deviarli dal segreto che nella valle si celava e che lì doveva rimanere. “Ben riposto e nascosto”.
 
La nostra unica certezza risiede nei sogni? Sì, perché “tutto quel che vediamo, quel che sembriamo non è che un sogno dentro a un sogno” (A dream within a dream); un sogno i nostri giorni, che scivolano via come granelli di dorata sabbia dalla nostra mano e ricadono nel mare. Invano Poe prova a trattenerli con una stretta più salda. E sono come speranze che volano via mentre il poeta piange. Piange nel “fragore di un lido tormentato dalla risacca”. Disperato sforzo: trattenendo quei granelli di sabbia, i giorni e le notti delle sue sfumate visioni, Poe voleva forse salvare se stesso dai propri insidiosi fantasmi.
 
La tetra mezzanotte di un desolato dicembre. Invano il poeta ha chiesto ai propri libri di lenirgli il dolore “per la perduta Lenora – per la rara e radiosa fanciulla cui gli angeli dan nome Lenora”. Un battito sommesso, come di visitatore che bussa, lo scuote dal sonno cui sta per arrendersi; il cuore gli pulsa: “immaginari terrori mai prima avvertiti” lo assalgono.
 
Dal camino tizzi morenti riflettono spettri sul pavimento. Si fa coraggio e tutta apre la porta. Ma nulla vede e sente. Solo tenebra e silenzio. Poi una parola, un bisbiglio gli arriva: “Lenora!”. Crede sia lo spirito della “più regale fra quante così fanciulle/morte travolse”. Ma è lui stesso a aver pronunciato nell’aria muta quel nome. E gliene ritorna l’eco – di spavento e terrore.
 
Nella stanza rientra “col cuore infiammato”. Ma di nuovo ode bussare, più forte di prima. E ora è alla finestra che guarda, con preoccupazione. Se prima ha pensato a un visitatore che s’attarda, ora pensa al vento: “Il vento e nulla più!”, esclama. Per tranquillizzare se stesso.
 
Il padrone di casa apre la finestra e il mistero si svela. “Con strepito d’ali” un maestoso corvo entra nella camera e si posa sul busto di Minerva sopra la porta. Stupisce e fa sorridere, pur in un momento di tristi pensieri, il suo contegno severo. Stupisce la sua risposta, sempre la stessa, a ogni domanda. «Nevermore» (“Mai più). Il Corvo è la più famosa poesia di Poe. E nevermore una delle parole tra le più ricordate nella storia della poesia mondiale.
 
Il poeta americano s’interroga sul valore simbolico, espressivo di quel sinistro uccello giunto dalle “rive della notte”. È angelo venuto a sollevarlo dal ricordo doloroso di Lenora? O mostro del male insensibile all’ultima sua preghiera di poterla riabbracciare nel “remoto Eden”?
 
«Nevermore», risponde il corvo. Questo era: mostro del male, distruttore di speme. E allora con rabbia il poeta grida all’uccello di togliergli il becco dal cuore, di uscire dalla sua stanza. Ma la risposta è ancora una volta: «Mai più». E lì, sul busto della statua, il corvo per sempre rimane, a opprimergli l’anima.
 
Ma era davvero sveglio Poe, e tutto immaginava, quando ha sentito il primo battito alla porta? Non sognava?
 
Una doppia e diversa risposta è plausibile, non fa alcuna differenza, non cambia il quadro del poema. Perché la sua immaginazione era fervida e ingegnosa. E perché il poeta dormiva per sognare – sognare “quella verità che l’oro non può mai comprare”, come scrive nella poesia A.
 
Sin dalla fanciullezza, i suoi sogni sono stati una discesa nella palude dei deliri e della follia. Incubi che lo condurranno – annota Baudelaire – a consumare alcolici come un rabarbaro. Incubi che più s’affacciano dopo aver presto perduto la moglie amatissima (aveva sposato una cugina di quindici anni, Virginia Clemm, morta di tisi giovanissima) e che rendono difficile stabilire in lui il confine tra il sogno, cifra assoluta della sua poesia, e la realtà.
 
Nei primi anni di vita (era nato a Boston nel 1809), Edgar Poe ha avuto la sfortuna di ritrovarsi senza entrambi i genitori; e la sua adozione, da parte della famiglia Allan che ne spiega il doppio cognome, non è stata mai completata. A quei primi anni risalgono probabilmente le sue angosce, quel dolore e quella solitudine che presto troveranno “conforto” nella bottiglia.
 
Il resto lo fece l’America del suo tempo, a lungo incapace di comprenderne la grandezza. Nel delirio e nell’ubriachezza Poe ha conservato sempre nitida la mente. Molto prima di Freud è sceso nel nostro inconscio portandone in superficie angeli, demoni e fiere. Contro la malinconia ha lottato invano fino all’ultima bevuta prima di finire in ospedale e di morirvi a quarant’anni.
 
In quanto poetiche, anche le più crude immagini di desolazione e di terrore – sepolture premature, case visitate dall’orrore – gli procuravano sensazioni dolci. Lo si ricorda maggiormente come scrittore gotico e come inventore del romanzo poliziesco. Ma la poesia è stata la sua prima “officina”, la sua passione eterna. E poeta, soprattutto poeta Poe si considerava.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]