SU Edgar Allan Poe
LA realtà dei sogni che l’America
non comprese
di Gaetano Cellura
La poesia Sogni inizia con un
sospiro: «Oh, fosse un lungo sogno
questo mio tempo/giovanile«. Edgar
Allan Poe preferiva persino un sogno
pieno d’affanni al suo oscuro vivere
diurno.
“Coi loro vividi colori di vita”, i
sogni – senza i quali nulla avrebbe
visto – hanno permesso al cuore del
poeta di vagare “nelle remote
regioni” dell’immaginazione: solo
sollievo a quel groviglio e caos
ardente, dialogo della follia con la
morte che è stata per lui la vita.
I sogni per Poe sono visioni di
svanite gioie, come dirà nella
poesia A Dream. Ma nessuna
visione di “notturna tenebra” ha
avuto nel suo cuore l’effetto di un
sogno fatto da sveglio: quando lo
sguardo del poeta colse “in chiaro
giorno” qualcosa intorno a lui che
lo riportava a quel tempo giovanile
che avrebbe voluto eterno. Pur
vedendo il mondo essergli avverso,
quel sogno beato gli colma l’anima
di vita e di luce.
In Terra di sogno, Poe si fa
viandante. Attraversa selvagge valli
dove dimorano vampiri; attraversa
titaniche foreste; “montagne che
strapiombano per sempre dentro mari
senza lidi”; contrade in cui
incontra “con sgomento segrete
memorie del passato”. Se vi si
attarda può solo guardarle
“attraverso annebbiati vetri”.
Perché, per volere del monarca,
all’occhio umano devono restare
sconosciuti i misteri di quei
luoghi. E tuttavia per lui, che
affranto e “solitario erra
nell’ombra”, quelle malvagie
contrade sono un Eldorado. Che anima
afflitta era Poe! L’anima d’un
fuggitivo nella valle
dell’inquietudine.
Il poema Ulalume può essere
visto come il naturale seguito di
Terra di sogno. Il poeta si
ritrova smarrito in un luogo – di
“cieli cinerei e mesti” e di “foglie
disseccate e vizze” – dove lui e
Psiche, l’angelo che l’accompagna e
le cui piume pendenti strisciano
tristemente nella polvere, sono già
stati, ma di cui nulla ricordano: né
l’umido stagno, né le selve popolate
di vampiri, né il “titanico viale di
cipressi” in cui adesso vagano
scambiando “parole austere,
sommesse” e in preda a pensieri
“torpidi e vizzi”. Neppure ricordano
quale mese fosse e quale notte
dell’anno. Ulalume è parola composta
da ula (in latino, grido) e
lumen (in latino, luce), ma
ha anche una radice turca: ulu,
che significa morto.
Un prodigioso arco di luna, mentre
la notte cominciava a volgere verso
il giorno, appare in fondo al viale
e vuole indicargli la strada.
è l’arco di Astarte, dea
fenicia dell’amore, “tutto di
diamanti, sfavillante nel suo
duplice corno”. E il poeta dice a
Psiche che l’arco è venuto per
indicare a loro il giusto cammino,
il sentiero dei cieli. Ma la “dolce
sorella” diffida dello strano
pallore di quella luce. Vuol fuggire
via da quel luogo, nonostante il
compagno la rassicuri con queste
parole: «Questo non è che un sogno:
procediamo lungo quel tremulo
chiarore, del suo bagliore potremo
fidarci». Ma Psiche aveva ragione:
dell’arco non c’era proprio da
fidarsi.
In fondo al viale, infatti, un
sepolcro con la scritta Ulalume
sulla porta ferma il loro cammino.
è la tomba della tua perduta
Ulalume – dice Psiche al poeta che
non riusciva a leggere la scritta.
Allora tutto gli fu chiaro. E
ricordò quel che aveva dimenticato;
e rivide quel che aveva visto: il
giorno, la notte dell’anno (la notte
di Halloween) in cui era stato nella
selva dei vampiri. Quale demone
l’aveva ricondotto fin lì?
Ora, si dicevano, tutto si spiega:
quell’arco nel cielo era stato
evocato dai benevoli vampiri che
popolavano la valle non per indicare
il giusto sentiero, ma per sbarrare
loro il cammino, deviarli dal
segreto che nella valle si celava e
che lì doveva rimanere. “Ben riposto
e nascosto”.
La nostra unica certezza risiede nei
sogni? Sì, perché “tutto quel che
vediamo, quel che sembriamo non è
che un sogno dentro a un sogno” (A
dream within a dream); un sogno
i nostri giorni, che scivolano via
come granelli di dorata sabbia dalla
nostra mano e ricadono nel mare.
Invano Poe prova a trattenerli con
una stretta più salda. E sono come
speranze che volano via mentre il
poeta piange. Piange nel “fragore di
un lido tormentato dalla risacca”.
Disperato sforzo: trattenendo quei
granelli di sabbia, i giorni e le
notti delle sue sfumate visioni, Poe
voleva forse salvare se stesso dai
propri insidiosi fantasmi.
La tetra mezzanotte di un desolato
dicembre. Invano il poeta ha chiesto
ai propri libri di lenirgli il
dolore “per la perduta Lenora – per
la rara e radiosa fanciulla cui gli
angeli dan nome Lenora”. Un battito
sommesso, come di visitatore che
bussa, lo scuote dal sonno cui sta
per arrendersi; il cuore gli pulsa:
“immaginari terrori mai prima
avvertiti” lo assalgono.
Dal camino tizzi morenti riflettono
spettri sul pavimento. Si fa
coraggio e tutta apre la porta. Ma
nulla vede e sente. Solo tenebra e
silenzio. Poi una parola, un
bisbiglio gli arriva: “Lenora!”.
Crede sia lo spirito della “più
regale fra quante così
fanciulle/morte travolse”. Ma è lui
stesso a aver pronunciato nell’aria
muta quel nome. E gliene ritorna
l’eco – di spavento e terrore.
Nella stanza rientra “col cuore
infiammato”. Ma di nuovo ode
bussare, più forte di prima. E ora è
alla finestra che guarda, con
preoccupazione. Se prima ha pensato
a un visitatore che s’attarda, ora
pensa al vento: “Il vento e nulla
più!”, esclama. Per tranquillizzare
se stesso.
Il padrone di casa apre la finestra
e il mistero si svela. “Con strepito
d’ali” un maestoso corvo entra nella
camera e si posa sul busto di
Minerva sopra la porta. Stupisce e
fa sorridere, pur in un momento di
tristi pensieri, il suo contegno
severo. Stupisce la sua risposta,
sempre la stessa, a ogni domanda. «Nevermore»
(“Mai più). Il Corvo è la più famosa
poesia di Poe. E nevermore una delle
parole tra le più ricordate nella
storia della poesia mondiale.
Il poeta americano s’interroga sul
valore simbolico, espressivo di quel
sinistro uccello giunto dalle “rive
della notte”. È angelo venuto a
sollevarlo dal ricordo doloroso di
Lenora? O mostro del male
insensibile all’ultima sua preghiera
di poterla riabbracciare nel “remoto
Eden”?
«Nevermore», risponde il corvo.
Questo era: mostro del male,
distruttore di speme. E allora con
rabbia il poeta grida all’uccello di
togliergli il becco dal cuore, di
uscire dalla sua stanza. Ma la
risposta è ancora una volta: «Mai
più». E lì, sul busto della
statua, il corvo per sempre rimane,
a opprimergli l’anima.
Ma era davvero sveglio Poe, e tutto
immaginava, quando ha sentito il
primo battito alla porta? Non
sognava?
Una doppia e diversa risposta è
plausibile, non fa alcuna
differenza, non cambia il quadro del
poema. Perché la sua immaginazione
era fervida e ingegnosa. E perché il
poeta dormiva per sognare – sognare
“quella verità che l’oro non può mai
comprare”, come scrive nella poesia
A.
Sin dalla fanciullezza, i suoi sogni
sono stati una discesa nella palude
dei deliri e della follia. Incubi
che lo condurranno – annota
Baudelaire – a consumare alcolici
come un rabarbaro. Incubi che più
s’affacciano dopo aver presto
perduto la moglie amatissima (aveva
sposato una cugina di quindici anni,
Virginia Clemm, morta di tisi
giovanissima) e che rendono
difficile stabilire in lui il
confine tra il sogno, cifra assoluta
della sua poesia, e la realtà.
Nei primi anni di vita (era nato a
Boston nel 1809), Edgar Poe ha avuto
la sfortuna di ritrovarsi senza
entrambi i genitori; e la sua
adozione, da parte della famiglia
Allan che ne spiega il doppio
cognome, non è stata mai completata.
A quei primi anni risalgono
probabilmente le sue angosce, quel
dolore e quella solitudine che
presto troveranno “conforto” nella
bottiglia.
Il resto lo fece l’America del suo
tempo, a lungo incapace di
comprenderne la grandezza. Nel
delirio e nell’ubriachezza Poe ha
conservato sempre nitida la mente.
Molto prima di Freud è sceso nel
nostro inconscio portandone in
superficie angeli, demoni e fiere.
Contro la malinconia ha lottato
invano fino all’ultima bevuta prima
di finire in ospedale e di morirvi a
quarant’anni.
In quanto poetiche, anche le più
crude immagini di desolazione e di
terrore – sepolture premature, case
visitate dall’orrore – gli
procuravano sensazioni dolci. Lo si
ricorda maggiormente come scrittore
gotico e come inventore del romanzo
poliziesco. Ma la poesia è stata la
sua prima “officina”, la sua
passione eterna. E poeta,
soprattutto poeta Poe si
considerava.