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[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 157 / GENNAIO 2020 (CLXXXVIII)


moderna

STREGHE E INQUISITORI

TRA LE PAGINE DELLA STORIA LOCALE EMILIANA DEL XVI SECOLO

di Sonia Favale

 

«[…] Abiuro abnego e revoco quella heresia damnata per la sacrosancta romana gesia, la quale falsamente e cù bugia affirma, che Gesù Cristo bedeto nò fu vero dio, ma puro homo […]».

 

Sono le parole estrapolate dagli atti del processo a carico di Ursolina ( Orsolina) Toni a cui segue un appunto dell’Inquisitore messo in evidenza: Hic dicant hereses. Ursolina Toni di Sasso Rosso in provincia di Modena, detta “la rossa” per via del colore de suoi capelli, e sua figlia Agnese sono solamente due delle tante donne che subirono processi per stregoneria, la cui memoria è custodita negli atti dei processi degli inquisitori di Modena e a tutt’oggi consultabile presso l’Archivio Storico di Modena.

 

Siamo nel XVI secolo quando Ursolina viene processata, correva l’anno 1539; in generale i documenti custoditi nell’Archivio Storico di Modena hanno lasciato testimonianza dell’attività inquisitoria del Sant’Uffizio nel ducato estense anche per un periodo di poco precedente e successivo.

 

Il Tribunale dell’Inquisizione nel ducato modenese, infatti, resterà in vita sino al 1785, anno in cui il duca Ercole III della famiglia estense (gli Este guideranno il ducato per ben seicento anni, segnando le tappe principali della sua storia: prima signoria, poi principato e per finire una monarchia assoluta) decise di abolirlo; fu il trionfo del giurisdizionalismo e una presa di posizione nei confronti della Chiesa che nei secoli precedenti e precisamente durante il periodo della Controriforma aveva creato una fitta rete di tribunali che magistralmente la Congregazione romana del Sant’Uffizio aveva cercato di far coincidere con l’organizzazione dell’amministrazione territoriale dal momento che accadeva frequentemente che il Tribunale dell’Inquisizione cercasse l’appoggio del braccio secolare.

 

Nel ducato estense, ad esempio, l’Inquisitore generale aveva la sua sede a Ferrara, capitale del ducato sino al 1598, mentre a Modena aveva sede il suo vicario inquisitore. Nel 1598 è Modena a esser scelta come capitale e a questa scelta amministrativa fa seguito anche il trasferimento della sede dell’inquisitore generale che si trasferisce nella nuova capitale. Nel XVI secolo erano tre le sedi degli inquisitori del ducato estense: uno operava a Modena, uno a Ferrara e l’altro a Reggio.

 

L’inquisitore di Modena si occupava anche dei territori dell’abbazia di Nonantola, Carpi e della Garfagnana che al tempo rientrava nei territori del ducato estense (nel fondo archivistico modenese è rimasta memoria anche dei processi alle streghe della Garfagnana).

 

Sembra che il XVI secolo abbia costituito una svolta nel modus operandi dell’Inquisizione in diversi territori italiani ed europei. Prima del XVI secolo i Tribunali dell’Inquisizione avevano perseguito gli eretici, ma dal XVI secolo l’attenzione si spostò su donne e uomini (anche se quest’ultimi in numero inferiore) accusati di turpi misfatti ai danni delle comunità e dei villaggi in cui vivevano.

 

Prima del XVI secolo nel ducato estense, così come nel resto di Italia, si erano verificati sporadici casi di processi a presunte streghe; quasi sempre i processi precedenti al XVI secolo terminavano con una sentenza nella quale si richiedeva la pubblica penitenza della donna che aveva subito il processo. A riguardo possiamo citare la sentenza conclusiva del processo a Benvenuta Benincasa, una guaritrice e conoscitrice del potere delle erbe, processata a Modena nel 1370 e alla quale l’inquisitore addolcì la pena imponendole di indossare una veste con grandi croci gialle, una sul petto e l’altra sulla schiena e sulla testa una mitria per deriderla, la donna avrebbe dovuto pregare e digiunare con piene confessioni davanti al vescovo e questo per tutta la vita.  

 

Nel corso della storia, però, qualcosa inizia a cambiare. A partire dal XIV-XV secolo in tutta Europa impazza la caccia alle streghe che mostrerà la sua efferatezza in diverse nazioni europee, raggiungendo il suo apice nel XVI secolo per poi terminare verso il XVII secolo, quando la vittoria della ragione dei Lumi ebbe la meglio sulle superstizioni. Fu l’alba di un giorno nuovo e il tramonto dei processi alle streghe; solo sporadicamente e in circoscritte località europee, i roghi bruceranno ancora.

 

L’Italia non costituì un caso a parte nel perseguire le presunte streghe e la memoria custodita in archivi storici come quello Modenese ne sono la testimonianza. Se l’Italia non rappresentò un’eccezione nella caccia alle streghe, lo rappresentò per il fatto che la maggior parte dei processi si verificò nei primi quarant’anni del XVI secolo e in particolar modo in città e cittadine dell’Emilia, della Romagna e della Lombardia.

 

Secondo il parere condiviso da molti storici la brutalità dei processi per stregoneria nelle aree più a nord della penisola italiana è dovuto all’impatto delle guerre d’Italia. Chi sostiene questa tesi ritiene che in un territorio, come quello del nord Italia, devastato dalle tante guerre e politicamente frammentato, oggetto di invasioni, carestie ed epidemie, poté dilagare più facilmente l’idea dell’esistenza di una setta ben strutturata di streghe che adoravano il diavolo. La paura, lo sconforto e le tante catastrofi afflissero le comunità di città ricche e prospere come Modena.

 

Se i tempi erano difficili, allora doveva esserci una causa e un colpevole. La ricerca del capo espiatorio ricadde sulle donne tacciate di stregoneria. Tutto ciò può sembrare assurdo se non si considerano anche altri fattori. Non bastava certamente solo il triste scenario affinché la gente credesse fermamente nell’esistenza di una setta di streghe, occorreva che l’idea di una setta diabolica, che cospirava contro il bene della comunità, fosse conosciuta e chiara a tutti e al diffondersi di tale idea contribuirono i tanti cacciatori italiani di streghe che si preoccuparono di scrivere lettere, manuali e predicare pubblicamente.

 

Del resto, come già precisato in precedenza, la credenza nelle streghe e la pratica di processarle si erano verificati anche prima del XVI secolo ma allora, com’è il caso del processo di Benvenuta Benincasa, il processo mirava a salvaguardare il benessere della comunità o ad allontanare le pratiche superstiziose.

 

L’idea di un gruppo di donne e uomini che costituivano una setta diabolica era maturata nel Nord Europa, dove era fiorita una vera “letteratura” sul tema; il famoso Malleus maleficarum, che altro non era che il manuale che ogni bravo Inquisitore doveva tenere sottobraccio e mostrare di conoscere alla lettera e saperlo applicare magistralmente nei processi, era opera di un monaco domenicano conventuale di origine alsaziana di nome Heinrich Kramer.

 

Alcuni studiosi hanno dimostrato come il monaco alsaziano fosse spesso presente in Italia attraverso viaggi di studio presso la Curia pontificia; qui coltivò certamente i suoi studi, ma anche una fitta rete di relazioni e amicizie in particolare con gli Inquisitori domenicani dell’Italia settentrionale; è lui stesso a menzionare nella sua opera più famosa un certo inquisitor cumanus, artefice dell’esecuzione di quarantuno streghe a Bormio.

 

Da altre fonti autorevoli sappiamo che Kramer ebbe rapporti e collaborò con gli ambienti religiosi di Ferrara nel 1500 (al tempo capitale del ducato estense) e, nello stesso periodo, stabilì dei rapporti con i domenicani dello Studium generale di San Domenico a Bologna, in particolar modo con il teologo Giovanni Cagnazzo da Taggia e il domenicano e inquisitore Domenico Pirri, quest’ultimo molto attivo a Bologna.

 

Il mito della stregoneria diabolica, che era stato un punto fermo nel lavoro di Kramer, finì per influenzare anche gli inquisitori italiani del nord Italia che contribuirono a renderlo pubblico anche nelle comunità in cui loro operavano alimentando ansie, timori e paure nell’immaginario collettivo. Kramer, Cagnazzo e altri inquisitori nei loro trattati parlavano di una setta diabolica a cui erano affiliate donne e uomini che si riunivano nei sabba per adorare il diavolo e abiurare i simboli della cristianità. Se il male c’era, allora doveva essere estirpato con un accanimento sistematico: la persecuzione che si tramutò in una vera e propria “caccia” .

 

Donne semplici, spesso vedove, malate o con disturbi mentali, o colpevoli di essere brave guaritrici al pari di medici ed esperte conoscitrici del potere delle erbe medicali e non solo, vennero accusate, quasi sempre ingiustamente, di far parte della setta delle streghe, di volare durante la notte sul dorso di animali a feste notturne dove, si diceva, adorassero il diavolo, baciandogli il deretano, consumando rapporti carnali con i demoni e abiurando i simboli della fede cristiana.

 

Molte delle testimonianze scritte negli atti dei processi, sembrano ripercorrere lo stesso schema: la donna si presentava davanti all’inquisitore, perché chiamata in giudizio, dopo l’accusa di un vicino di casa, un familiare (anche un parente), un conoscente; a volte la donna che stava per affrontare il processo chiedeva all’Inquisitore cosa voleva sentirsi dire e poi, se la confessione non arrivava subito, si procedeva con la tortura che non tutte erano in grado di affrontare (molte donne non superavano i dolori della tortura e decedevano prima che il processo terminasse); quando arrivavano stremate alla confessione finivano per dichiararsi colpevoli tutte di un medesimo misfatto, come se fosse esistito un canovaccio fisso da leggere e ripetere a memoria: confessavano il loro peccato, ossia quello di aver partecipato a feste notturne con il demonio in compagnia di altre donne e uomini; a tutto ciò seguivano altri nomi, altri processi.

 

La storia ha smentito l’esistenza di una setta diabolica, nulla forse è mai esistito, del resto i processi ci lasciano le testimonianze di donne che hanno confessato dopo aver subito indicibili torture (e ciò rende tutto molto discutibile oggi), proprio come Ursolina Toni, alla quale non fu risparmiato nulla.

 

La nostra Ursolina, che è stata il leit motiv nonché il pretesto iniziale per parlare di una pagina di storia locale, sopravvisse; fu costretta a una pubblica abiura per ben due festività consecutive (si presume il 1 e 2 novembre del 1539): la prima nella piazza del duomo di Modena e l’altra davanti alla chiesa di San Domenico (sede degli Inquisitori del ducato), a Modena.

 

Aveva freddo Ursolina, forse si vergognava, probabilmente le bruciava ancora la pianta dei piedi ustionata dal fuoco della tortura, ma era viva, e questa era la cosa più importante, anche se la sua vita nella comunità di Sasso Rosso non sarebbe stata più la stessa; lei restava la strega dai capelli rossi. La furia del boia l’aveva risparmiata. Il suo nome compare ancora una volta negli atti dei processi, ma non sappiamo se sia sopravvissuta al secondo processo.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]