N. 137 - Maggio 2019
(CLXVIII)
SULLO STREAM OF CONSCIOUSNESS
Da
James
Joyce
a
Virginia
Woolf
di
Giovanna
D’Arbitrio
Fu
lo
psicologo
e
filosofo
francese
Victor
Egger
(1848-1909),
nel
saggio
La
parole
intérieure.
Essai
de
psychologie
descriptive
(1881),
il
primo
a
parlare
di
“flusso
di
coscienza”,
una
tematica
che
si
sviluppò
ancor
più
sotto
l’influsso
di
Sigmund
Freud
con
i
suoi
testi
su
psicoanalisi
e
inconscio.
In
genere
Les
lauriers
sont
coupés
di
Edouard
Dujardin
apparso
nel
1887,
viene
considerato
come
primo
esempio
di
un
testo
letterario
in
cui
compare
il
"monologo
interiore",
una
tecnica
narrativa
che
dà
libero
sfogo
ai
pensieri
senza
riorganizzazione
logica,
più
tardi
perfezionata
nei
romanzi
psicologici
per
dar
maggior
risalto
a
emozioni,
sentimenti,
sensazioni.
Lo
stesso
Joyce
(Dublino
1882
–
Zurigo
1941),
trent’anni
più
tardi,
ammise
di
aver
appreso
la
tecnica
del
monologo
interiore
dalla
lettura
del
romanzo
di
Dujardin,
anche
se,
secondo
il
critico
Seymour
Chatman,
il
“flusso
di
coscienza”
di
Joyce
si
differenzia
dal
semplice
monologo
per
la
casualità
del
discorso
mentale
e
per
l’aggiunta
di
elementi
legati
alla
sfera
sensoriale.
Molti
furono
gli
esponenti
della
nuova
corrente
letteraria,
ma
in
verità
la
vera
rivoluzione
nella
tecnica
più
adeguata
a
rappresentare
l’attività
psichica,
fu
pienamente
realizzata
in
due
romanzi:
Ulisse
(1922)
di
James
Joyce
e
La
signora
Dalloway
(1925)
di
Virginia
Woolf.
Fu
James
Joyce,
in
effetti,
il
grande
maestro
della
libera
associazione
di
pensieri
e
dell’attività
psichica,
verbalizzata
e
non,
conscia
e
inconscia.
Nel
1906
usò
per
la
prima
volta
il
monologo
nella
sua
opera
Gente
di
Dublino,
nella
quale
si
fondono
realtà
e
mente,
conscio
e
inconscio.
Tale
stile
verrà
poi
da
lui
amplificato
nell’
Ulisse
in
cui
cade
ogni
barriera
tra
la
percezione
reale
delle
cose
e la
rielaborazione
mentale,
stile
estremizzato
nella
fase
conclusiva
in
Finnegans
Wake,
in
cui
il
racconto
è
affidato
al
sogno
del
protagonista,
con
l'abolizione
della
punteggiatura
e
delle
regole
grammaticali.
Senza
dubbio
grande
fu
il
successo
di
Ulysses,
pubblicato
a
Parigi
poiché
ritenuto
pornografico
dagli
editori
inglesi
e
americani.
In
esso
tutti
gli
episodi
narrati
trovano
eco
nell’Odissea,
poiché
ogni
capitolo
si
ricollega
a un
episodio
di
tale
poema,
anche
se
il
protagonista
non
è
più
l’eroe
omerico
impegnato
in
straordinarie
gesta
e
avventure,
bensì
un
comune
uomo
moderno
che
deve
affrontare
le
difficoltà
della
vita
quotidiana.
I
tre
personaggi
principali,
incrociando
le
vite
degli
altri,
in
qualche
modo
ne
influenzano
il
percorso
e lo
descrivono,
attraverso
un
continuo
monologo
interiore:
Leopold
Bloom/Ulisse,
ebreo
irlandese,
è un
piccolo
borghese,
impegnato
in
affari,
disposto
a
qualsiasi
compromesso,
sempre
pronto
a
tradire
la
moglie,
Molly/Penelope.
Molto
diverso
da
lui
è
Stephen
Dedalus/Telemaco,
colto,
spirituale,
problematico.
Alla
fine
attraverso
un
flusso
di
coscienza
“al
femminile”,
Molly
commenta
gli
eccessi
sessuali
di
Bloom
e
quelli
intellettuali
di
Stephen.
I
tre
personaggi,
ognuno
diverso
dall’altro
per
carattere,
pensieri
e
linguaggio,
si
esprimono
in
totale
stream
of
consciousness
durante
24
ore
a
Dublino.
Notevoli
appaiono
le
variazioni
di
stile
per
meglio
differenziarli,
nonché
l’uso
di
simboli
e
allegorie,
ricerca
di
parole
nuove
o
desuete,
digressioni
per
sottili
associazioni
di
idee
e
affinità
di
suoni:
una
discesa
nell’inconscio
nello
stato
di
veglia
che
evidenzia
l’influsso
di
Freud.
Interessante
la
frase
all'interno
del
romanzo
che
descrive
le
interazioni
con
gli
altri:
“Every
life
is
in
many
days,
day
after
day.
We
walk
through
ourselves,
meeting
robbers,
ghosts,
giants,
old
men,
young
men,
wives,
widows,
brothers-in-love,
but
always
meeting
ourselves”
(Ogni
vita
è
una
moltitudine
di
giorni,
un
giorno
dopo
l’altro.
Noi
camminiamo
attraverso
noi
stessi,
incontrando
ladroni,
spettri,
giganti,
vecchi,
giovani,
mogli,
vedove,
fratelli
adulterini,
sempre
incontrando
noi
stessi).
Letterato,
poeta,
drammaturgo,
ritenuto
uno
degli
scrittori
più
rivoluzionari
del
Novecento,
James
Joyce
segnò
senz’altro
una
significativa
svolta
culturale
con
il
suo
Ulysses,
una
rottura
definitiva
con
il
romanzo
ottocentesco.
Passando
ad
Adeline
Virginia
Stephen,
nota
semplicemente
come
Virginia
Woolf,
nata
a
Londra
nel
1882
e
attivamente
impegnata
nella
lotta
per
la
parità
di
diritti
delle
donne,
possiamo
constatare
che
nei
suoi
romanzi
scritti
dopo
il
1919
riesce
a
creare
personaggi
di
grande
intensità
psichica,
emotiva
e
poetica,
adottando
tutte
le
caratteristiche
del
“flusso
di
coscienza”:
abolizione
di
dialogo
diretto
e
trama
tradizionale,
prevalenza
di
monologhi
interiori
dei
personaggi,
assenza
di
una
cronologia
precisa,
con
spostamenti
nel
tempo
in
base
a
pensieri
e
ricordi
suscitati
dall’ambiente.
Il
tempo
è
visto
come
tanti
momenti
staccati,
assemblati
da
associazione
di
idee
o
immaginazione.
La
scrittrice,
in
effetti,
raccontò
le
sue
storie
nell’arco
di
dodici
ore
(La
signora
Dalloway),
in
pochi
giorni
(Tra
un
atto
e
l’altro),
in
diversi
anni
(Gita
al
faro)
o
addirittura
in
tre
secoli
(Orlando),
usando
un
linguaggio
raffinato,
ricco
di
metafore,
assonanze
e
allitterazioni.
Ricordiamo
in
breve
che
in
Mrs
Dalloway
(1925)
descrive
una
donna
di
mezza
età
alle
prese
con
i
preparativi
per
una
festa,
in
Gita
al
faro
(1927)
le
tensioni
della
famiglia
Ramsay,
in
Orlando
(1928),
dedicato
all’amore
per
poetessa
Vita
Sackville-West,
le
esperienze
di
un
androgino,
in
Le
Onde
(1931)
le
riflessioni
di
sei
amici,
in
Tra
Un
atto
e
l’altro
(1941)
il
potere
distruttivo
della
guerra.
Tra
le
opere
di
saggistica
invece
ricordiamo
Una
stanza
tutta
per
sé
(1929)
in
cui
compare
la
sua
celebre
frase
“una
donna
deve
avere
denaro,
cibo
adeguato
e
una
stanza
tutta
per
sé
se
vuole
scrivere
romanzi”.
Senza
dubbio
fu
una
grande
scrittrice
che
ebbe
una
vita
drammatica
per
le
sue
crisi
psicologiche
causate
da
fobie
e
depressioni,
ma
che
seppe
trarre
anche
da
esse
esperienze
per
creare
indimenticabili
personaggi.
Morì
suicida
il
28
marzo
del
1941,
quando
si
riempì
le
tasche
di
sassi
e si
lasciò
annegare
nel
fiume
Ouse.