N. 18
- Novembre 2006
...STRAVA, PIR O TRIZNA'.
STASERA SI BEVE!
Il bere in
Terra Russa ai tempi del Medioevo
di
Aldo
Marturano
Abbiamo tirato fuori queste tre parole (slave) perché
indicano tre diverse cerimonie solenni degli antichi
Slavi ed hanno in comune in particolare il bere e
l’ubriacatura finale come procedura sacrale.
Che
cosa è allora il bere? Esiste una ritualità anche
nell’ubriachezza? Il bere come attività “umana” non è
la semplice riposta allo stimolo della sete, come ci
verrebbe di rispondere immediatamente. Al contrario!
E’ un rito “sacro” ben preciso! La sete in un regime
dietetico contadino per grandissima parte fondato cu
alimenti vegetali, costituiti per ca. il 90 % e più da
acqua, raramente si presenta in modo da richiedere una
bevuta tanto urgente di un qualche liquido.
Oggi
non percepiamo più la sacralità del bere in questo
modo come invece lo sente il prete nella messa o nel
Medioevo il volhv che levava al cielo la
bevanda sacra prima di spargerla sull’altare e di
berla lui stesso. Eppure nei nostri usi e nei nostri
comportamenti ereditati dai nostri antenati non tutto
il rito è andato perduto. Ci siamo mai chiesti perché
oggi nel supermercato o nel bar ci troviamo davanti ad
una così vasta varietà di liquidi bevibili? A che
servono? Perché sono stati messi a punto? Queste
bevande sono realmente destinate a ricostituire le
riserve di liquido del nostro corpo?
Se
ci pensate bene esse sono veramente troppe, ammenocchè
non le mettiamo in rapporto con le numerose
celebrazioni della vita a ciascuna delle quali esse
sono state destinate per il consumo. Ad esempio, in un
incontro in cui stiamo per concludere un grosso
affare, chi non offrirebbe da bere al partner
commerciale? Nessuno, anzi, un brindisi con un qualche
liquore a caro prezzo è d’uopo! E berreste un whisky
la mattina a colazione?
Forse voi no, ma ci sono popoli nel mondo che lo
fanno! E in un pranzo di gala fareste mancare il vino?
E per una vittoria conseguita non stappereste una
bottiglia di champagne?
Dunque, riflettiamo bene. Si beve, ma non per sete e
neppure acqua semplice, ma liquidi che di solito è la
donna ad elaborare e a preparare partendo da varie
materie prime. Né questi liquidi, non vogliamo ancora
chiamarli bevande, possono essere ingeriti così
semplicemente. Occorre aspettare il momento
particolare della giornata o dell’anno, da soli o in
compagnia di certe persone oppure in certi luoghi. Le
bevande fabbricate dall’uomo non devono estinguere la
sete e basta, ma fanno parte integrante di riti
fissati da antichi costumi oggi dimenticati e
dipendono, per la loro natura, dal momento della
giornata e dalla rispettiva religione!
Nel Medioevo il rito del
bere (e del mangiare!) conservava ancora alcuni
aspetti principali. Il primo era la sacra libagione
davanti agli dèi nelle celebrazioni collettive, ma poi
si brindava anche per sigillare dei contratti, degli
accordi o per dare il benvenuto all’ospite e, in ogni
caso, quasi sempre con un liquido prestabilito. E si
bevevano pozioni per scacciare gli spiriti maligni dal
proprio corpo malato o, se occorreva, si faceva bere
per introdurveli, gli spiriti maligni, a fini
specifici come avvelenare o inebriare per dolo e,
perché no?, per indurre certi sentimenti nell’amata,
nel rivale, nell’avversario. Tutto questo si
rispecchia ancor oggi nel lessico delle varie lingue…
Tantissimi e vari gli scopi del bere, quindi!
Nelle Cronache Russe è rimasta famosa la frase di san
Vladimiro quando, rifiutando le prescrizioni
dell’Islam contro l’eccesso nel bere bevande
inebrianti, dice al sapiente musulmano: “Alla Rus’
il bere dà la carica! (Rusi est’ veselie piti!
traduz. di ACM)”, che non si deve interpretare come
un’esaltazione medievale dell’ubriachezza, diventata
ormai l’etichetta per i russi di oggi! In realtà
Vladimiro intendeva dimostrare di essere ben
consapevole della sacralità delle diverse occasioni in
cui, con i suoi ospiti, s’indulgeva nella bevuta (popòika/попойка)
rituale. Se teniamo presente che Vladimiro era ancora
mezzo svedese e che i suoi uomini erano Variaghi
svedesi, possiamo con buona approssimazione rifarci ai
costumi dei Vichinghi per interpretare meglio il ruolo
della convivialità solenne e ufficiale nella nuova
corte kieviana del X-XI sec. d.C. in cui bere era un
atto non abitudinario. Purtroppo il compito che ci
siamo prefisso è di cercare di capire meglio la vita
dello smierd e non quella dei suoi dominatori,
salvo che questi non incidano e influiscano sulle
abitudini e i costumi dello smierd stesso.
Per
questo motivo delle puntigliose testimonianze di Ibn
Fadhlan o di Ibn Rusté, non possiamo tener conto come
dovuto. Ibn Fadhlan ad esempio nomina una bevanda
inebriante dei Rus’ che chiama nabid (forse
dallo slavo napitok?) e dice: “Sono molto
affezionati al nabid e lo bevono notte e giorno.
Sovente uno di loro muore con un bicchiere di nabid in
mano.” Se i Rus’ menzionati sono Variaghi svedesi,
perché danno un nome slavo alla loro bevanda? Oppure
sono già parzialmente slavizzati? Rimane incerto, ma
secondo noi è una prova in più della dominanza
culturale slava… Un altro autore musulmano Ibn Dasta (Ibn
Rusté) nota ancora una volta, più o meno alla stessa
epoca, che gli Slavi non coltivano la vite… Non
conosciamo la competenza tecnico-agricola di questo
autore, ma non aver visto la vite non ci meraviglia
dato il clima e visto che il vino, primo
importante derivato commestibile (bevibile) di questa
pianta, compariva come prodotto d’importazione dalla
Grecia nelle Cronache Russe e solo sulle tavole dei
ricchi. Svjatoslav infatti, quando dice a sua madre
Olga nel 969 che non gli piace rimanere a Kiev e che
preferisce il Delta del Danubio, menziona il vino
e altri frutti fra le merci che giungono dal
sud (Costantinopoli). Tuttavia sono per noi più utili
a questo riguardo gli scritti di Ibrahim ibn Jaqub, il
mercante ebreo andaluso che visitò la Polonia e l’area
baltica, sempre nel X sec., e che quindi ispirerà il
nostro discorso, almeno all’inizio.
Cominciamo allora dalla birra.
Dal
punto di vista filologico occorre subito dire che i
nomi usati per i diversi tipi di birra bevuti nella
Rus’ di Kiev sono di origine svedese-norrena ed è
strano. Sicuramente ciò è dovuto non perché gli Slavi
non la sapessero preparare, ma perché probabilmente i
riti per berla si moltiplicarono proprio durante i
contatti fra Slavi e Variaghi. D’altro canto nessun
Variago, con il timore di essere avvelenato o di bere
una bevanda impura (ossia non ben fatta),
avrebbe accettato birra preparata dalle donne degli
Slavi e quindi, secondo noi, per alcune birre “russe”
si affermarono le ricette germaniche, proprio perché i
Variaghi furono nei primi contatti dei dominatori
rigidi in questo senso. In altre parole, se si
volevano fare affari con loro, i soci Slavi nei
conviti dovevano bere solo le birre che i Variaghi
stessi preparavano! Infatti, quando si allestiva una
spedizione vichinga nel Mare del Nord, una delle prime
derrate che entravano nella cambusa della nave era
proprio la pasta acida per far birra e pane, contenuta
in un tino affidato ad un responsabile affinché stesse
molto attento “a non farla morire” per il gelo e di
rinnovarla di tanto in tanto! Non c’è quindi ragione
di non pensare che lo stesso avvenisse nelle
spedizioni variaghe nel Mar Baltico visto che la pasta
acida (la madre della birra) era una delle “derrate”
importanti di qualsiasi gruppo di arditi viaggiatori…
Comunque sia il russo ol (ол), braga (брага),
kvas (квас) e forse anche mol’biscia (мольба)
corrispondono più a meno al norreno öl,
bjórr, hvas e mungàt, per i diversi
tipi di birra scandinava mentre la parola russa oggi
più comune per birra, pivo (пиво), indicava
un’altra bevanda qualsiasi – mai l’acqua! – prima di
passare (ma molto dopo) a significare appunto birra!
La
divisione di classe, come l’abbiamo notato già per le
razioni che il virnik portava con sé nel suo
giro, esistette perciò ben marcata fra la birra
riservata all’élite variago-slava e l’acqua (o al
massimo miele allungato) concessa alla gente
inferiore.
D’altronde il convito per la classe nobile era sempre
un evento speciale con convitati ben selezionati, ma
comunque molto diverso dal pranzo sacro fatto in
comune dopo il sacrificio nel sacrario dei villaggi.
Entrambi però, ovunque avessero luogo, erano
frequentate da forze divine invisibili e dunque erano
l’occasione buona per bere in grandi quantità bevande
raffinate, ma “di classe”! Dal tempo della conquista
di Kiev da parte di Vladimiro (ca. 980 d.c.), diventò
tuttavia una tradizione allestire grandi conviti per
le strade della città anche popolari affinchè la
gente nera (cjorn’) godesse della
magnificenza del principe (Knjaz) con una
grande mescita di bevande non eccellenti, ma con
mangiare a sazietà. Era una specie di politica
populistica simile a quella della distribuzione
gratuita del panem et circenses dell’antica
Roma e continuata a Costantinopoli per farsi voler
bene dal popolo quasi permanentemente in regime di
fame (diremmo noi oggi). Una strategia certamente
suggerita a Vladimiro dalla nuova fede cristiana
appena acquisita…
Così
nelle Cronache leggiamo che nel 1128 il Velikii
Knjaz di Kiev, Vsevolod, mentre era ad un
banchetto con i suoi uomini e con i bojari locali,
comandò di apparecchiare delle tavole nella città
bassa anche per la gente nera del Podol e raccomandò
di offrire da bere vino, mjod,
perevar insieme agli altri cibi. Conoscendo la
fama di questo Knjaz, questo banchetto per il
popolaccio ci offre la possibilità di fare qualche
considerazione un po’ maligna e di parte dicendo che
fu un avvenimento certamente eccezionale, ma
necessario per le tante misure abbastanza invise al
popolo kieviano che questo principe aveva messo in
atto ormai da qualche tempo.
Torniamo però alle bevande. Il vino era
sicuramente importato dalla Grecia o dalla Borgogna,
viste le relazioni di Vsevolod fin col lontano Reno,
ma sicuramente alla gente che non ne aveva mai bevuto
fu servito molto annacquato. Il vino in quei
tempi già di per sé si beveva mescolato con l’acqua e
la gente finora lo aveva visto bere solo in chiesa. Il
mjod invece era già conosciuto, ma quello
offerto quella volta sarà stato il più diluito, quello
chiamato varjonyi di qualità molto inferiore.
Rimane da individuare il perevar. La parola
significa ricotto o ribollito per cui
doveva essere quello che oggi si chiama sbiten’
non molto alcolico e che a Kiev era in vendita nel
mercato nei giorni di lavoro a bassissimo prezzo
quando si beveva caldo negli incontri con amici. Per
I. G. Pryzhov il perevar era una miscela non
molto fermentata di miele e composta di frutta (varenie)…
comunque dozzinale!
Lo Sbiten’ di Suzdal
non
alcolico
(Casa di Svarog, 2005)
In
un litro d’acqua diluire 150 g di miele. Aggiungere le
spezie importate (chiodi di garofano, cannella,
cardamomo, rabarbaro) che sono state pestate ben bene
nel mortaio (di qui il nome, sbiten’!). Bollire
la miscela per una decina di minuti togliendo la
schiuma man mano che si forma. Lasciare a sé per una
mezz’ora e filtrare. Riscaldare ancora e bere molto
caldo.
E ci
siamo imbattutti di nuovo nel miele! Dobbiamo dire
che dal X al XIII sec. questo prodotto con varie
ricette e mescolanze con altri liquidi fu la materia
prima per tutte le bevande sacre e laiche della Rus’,
a quanto ci consta. Un uso veramente smodato e
generale…
Vi
chiederete semmai perché non compaia la vodka
nel nostro discorso. E qui la risposta è molto
semplice. Secondo le ricerche più recenti (quell di V.
V. Pohlebnik), la vodka come distillato di vino
o di cereali fu importata nella Terra Russa attorno al
XV sec. In verità la tecnica sarebbe stata insegnata
ai russi nel 1386 o forse meglio nel 1429 dai mercanti
genovesi di Caffa in Crimea che si presentarono a
Mosca invitati in un’ambasciata commerciale.
Non
ci sono documenti però in cui viene detto
espressamente che i genovesi mostrassero ai moscoviti
come fare a distillare qualcosa o che portassero con
loro i particolari alambicchi di rame e perciò il
problema rimane irrisolto. Invece il veneziano
Ambrogio Contarini (XV sec.) ricorda, mentre era in
visita a Mosca, un vino artificiale (vinò
tvorjònoe) distillato. Potrebbe essere la vodka,
ma come si fa a dirlo con sicurezza? Secondo I.
Kurukin e E. Nikulina, la prima notizia sicura sulla
vodka appare nel Trattato delle due Sarmazie
(qui intese per Russia e Polonia) del
Rettore dell’Università Jagellonide di Cracovia
stampato nel 1517. Qui si legge: “Dunque dall’avena
essi (i Russi) fanno un liquido ardente o
spirito di vino e lo bevono per proteggersi dai
brividi del freddo.” Tipico discorso, ma
certamente riferito alla classe elitaria delle città
(Mosca e le altre vicine)… Qui però chiudiamo con la
vodka dicendo che in tale ultima datazione il
nostro interesse trova immediatamente il suo limite
cronologico e quindi per chi voglia saperne di più
raccomandiamo il classico I.G. Pryzhov, Storia
delle Osterie (kabàk) della Russia,
edito due secoli fa.
Tornando al discorso iniziale invece, ci siamo accorti
che è difficile per lo smierd definire che cosa
distingua una bevanda, sempre salvo l’acqua, da un
altro cibo cotto più o meno liquido. Ci siamo convinti
così che, se non se ne fissa l’uso per un’occasione
particolare, qualsiasi cibo liquido o semiliquido non
può essere per definizione chiamato bevanda. E se
guardiamo nelle tradizioni nazionali o regionali
troviamo quasi sempre che le bevande, come prodotti
preparati, son tenuti da parte per gli eventi speciali
della vita: un matrimonio, una morte, un compleanno,
un addio, un saluto di benvenuto, un grande incontro,
un’offerta agli dèi… Dunque, e lo ripetiamo!, così
doveva essere pure per lo smierd in quel
lontano Medioevo!
E
allora da dove estrarre o raccogliere i liquidi per
farne bevande? Da quali materie prime partire… in
cucina? Certamente ci vengono subito in mente le
piante. Per eccellenza sono queste gli esseri viventi
che raccolgono nel loro “corpo” più acqua possibile e
che risentono della mancanza di quel prezioso liquido
naturale più di ogni altro. E, siccome il nostro
smierd vive dalle e in mezzo alle piante, è anche
logico che traesse le sue bevande giusto da queste.
Tuttavia, per ottenerne per esempio di fermentate e
quindi per elevarle di valore economico e sacrale,
occorrerebbe conoscere le proprietà di certi funghi
saccaromiceti che riescono a scindere gli zuccheri in
alcol e anidride carbonica e saperli pure selezionare
per l’uso voluto.
Noi
oggi sappiamo che questi esseri microscopici vagano
nell’aria in continuazione sotto forma di spore e che
queste, non appena cadono in liquidi zuccherini
tiepidi, iniziano a svilupparsi e cioè a fermentare.
Ora, qualsiasi pianta è sorgente di zuccheri dato che
questi sono composti basilari dei tessuti vegetali e
dunque la fermentazione è un processo chimico
comunissimo nella marcescenza di frutti e di semi,
principalmente. E qui si nota un tipico approccio
della gente del nord verso i frutti e le bacche i
quali tengono per migliori da consumare, non le bacche
appena colte, ma quelle che sono lasciate a marcire
per un po’ prima di consumarle! In questo modo, è
vero!, diventano più dolci (ma anche più liquide e
forse più ripugnanti!)…
Il
processo fermentativo è molto sensibile alla
temperatura e perciò lo si può addirittura provocare o
governare facendo cuocere dolcemente la frutta
nell’acqua per poi lasciare il tutto all’aria per un
po’… L’unico problema poi rimane la conservazione di
questa specie di marmellata liquida (varenie)
affinché, fermentata, continui ad essere accettata dal
palato con quelle punte piccanti del nuovo sapore.
Infatti alcuni frutti vanno a finire in aceto (mele,
uva etc.) che non può essere accettato come bevanda,
D’altronde l’aceto giunse in Terra Russa con il
Cristianesimo e come condimento! Su questo punto però
è inutile discutere troppo poiché i gusti sono
culturali e cambiano col tempo e, se oggi a noi
sembrerebbe vomitevole una poltiglia fatta di bacche
quasi marce o acetitificate, nel tempo passato veniva
mangiata tranquillamente.
Comunque liquidi vegetali possono essere direttamente
“spillati” dalla pianta per farne bevande oppure
estratti con vari processi (spremitura, decozione,
infusione etc.). Ad esempio, il succo di certi grossi
frutti, la linfa di certi alberi, gli olii dei semi,
gli olii eterei di foglie e di fiori, i tannini in
soluzione di cortecce e di foglie, etc…
E
che dire dei liquidi animali? Le secrezioni animali
che l’uomo di solito appetisce sono il latte dei
mammiferi o il sangue, oltre al miele. Tuttavia se il
latte (di capra!) si beve non si potrà produrre
formaggio o prodotti simili e, come tutti sanno, il
formaggio si può conservare a lungo, al contrario del
latte. Tuttavia quando si fanno dei prodotti caseari
normalmente si separa il cosiddetto siero (syvorotka)
e questo è assolutamente buono da bere e non si getta
via. Sappiamo che i Vichinghi, e quindi anche i
Variaghi, lo bevevano volentieri (syr in
norreno), sebbene per la cultura slavo-russa invece
non abbiamo conferme sicure di tale uso. D’altronde
gli unici prodotti più tipici che lo smierd
otteneva dalla lavorazione del latte non erano
bevande, ma il tvorog, la smetana e il
burro prima di altri (il yogurt e il
kefir furono conosciuti molto tardi dall’uso dei
nomadi della steppa). Anzi! I primi due addirittura
trattenevano ancora gran parte del siero del latte di
partenza!
Per
quanto riguarda il sangue dobbiamo assolutamente
escluderlo dal bere rituale poiché quale linfa della
vita poteva essere soltanto offerto agli dèi degli
inferi e non sono conosciuti infatti ricette di piatti
o cibi in cui un ingrediente sia il sangue. Dalle
Cronache sappiamo che soltanto i nomadi della steppa
ucraina si dissetavano, a volte!, col sangue spillato
dalle vene delle cavalle e per questo erano
disprezzati e biasimati.
Anche le secrezioni del rospo o della rana potrebbero
essere bevute (e lo furono!), ma in questo caso l’uso
era specialmente magico (far perdere il senno!).
Addirittura sappiamo di un uso russo antico del veleno
delle api contro i reumatismi o i dolori della gotta
(malattia dell’élite che mangiava troppa carne!).
Per
quanto riguarda invece le deiezioni liquide animali,
il discorso è del tutto diverso perché il loro uso era
esclusivamente per certe “applicazioni industriali” o
“farmaceutiche” a cui accenneremo in altro luogo.
Alla
fine ci rimane il miele, il più importante prodotto
“liquido” che lo smierd ricava dalla foresta e
sul quale si è costruita tutta una parte importante
della cultura e dell’economia del nord Europa. E qui
il discorso diventa molto più articolato. Il mjod
è una bevanda di miele troppo tradizionale per tutto
il folclore indoeuropeo, dall’Oceano Indiano
all’Atlantico, e la somiglianza fra le parole che lo
indicano nelle diverse lingue sorelle non implica
assolutamente un imprestito tecnologico o culturale,
ma una tradizione comune antichissima.
L’uso del mjod d’altronde è confermato
dall’archeologia locale dove alcuni reperti di coppe
trovate nelle tombe corrispondono bene a quelle
descritte nei documenti contemporanei per ingurgitare
questa bevanda particolare. Che cosa hanno di
distintivo? In primo luogo sono fatte in modo da non
rimanere in equilibrio se poggiate perché mancano
sempre di piedino o di base. Prevalentemente sono
corni di uro (Bos primigenius) con l’orlo e la
punta argentati oppure intere coppe d’argento tutte
tonde. Infatti l’uso era (ed è!) di riempire le coppe
e svuotarle d’un fiato e per questa ragione non
dovevano posare stabilmente su una qualche superficie
piatta. Inoltre che il mjod fosse bevuto con
tali coppe in tutte le occasioni è indirettamente
provato da una statuetta ritrovata nella Volynia in
cui è rappresentato un uomo con una tale recipiente
nelle mani a cavalcioni di una botte!
Presumiamo naturalmente che lo smierd non si
potesse permettere tali “bicchieri” di corno o
d’argento, ma per lo meno doveva averne in casa, con
le stesse caratteristiche, benché fatti d’altro
materiale!
Abbiamo detto che se ne preparavano vari tipi anche
se, dobbiamo ridirlo, il miele (purtroppo in russo sia
miele sia idromele è la stessa parola,
mjod), prima di farne una bevanda, diventò
troppo prezioso come articolo di scambio (vendita e
tributo) per lasciarlo fermentare in grandi quantità e
berselo, invece che esportarlo tal quale.
E
torniamo alla bevanda fermentata per eccellenza, l’idromele
o mjod. Il mjod più a lungo fermenta
(ossia invecchia) e più alcolico diventa e perciò un
mjod di alta gradazione alcolica è molto
vecchio e vale tantissimo. Ad esempio in una bylina
si parla di un mjod che era stato a sé per
lungo tempo (stavliennyi), quasi 15 anni,
quando fu tirato fuori per destinarlo ad una
celebrazione molto importante! Naturalmente se si
doveva aspettare così a lungo perché invecchiasse, ciò
causava degli “immobilizzi” economici importanti, e
quindi un tale mjod se lo potevano permettere
solo i nobili o il Velikii Knjaz di Kiev come
ci conferma quella stessa bylina.
Ma
perché il mjod alcolico è più importante nei
riti? Il rilassamento delle inibizioni fisiche e
mentali per ingestione di alcol etilico è rimasto un
mistero fino a qualche decennio fa, per quanto
riguarda la spiegazione “scientifica”, ma nel mondo
ebraico e musulmano, dove il vino era comunemente
usato, il fatto di perdere il controllo della propria
“anima” causava grande preoccupazione, oltre che un
sospetto di diavolerie, e perciò colui che diventava
ebbro era considerato un debole e facile preda di
Satana o di altri spiriti maligni. Nella mitologia
slava invece l’ebbrezza era considerata in tutt’altro
modo. La bevanda inebriante era il tramite per
parlare con gli dèi e addirittura per parlare per
conto di questi agli altri uomini. Il volhv
non parlava forse con dio quando era ebbro (sia per
aver bevuto il mjod, sia per aver masticato
l’Amanita o assorbito la Canapa) e non annunciava le
decisioni divine predicendo il futuro? Dunque una
bevanda (o un cibo o un’essenza) inebriante dava dei
poteri soprannaturali…
Forse però val la pena dare qualche informazione su
che cosa significasse il miele come merce per lo
smierd e la sua attività di raccolta per il
semplice motivo che per secoli questo prodotto diventò
uno degli articoli cardine del traffico commerciale
delle Terre Russe.
Il
miele come dolcificante del nord Europa oggi è
naturalmente passato di moda da quando lo zucchero di
barbabietola sin dal tempo di Napoleone ha preso il
suo posto, ma nel Medioevo e fino a tutto il XV sec.
era ancora richiestissimo in tutta l’Europa. E questa
domanda risaliva a tempi remoti, se ricordiamo che lo
stesso Erodoto decantava questo prodotto “scitico” o
ammiriamo una famosa pittura nelle grotte preistoriche
della raccolta di miele. Nelle Cronache Russe si dice
chiaramente che il traffico del miele poteva mantenere
florida l’economia di interi villaggi. Per questi
motivi i principi delle diverse città-stato (udel),
consolidatisi con la caduta di Kiev del 1240, si
preoccupavano di riuscire a controllare tutta la
raccolta di miele della rispettiva regione sotto
dominio per non deludere le richieste dei compratori e
per non venir tagliati fuori dal flusso di ricchezze
che giungeva nelle Terre Russe in seguito a questi
traffici. Addirittura conosciamo un’ordinanza di un
Knjaz russo di trasferire un intero villaggio
nella foresta affinché la raccolta del miele non
sfuggisse al controllo! Lo storico polacco del XV sec.
Jan Długosz che si interessò anche della storia dei
rapporti fra il suo paese e le Terre Russe del nord,
ormai sotto la dinastia lituana dei Jagellonidi,
quando racconta che Casimiro il Grande nel 1352
riprese ai Tatari invasori la Podolia (parte del
territorio una volta kieviano) se ne compiace
aggiungendo che essa è “…ricca di miele e di
bestiame…”, sebbene la Polonia non fosse
assolutamente da meno per fornire gli stessi articoli.
Evidentemente era la qualità che era migliore…
Abbiamo visto come la raccolta del miele “selvaggio”
avveniva dopo la scoperta e l’appropriazione delle
arnie nel cavo dei tronchi e dunque aveva un buon
mercato! Né la raccolta era un lavoro semplice o
facile! L’allevatore di api da miele (in russo
bortnik) era uno specialista acrobata, se così
possiamo dire. Infatti è vero che il miele si poteva
prendere alle api che si trovavano nella foresta, ma
bisognava appunto trovarle! Quindi era meglio
addomesticarle.
E
gli alveari? Rimasero appunto i cavi negli alberi.
Questi venivano scavati in piante abbastanza grosse e
longeve e non dovevano danneggiare l’albero stesso,
non dovevano farlo morire. L’altezza a cui questi cavi
erano praticati era importante per metterli fuori
dalla portata eventuali “assaggiatori” clandestini
come l’Orso. Specialmente quando i favi erano posti
molto in alto sui tronchi di annosi abeti, occorreva
arrampicarsi coi ramponi ai piedi (articoli
costosissimi) e con una correggia a tracolla che si
allacciava al tronco e che si mollava e si tendeva man
mano che si saliva. Bisognava poi calcolare
l’inclinazione dello scolo dell’acqua piovana
eventuale in modo che non ristagnasse all’interno
dell’arnia, ma che facilitasse, quando era il tempo,
di far colare il miele nei tini dei raccoglitori.
Erano persino previsti trappole e impedimenti
all’assalto di scoiattoli, sorci e formiche. Anzi! A
questo proposito era proprio con queste trappole che
si catturavano un bel po’ di scoiattoli, la cui pelle
era usata come “denaro” (vekscià o kun).
Alla fine dell’autunno poi si affumicavano le api per
svuotare la cera e il miele!
Tutto questo non poté non coinvolgere quel poco di
legislazione che san Vladimiro e suo figlio Jaroslav
produssero sotto il nome di Pravda Russkaja su
un prodotto di tal valore! In essa sono previste
severe pene pecuniarie per chi danneggia o svuota le
arnie del Velikii Knjaz!! Minuziosamente il
codice entra in tutte le problematiche concernenti gli
alberi che portano miele, su chi sottrae le api per
allevarle “di contrabbando” etc.
Giovanni il Borsello (Ivan Kalità), uno dei
primi principi della nascente Mosca del XIV sec.,
accumulò moltissime ricchezze con il miele e quando
fece testamento si preoccupò di dividere le diverse
aree “mellifere” molto oculatamente fra i suoi figli
per assicurare un cespite differenziato, ma importante
di entrate per il futuro!
Dalle Cronache sappiamo così che se ne distinguevano
vari tipi indicati col nome della loro provenienza più
che per il sapore dei fiori: il miele di Novgorod o di
Pskov di gusto quasi simile (!), quello di Tver’,
quello di Murom e di Rjazan’ e ancora quello di una
cittadina chiamata Kadom nella regione dei Mordvini
che aveva un sapore del tutto speciale.
Tuttavia avere e mantenere un monopolio di questo
genere senza averne i mezzi adeguati di controllo
della produzione o una politica commerciale attrattiva
per il cliente estero ha molti punti deboli e
probabilmente il mercato arabo la cui cultura molto
raffinata nel X-XI sec. era grande consumatrice di
dolci si adoperò affinché non dovesse esclusivamente
dipendere dai prezzi alti che i principi russi
imponevano e cercò altre fonti, proprio ricorrendo
alla canna da zucchero conosciuta in Oriente da secoli
come un prodotto indiano altrettanto buono quanto il
miele. I principi russi cominciarono così a prendere
in considerazione maggiore i mercati europei
dell’Occidente, attraverso genovesi e veneziani. Anche
qui però si verificò lo stesso fenomeno di
insofferenza al monopolio di principi cristiani
“scismatici” come erano considerati i russi dai
clienti reali del resto d’Europa. Già durante le
Crociate, quando l’Occidente venne a contatto con lo
zucchero di canna, i Cavalieri di San Giovanni
sperimentarono la coltivazione di questa pianta
proprio a San Giovanni d’Acri in Palestina! Non ci fu
gran seguito però dopo la caduta di questa base
palestinese occidentale e si continuò a comprare miele
russo…
La domanda crescente dei
sec. XI-XIII d.C. tuttavia spinse la produzione del
miele nella Terra Russa ad una maggiore
intensificazione dell’allevamento delle api e ciò fece
in parte perdere l’aspetto quasi sacro della raccolta,
finora conservatosi nel mir.
Per curiosità del
lettore (e questo lo dobbiamo a S. A. Rozov)
informiamo qui che i Basc’kiri (oggi abitanti del
Basc’kortostan, non lontano ad est di Mosca) ancora
oggi praticano questa “arte” al modo antico, fornendo
un miele di alta qualità.
Il miele nella Pianura
Russa non era tanto un dolcificante quanto invece un
medicamento e la principale materia prima per fare
bevande alcoliche! Tutto al contrario che nel resto
d’Europa! Il gusto del dolce è tutto culturale e non è
sempre apprezzato nelle culture umane allo stesso modo
e allo stesso periodo storico. Si pensi soltanto
all’apprezzamento del tè, del caffè, del cacao che
sono tutti prodotti naturalmente amari. Se poi si
aggiunge che il dolce del miele ha anche un sapore
tutto particolare (a causa della varietà dei fiori
utilizzata dall’ape!) rifiutato da molte persone, si
può benissimo immaginare che nella casa dello
smierd il miele come semplice dolcificante
appariva molto raramente.
Il primo miele
comunque serviva a cuocere un’enorme focaccia fatta
con la prima farina di segala e speziata ben bene (prjanik)
che veniva poi offerta e divisa con tutti i bambini
del villaggio. Infatti siccome i bimbi erano
considerati la personificazione delle api, erano
proprio essi ad avere il diritto alla “loro parte” di
miele (dolja). Tutto il villaggio assisteva a
questa processione di ragazzi che con la loro scodella
andavano in fila al tino (koryto) dove era
stato posto il primo miele per prenderne una
cucchiata e porla nel proprio kuvscik per
gustarselo con soddisfazione accovacciati in un
angolo! Era la metà di agosto quando si raccoglieva il
primo miele e già bisognava pensare al
“nutrimento delle api” e ai furti eventuali.
Per addolcire comunque
la donna usava generalmente le bacche “più a buon
mercato” nel modo che abbiamo detto prima e cioè
usandole quando erano vicino alla marcescenza. Dalle
bacche cotte lentamente con acqua (e non solo dalle
bacche), se queste erano ricche di pectina,
addirittura si otteneva una gelatina molto densa
chiamata kisèl. Questo è uno dei più antichi
cibi semiliquidi mai menzionati nei documenti scritti
della Rus’ di Kiev.
Come il kisèl
salvò la città di Belgorod
(da Cristo e la Mafia
dei Rus di Aldo C. Marturano, 2004)
…i
Peceneghi colsero l’occasione per procedere verso la
città ponendo per primi l’assedio a Belgorod, dopo
aver superato le postazioni rus poco guarnite
della corrente inferiore del Dnepr. Né da Kiev né da
Novgorod poteva giungere alcun aiuto tempestivo e così
la vece di Belgorod, quando l’assedio ormai
durava da parecchio e il cibo cominciò a scarseggiare,
vedendo i morti per fame lungo le proprie strade, si
riunì per decidere che cosa fare. Chiaramente, senza
difesa armata, stabilirono di arrendersi. Un vecchio
però che non aveva partecipato alla vece,
quando gli riferirono della decisione, chiamò di nuovo
tutti a consiglio ed espose un’idea che gli era venuta
in mente per far rinculare i Peceneghi. Tutti sapevano
come quelle incolte genti della steppa erano
fortemente attratte dal modo di vivere dei russi in
città e quanto creduloni essi diventassero quando li
si attirava nella vita cittadina. L’idea che il
vecchio aveva elaborato era per l’appunto imperniata
su questa loro debolezza. Disse dunque che bisognava
preparare tini di gelatina dolce (kisèl), tini
di idromele (mjod) e tini di altri sciroppi
dolcissimi (boltusc’ka). Occorreva poi porre
questi tini nei pozzi e invitare i Peceneghi in città
ad assaporare l’acqua tirata su dai pozzi così
preparati. Nel frattempo si spargesse la voce,
facendola giungere anche alle orecchie dei non graditi
assedianti, che l’acqua che sgorgava dal terreno e
nutriva i loro pozzi non era la solita acqua semplice,
ma dolce come i liquori più dolci. Questo avrebbe
solleticato la curiosità dei Peceneghi e se avessero
creduto a quanto si diceva, avrebbero sicuramente
ragionato così: “A che pro continuare l’assedio per
così lungo tempo per espugnare questa città? Perché
distruggere questo ben di Dio e queste fonti d’acqua
dolcissima? E se hanno da bere cose così buone,
figuriamoci che cosa hanno da mangiare!” Il vecchio
era sicuro di questo e perciò era altrettanto sicuro
che i nemici sarebbero venuti a più miti consigli, se
si fossero invitati i loro capi a venire in città e a
constatare personalmente che la meraviglia dell’acqua
di Belgorod era un fatto vero. Tutti i cittadini però
dovevano concorrere affinché la scena risultasse la
più realistica possibile. Fu mandata una delegazione
con degli ostaggi, da trattenere presso i nomadi per
garanzia finchè la delegazione pecenega non avesse
completato la visita in città. Naturalmente i
Peceneghi videro con i propri occhi come dai pozzi di
Belgorod si attingeva liquore e non acqua semplice,
rimanendone grandemente impressionati. Notando
l’effetto ottenuto i belgorodesi cercarono allora di
dissuaderli dal mantenere l’assedio dicendo:
Abbiamo da mangiare in abbondanza dalla terra, anzi
mangiamo roba buona e dolce! Quando il rapporto
della visita fu riportato al capo pecenego, questi
decise che era meglio soprassedere e ritirò l’assedio,
accettando in cambio dei doni dalla città e
promettendo buone relazioni per il futuro.
Simile al kisèl e
altrettanto popolare era la melassa di frutta (speziata
con zenzero, ad esempio) o pàtoka che preparata
dalla donna di casa era venduta sul mercato di città a
cucchiaiate e poi bevuta allungata con l’acqua o tale
e quale.
Tornando al miele,
diciamo che era usato come unguento per curare la
pelle, ferite etc., per farne pozioni medicamentose e,
persino per conservare la carne “sotto miele”!
Soltanto quando l’interesse della nobiltà della città
si concentrò con più attenzione su questa materia
prima come prodotto di alto valore economico, quasi si
impedì allo smierd di continuare ad usarlo,
affibbiando multe e tasse non soltanto sul consumo, ma
anche sulla produzione, ora dichiarata “clandestina”!
Le
bevande al miele e cioè i vari tipi di mjod
però conservarono la loro popolarità e l’élite al
potere fu costretta spessissimo a metterne a
disposizione degli abitanti più poveri delle città che
non avevano la possibilità di rifornirsi direttamente
come gli smierdy, come abbiamo già visto sopra.
E’ chiaro però che questa era una soluzione
occasionale alla richiesta dei poveri… E allora dove
poter trovare mjod in città quando c’erano
celebrazioni più private, ma si era lontani dalla
campagna?
Nelle città della Polonia c’erano già nel X sec. d.C.
dei locali dove si mesceva mjod a pagamento. Ma
soltanto nel 1150 a Smolensk appaiono le cosiddette
korc’my (parola turca per osteria, taverna)
ossia delle mescite pubbliche dove, pagando, si poteva
appunto bere del mjod o altre bevande. Qualche
anno dopo le troviamo anche a Novgorod e a Pskov e
sono ora di proprietà della città mentre a Kiev, dove
sono presenti più o meno alla stessa epoca,
appartengono al Velikii Knjaz! Ecco che
l’abitudine di frequentare il bar (la korc’mà)
è già in auge nei gorod russi del Medioevo e
persino le donne ci vanno e devono ubriacandosi…
Abbiamo parlato di cerimonie in cui la bevuta era
obbligatoria e cerchiamo di trovare qualche notizia
scritta sull’argomento. La strava ad esempio è
un antichissimo tipo di banchetto funebre slavo (nel
panorama dei riti funebri indoeuropei) per la morte di
un capo e di essa ne abbiamo una descrizione classica
per la morte di Attila in Jordanes alla quale
rimandiamo il lettore curioso per leggeresi il testo
intero.
Lo
stesso doveva essere per la triznà come la
descrivono le Cronache Russe quando Olga, alla ricerca
del cadavere di suo marito nella Terra dei Drevljani,
la indice per onorare la morte di Igor in cui i
Drevljani di Iskorosten’ (questa era la loro capitale
a pochi chilometri da Kiev), suoi uccisori, sono
obbligati a fornire tutto il mjod necessario
alla celebrazione. Questa triznà finisce in
un’ubriacatura generale, tanto che Olga riesce a far
trucidare i Drevljani ancora ebbri e compie la sua
vendetta contro ogni regola di lealtà. Probabilmente,
se accettiamo l’etimologia suggerita da D. Ilovaiskii
(1876), triznà significa “divisione in tre
parti” poiché, secondo il racconto di Ibn Fadhlan,
quando moriva un capo dei Rus’, le sue sostanze erano
divise in tre: una parte andava alla sua famiglia, con
un’altra si compravano i vestiti e gli arredi della
cerimonia funebre e infine, la terza, veniva tutta
spesa per il convito corrispondente alla triznà!
Pir invece è una parola molto più generale per
banchetto, convito... con bevuta!
Sicuramente il pir ricalcava modelli molto
anteriori e il codice che lo regolava doveva essere
più o meno lo stesso a parte le celebrazioni per le
quali veniva allestito. In altre parole ogni qual
volta si richiedeva un pir c’erano dei menu
obbligatori fissati dalla tradizione e le bevande
adatte già prescritte da mescere per ciascuna
occasione. Ed ecco qualche aspetto curioso del pir.
Il
primo di cui abbiamo notizia è certamente quello
tenuto da Svjatoslav nel 965 quando dopo aver
conquistato la fortezza cazara di Sarkel (Belaja
Vezha in russo) sul Don celebra la vittoria
insieme ai suoi saccheggiando le provviste della
fortezza stessa. Non sappiamo quanto lo stesso
Svjatoslav indulgesse nella bisboccia poichè è rimasta
famosa la frugalità di questo variago, signore di Kiev,
che preferiva mangiare ad imitazione dei nomadi della
steppa sottili strisce di carne di cavallo tagliate
dagli animali ancora vivi e, dopo averle infilate in
uno spiedone, arrostiti sul carbone come ancora oggi
si fa il turco döner kebab. Fu dunque questo il
piatto caratteristico in quella occasione?
Nel
996 abbiamo notizia dalle Cronache che Vladimiro
consegue una grande vittoria contro i Peceneghi, altro
popolo turco della steppa ucraina. In questa occasione
fu indetto un banchetto popolare di ben sette giorni a
Kiev dove ci fu idromele a profusione e kvas ed
altre bevande, oltre a cibo in abbondanza per tutti,
così come era avvenuto quando aveva portato in città
la sua nuova sposa, Anna di Bisanzio, anni prima
(988).
Naturalmente molti piry seguirono a questi a
Kiev. Quando poi la Rus’ si frammentò in vari stati,
presso la nuova corte moscovita molte descrizioni di
banchetti più “laici” con attenti particolari ci
vengono riferite ora da ospiti stranieri fra il XV e
il XVII sec. e, presumendo che i cambiamenti siano
stati minimi col passare dei secoli, ci rifaremo in
parte a questi come se fossero ancora dei piry
medievali, tanto per mettere in evidenza qualche loro
stranezza in più per noi che viviamo nel XXI sec. che
non per elencare pietanze e ricette!
Ci
scusiamo con il lettore per questa digressione in
ambiente nobile che in realtà ha meno a che vedere con
la nostra ricerca, ma lo scopo è di raffrontare la
vita nel gorod distante mille anni luce da
quella del villaggio al fine di dimostrare che il
gorod appariva agli occhi dello smierd come
un altro mondo, grande pauroso e potentissimo, ma a
lui… assolutamente estraneo!
Allora che differenza c’è fra la tavola del principe
russo e quella del contadino? In pratica fino al XIV
sec. non doveva esserci alcuna differenza nella
composizione e nel ricettario, a quanto abbiamo potuto
appurare nella nostra ricerca, salvo la frutta e le
bevande esotiche orientali (tatare). Entrambe le
tavole avevano gli stessi cibi di base sanciti dalla
tradizione e quindi tanto sacri e inviolabili da non
poter essere cambiati… senza grande scandalo! Di certo
la differenza stava più nella quantità e nella
frequenza di certi piatti rispetto ad altri. Alla
mensa del principe ad esempio era quasi sempre
presente la carne e i frutti esotici, anche fuori
stagione, mentre alla mensa del contadino dominavano i
piatti a base di cereali.
Logicamente però i riti dedicati alla sacralizzazione
continua e costante dell’élite al potere erano
importantissimi e quelli che implicavano il cibo,
l’uso delle risorse per ottenerlo e il ruolo religioso
del capo nel distribuirlo (a se stesso e agli altri)
erano i più elaborati e rispettati nella loro
ripetitività.
Abbiamo visto come san Vladimiro in occasione della
conquista di Kiev avesse fatto costruire il suo
terem nella città alta. Ciò non toglie che
qualsiasi evento che qui si svolgeva non avesse
risonanza nella città bassa. Il teatro dello
spettacolo della sacralizzazione del banchetto come
cerimonia propria del Velikii Knjaz restava
sempre il terem! Prima di tutto, quando un
pir si teneva nelle piazze, tutti vi
partecipavano, se invece si teneva nel terem
ossia nel palazzo più alto del gorod, allora
era richiesta tantissima pubblicità, se così possiamo
dire! Il chiasso, il rumore assordante, le scene
(anche violente o ridicole) di ubriachezza erano
importanti e necessarie affinché il popolo sapesse che
il principe stava banchettando…
Per
saperci muovere con la fantasia dove viveva il
principe mentre si svolgeva un incontro ufficiale con
ospiti di riguardo daremo allora una breve descrizione
dei vari ambienti.
Il
terem del Knjaz si distinse sempre da
tutte le altre costruzioni civili di Kiev (e delle
altre città russe, a parte Novgorod-la-Grande) per la
sua magnificenza. Il terem visibile da lontano
per chiunque si avvicinasse alla città era costruito
sul cosiddetto Monte di Vladimiro (Vladimirskaja
Gorà). In questa area non era permesso a nessun’altro
avere case di abitazione senza speciale autorizzazione.
Solo intorno al XI sec. fu concesso ad alcuni bojari
di avere le proprie case non lontane dal terem,
ma per la semplice ragione che il Knjaz in
questione, Jaroslav (erede e figlio di san Vladimiro)
in questo modo poteva avere costantemente sott’occhio
questi personaggi della nobiltà “campagnola” dei quali
si fidava poco!
Il
terem aveva un primo piano (podklet) a
livello del suolo molto alto e fatto di solito con
pareti di ciottoli di fiume cementati insieme (o di
mattoni, che vennero in uso più comune con i bizantini
nel XII sec.). Sul podklet poggiava la
travatura che faceva da pavimento al secondo piano. A
partire da questo la costruzione continuava ora tutta
in legno, secondo il vecchio pregiudizio che vivere in
ambiente di legno (la foresta è fonte di vita!) era
più sano che non circondati dalla terra (l’argilla
cotta ossia lo stesso materiale del luogo sotterraneo
dove giacciono i morti!). Sul secondo piano poi si
trovava la cosiddetta gridniza e la
povaluscia, due sale di pari dimensioni nelle
quali si viveva di giorno (nella prima) e si dormiva
(nella seconda). Nella gridniza di solito si
tenevano le riunioni fra gli uomini del Knjaz e
talvolta anche qualche banchetto più intimo, ma i
grandi banchetti si allestivano nel piano di sotto.
Qui lo spazio era più ampio e soprattutto, dato che
questi eventi erano serali e notturni, a causa
dell’illuminazione con fiamme nude si limitava al
massimo il pericolo di incidenti che avrebbero potuto
causare un incendio devastante. Nel podklet
infatti erano sistemate le cucine (strjapusci)…
A
parte, nel piano superiore, c’erano le cosiddette
svetlizy o camere delle donne in cui
l’illuminazione era data dalle finestre e non c’erano
pec’ki per riscaldamento poiché questi ambienti
erano usati durante l’estate!
Nella povaluscia si dormiva per terra su stuoie
di feltro coperte da pellicce e ci si copriva con
altre pellicce e il Knjaz, temendo per la
propria vita, dormiva insieme ai suoi uomini più
fidati e sempre all’erta. Soltanto quando
desiderava incontrare sua moglie, andava a visitarla
nella di lei svetliza.
Il
timore costante dell’attentato poneva il Knjaz
in modo molto critico di fronte al cibo e a chi lo
preparava per cui il cuoco o la cuoca dovevano essere
fidatissimi e attentissimi poiché in qualsiasi caso
dubbio in cui il Knjaz si fosse sentito male, i
primi a temere per la propria vita erano proprio loro!
E’ probabile che proprio a causa di ciò, la carne
arrostita fosse preferita senza salse e intingoli in
principio sospetti!
Dalla sommaria descrizione data sopra non dobbiamo
immaginarci il terem come una costruzione
semplice e solitaria e isolata, ma come parte di un’usad’ba
(che abbiamo preferito interpretare come cascina)
dove c’erano campi e orti in cui si coltivava di
tutto, salvo naturalmente le derrate che venivano
dalla campagna o addirittura dall’estero! Nel terem
di Kiev probabilmente si piantarono anche i primi
alberi da frutto dopo che questi erano stati “provati”
nel vicino Convento delle Grotte dove infatti è
registrata la piantumazione del primo melo intorno al
XIII sec. d.C.! Dalle Cronache Russe sappiamo che il
podklet era sempre ricolmo di derrate
alimentari in quantità veramente enormi ed eccessive,
stando alle descrizioni fatte in occasione di rivolte
e conseguente saccheggio da parte del cosiddetto
popolaccio (cjorn’). Queste rivolte
successe abbastanza di frequente a Kiev (e in altre
città) e talvolta taciute dalle Cronache Russe ci
dicono come il rapporto fra il potere e il popolo
fosse molto instabile… ma questa è un’altra faccenda!
Una
cerimonia magica del Knjaz che prevedeva un
banchetto finale è la caccia (ohota).
Tutti erano obbligati ad aiutare nella preparazione di
questa impresa “guerresca” e nella propiziazione degli
dèi che permettevano l’uccisione di alcuni abitanti
della foresta. Quando la caccia si sarà finalmente
conclusa alla fine della giornata, gli animali uccisi
(di grossa taglia, perché già sappiamo che il Knjaz
non caccia quelli piccoli), saranno squartati e una
parte sarà data anche agli abitanti del posto in un
altro grande pir (banchetto, in russo)!. Il
Knjaz escluderà dall’offerta nel pir solo
alcune parti degli animali, considerate riservate. Il
Knjaz infatti non solo ha cacciato per tenersi
in forma con le armi, ma anche per rinnovare la
propria virilità e il proprio potere fisico che si
possono rigenerare proprio con queste parti del corpo
delle prede (i testicoli!).
Il
pir tuttavia fondamentalmente rimane un modo
per legare la gente intorno a sé e per far riconoscere
la propria autorità, nel caso del Knjaz che lo
offre e lo presiede… Una cerimonia sacra dunque, e non
un semplice rimpinzarsi! E, siccome quest’uso magico
del pranzo è uno dei pilastri fondamentali della
socialità umana, rammentiamo che rifiutare un invito a
pranzo significa (ancora oggi) rifiutare l’amicizia,
l’accordo, la riconciliazione…
I
Variaghi in Terra Russa, esalteranno questa cerimonia
del mangiare e del bere anche perché così si rinnova
il patto che i Variaghi della compagnia armata del
Knjaz facevano con il loro leader (detto in
norreno: il Patto dei suthnautar, ossia di
coloro che cuociono il pasto insieme)!
Se
però questo è il comportamento del circolo intorno al
Knjaz, quale sarà quello del contadino
“affamato” in un pir? E in quali occasioni
“sacre” sarà allestito un incontro conviviale nella
casa del contadino slavo? Lo vedremo in un altro
capitolo…
Per
ora diciamo che, una volta fissata la data, veniva
nominato un capo del pir che doveva
presiedere all’ordinamento dei posti a seconda
dell’importanza degli ospiti e dei commensali soliti
e, al momento del banchetto, aveva pieni poteri su
chiunque (in teoria persino sul Velikii Knjaz)
per qualsiasi questione, in special modo nel caso che
sorgessero litigi a causa della bevuta oppure per i
caratteri permalosi dei convitati. Costui fissava in
accordo col cuoco il menu e l’ordine di portata,
controllava la salubrità dei cibi e si preoccupava di
essere sempre presso il Velikii Knjaz in modo
da accontentarlo in qualsiasi sua richiesta, per
quanto possibile. A quanto sembra la maggior parte
delle stoviglie erano di legno (naturalmente coperte
di foglia d’oro!), ma c’era anche argento ben lavorato
a profusione come grandi bacili per pulirsi le mani o
grandi coppe dove pescare da bere etc.
Lista delle bevande servite in occasione di
un’ambasciata polacca a Mosca il 12.nov.1667
(da
P.V. Romanov, 2000)
Idromele di alta qualità (vysc’nevoi), 5 secchi
Idromele al sapore di lampone (malinovoi), 4
secchi
Idromele di altri tipi, 8 secchi
Idromele chiaro e con chiodi di garofano, 15 secchi
Idromele alla noce moscata, 5 secchi
Idromele al cardamomo, 3 secchi
Idromele al sapore di pane (cerstvyi), 2 secchi
Idromele all’orzo, 5 secchi
Birra forte di luppolo, 5 secchi
Birra leggera, 5 secchi
Altre birre, 7 secchi
Braga, 6 secchi
1
secchio è pari a ca. 12 litri
Invece non erano ammessi coltelli in vista né
esistevano forchette in uso. I cibi non erano serviti
in piatti personali e i convitati si servivano
direttamente con le mani dalle portate messe davanti a
loro. In un pranzo presso Basilio II a Mosca (siamo
nel XVI sec.) il Barone di Herberstein vide servire un
cigno arrosto dal quale Basilio staccò con le mani
alcune parti per sé prima di offrirlo anche
all’ospite. Qui è da notare che il cigno era
considerato un animale diabolico e praticamente
immangiabile e trovarlo nel menu del Velikii Knjaz
di Mosca è davvero sorprendente per un cattolico
latino…
Il
Knjaz inoltre sedeva più in alto degli altri
invitati e nelle sue vicinanze nessuno era ammesso,
salvo l’andirivieni del capo convito e degli
assaggiatori. Di solito i piatti preparati erano messi
in fila dinanzi al Knjaz tutti quanti insieme e
questi ne mangiava per primo e soltanto quanto restava
veniva passato al resto dei commensali seguendo un
certo ordine di importanza. A volte per onorare uno di
loro il Knjaz poteva anche raccomandare al capo
convito di servire questo ospite prima di altri
indicando quale piatto…
La
cerimonia più interessante erano però osservare gli
innumerevoli brindisi. Si diceva che un banchetto non
era riuscito, se non si fossero consumate numerose
(decine) botti di mjod… Naturalmente presso la
tavola dei ricchi scorreva anche vino greco delle
specie più dolci come quello che veniva dalle viti di
Monemvasia (Malvasia). Ogni commensale aveva l’obbligo
di brindare salutando e augurando fortuna e salute al
Knjaz e poi con qualche parola di circostanza
anche inneggiare all’avvenimento per il quale il
pir era stato allestito. Si beveva in corni di uro
con orlo e punta argentati, come abbiamo detto. Non
vuotare un corno pieno significava non partecipare
pienamente al pir e quindi offendere il proprio
amfitrione e se restava del liquore nel fondo
significava che chi aveva appena bevuto era un
bugiardo e l’augurio da lui partecipato non era del
tutto sincero. A queste violazioni badava l’attenzione
del capo convito e del ganimede (ciasc’nik) che
poteva poi riportarlo in un orecchio al Knjaz,
causando un putiferio!
I
giri di brindisi erano numerosi perché era un obbligo
finire il pir… in grandissima allegria, ma
soprattutto ubriachi! E, attenzione!,
l’ebbrezza, come abbiamo detto, non era un
comportamento moralmente negativo. Al pir tutti
avevano il diritto di dire male o bene, prendere in
giro o elogiare presenti e assenti, deboli e potenti
senza tema di rappresaglie! E dopo le prime bevute
naturalmente ciò era più facile benché ci fosse sempre
chi non accettava le parole dette al suo indirizzo e
si inalberava causando un parapiglia che era subito
represso dal capo convito. Questo interveniva persino
con suoi uomini armati e cercava di sviare l’eventuale
lite verso un nuovo brindisi oppure invitando ad un
combattimento personale fra i contendenti, ma fuori
dello spazio del pir possibilmente.
Ogni
ospite lasciando la tavola doveva ringraziare ad alta
voce, non il Knjaz, per carità!, ma gli dèi (o
il Dio cristiano dopo l’introduzione del
Cristianesimo) che aveva concesso questa possibilità e
tanta ricchezza da poter nutrire i convitati con
soddisfazione! Un costume sopravvissuto fino ad oggi,
ma che faceva parte anche della gost’bà del
Knjaz, era poi quello di riempire le “tasche”
degli ospiti del cibo rimasto quando costoro
lasciavano il banchetto e nessuno poteva rifiutare o
fingersi malato per respingere una tale offerta!
In
moltissimi banchetti c’erano canti e danze al centro
della sala con i cantautori mantenuti dal Knjaz
stesso. I testi cantati pervenutici erano logicamente
l’esaltazione della figura del Knjaz presente e
delle sue imprese oppure, in mancanza di queste, di
quelle dei suoi antenati, infilando nel repertorio
anche testi scurrili e faceti.
Quanti erano gli ospiti? Sono citati numeri enormi che
a volte vanno oltre le migliaia, ma ciò non deve
suscitare meraviglia. Pure in questo, niente è
cambiato fino ad oggi! D’altronde il Knjaz
avendo presso di sé la sua compagnia d’armi
fidatissima chiamata in russo druzhina (resti
dell’antico equipaggio variago!) in ogni pir
già costoro, come ospiti fissi, erano centinaia!
Infatti a seconda della commemorazione è naturale che
il Knjaz (o il signore locale) invitasse quanta
più gente possibile, anche soltanto per propaganda
politica pura e persino dando a molti degli ospiti
cibo insufficiente e cattivo.
Se
questo era il pir presso il terem, più o
meno dello stesso tenore erano quelli tenuti dai
bojari e quelli sacri collettivi nei villaggi per le
feste comandate, naturalmente con un’ostentazione di
abbondanza di gradi diversi.
La
Chiesa Russa naturalmente intervenne per evitare le
orge e l’ubriachezza inopportuna che marchiò come
aspetti pagani da aborrire tutti i piry del
passato. L’ubriachezza bisognava invece tollerarla
sebbene fosse poi temuta per le ragioni sopra dette
quando scioglieva la lingua a chi era in preda ai fumi
del mjod. Inoltre si dava una brutta immagine
specialmente se l’ubriaco era un prelato o un pop
visto che, addirittura, quasi sempre nei conviti era
presente un uomo di chiesa…
Per
primo è lo stesso san Teodosio delle Grotte (XI sec.)
che si esprime così sull’ebbrezza, quasi
classificandola: “Una cosa è l’ubriachezza maligna
e un’altra è il bere misurato e secondo le leggi (?!)
e in tempi giusti e alla gloria di Dio!”, mentre
la Pravda Russkaja contemporanea prescrive
delle multe blande e le addebita tutte al vescovo…
se l’ubriaco è un suo prelato o sottoposto!
Nel
XII sec. ancora Vladimiro Monomaco, Velikii Knjaz
di Kiev, nel suo Insegnamento (Poucenie)
condanna in modo chiaro l’ebbrezza ed esorta i suoi
discendenti a non cadere mai in tale stato.
In
verità tutte queste prescrizioni, condanne e pene che
appaiono negli scritti ufficiali sono soltanto delle
buone intenzioni dei legislatori o di coloro che se ne
preoccupano mentre poi nel gorod e nel
villaggio si indulgeva tranquillamente a bere senza
limiti effettivi. L’ubriachezza aiutava in tanti casi
a dimenticare e a mettere da parte i problemi.
Certo! Al pop del villaggio fu data la
direttiva di non provocare il bere smodato diventando
ebbro lui stesso, come abbiamo visto, ma questo
personaggio nei suoi sforzi di integrarsi alla
popolazione delle cui anime doveva occuparsi si trovò
davanti a tantissime difficoltà che l’occasione di una
festa che scivolava verso la confusione e la
promiscuità orgiastica antica lo aiutava persino a
trovar moglie fra le ragazze del posto! Possiamo
dunque immaginare come il pop avendo a
disposizione il pregiatissimo vino da messa lo ponesse
anche a disposizione dei suoi pochi amici del
villaggio (al di là dell’additare ufficialmente i
piry del mir come riti pagani) al posto del
plebeo e pagano mjod…come ci raccontano le
byline! Nel villaggio si continuò a frequentare il
pir come l’occasione dove stare insieme in
serenità e allegria edonistica, con tutte le abitudini
e i costumi tradizionali di cui si restò gelosamente
custodi perdonando gli eccessi.
Anche la donna beveva, in città e così nel mir.
Questo è comprensibile quando si pensa che era proprio
lei a preparare le bevande, fermentate e non, ma, a
quanto pare, meno dei congiunti maschi. Si conservò
anzi un sano costume da parte delle donne. Alla fine
di un pir all’aperto toccava proprio alle donne
fare un’ispezione per vedere se tutti gli uomini
fossero in piedi e non corressero il rischio di morire
rimanendo stravaccati per terra all’addiaccio.
Era
credenza che una morte di questo genere destinava il
defunto ad una vita nell’aldilà senza pace giacché da
morto impuro nessuno lo avrebbe mai sepolto. Perciò
occorreva rimettere in piedi l’ubriaco per portarselo
vivo a casa! Oltre a ciò c’erano degli scongiuri da
pronunciare ad alta voce lasciandolo dormire ben
infagottato sotto l’occhio vigile della donna. Questa
rimaneva allora attenta, ma non doveva assolutamente
dormire! Come fare a restare sveglia? Per riuscire a
vegliare era prescritto tenere nelle mani della cera
bianchissima e pronunciare altri scongiuri ad alta
voce.
-
Scongiuro per smaltire la
sbornia
(A.V.
Kapylova, 2003)
Alcol e vino abbandonate questo corpo e andatevene
nella foresta dove gli uomini giusti non vanno, dove i
cavalli non pascolano e gli uccelli non volano …
Fatelo ritornare in sé quest’uomo, vostro schiavo
(cioè degli dèi)…
-
Scongiuro per tenersi sveglia
Alba-albuccia bella bimba, tu stessa madre e regina e
tu o Luna e voi o Stelle portatemi l’insonnia e tu…
stenditi vicino a me e manda via dal mio corpo questo
cattivo spirito (prendendo su di sé la personalità
dell’ubriaco che dorme)…
N.B.
Tutti questi scongiuri sono stati naturalmente
registrati dopo l’introduzione del Cristianesimo e
quindi sono accompagnati da ripetuti segni di croce e
da ripetute invocazioni al Dio cristiano, alla
Trinità, agli Angeli etc. (ACM)
Dietro questi rituali però ci si proteggeva anche da
un’altra minaccia, quella più grave. Di notte gli
stregoni vanno in giro per mutilare i cadaveri freschi
o i dormienti ubriachi e, con questi pezzi, preparare
i loro pasti magici… |