N. 140 - Agosto 2019
(CLXXI)
sULLO STRAGISMO ROSSO IN ITALIA
IL PROCESSO DI RADICALIZZAZIONE DELLA PROTESTA
di
Albertina
Sanchioni
9
maggio
1978.
Il
corpo
di
Aldo
Moro
viene
ritrovato
nel
bagagliaio
di
una
Renault
4
parcheggiata
in
Via
Caetani.
Il
rapimento,
i 55
giorni
di
prigionia
e
l’omicidio
vennero
attribuiti
alle
Brigate
Rosse,
il
più
numeroso
e
longevo
gruppo
terroristico
di
sinistra
del
secondo
dopoguerra.
Non
fu
l’ultima
delle
sanguinose
azioni
violente
di
quegli
anni,
ma
costituì
sicuramente
l’apice
del
fenomeno.
Nel
corso
della
storia
italiana,
specialmente
del
secondo
dopoguerra,
i
cosiddetti
Anni
di
Piombo
(tra
la
fine
degli
anni
Sessanta
e
l’inizio
degli
anni
Ottanta),
e
con
essi
il
terrorismo
che
li
sconvolse,
rimasero
drammaticamente
impressi
nella
memoria
della
collettività.
Il
terrorismo
in
sé è
stato
definito
come
“l’attività
di
quelle
organizzazioni
clandestine
di
dimensioni
ridotte
che,
attraverso
un
uso
continuato
e
quasi
esclusivo
di
forma
e
d’azione
violenta,
mirano
a
raggiungere
scopi
di
tipo
prevalentemente
politico”
(Donatella
Della
Porta;
Il
terrorismo
di
sinistra,
Il
Mulino,
1990).
Quali
furono
le
cause
e le
condizioni
storiche
e
sociologiche
che
permisero
al
terrorismo
di
sinistra
di
radicalizzarsi
a
tal
punto
da
rapire
e
uccidere
il
presidente
della
Democrazia
Cristiana,
a
pochi
mesi
dal
compromesso
storico?
Per
alcuni
ci
fu
un
filo
diretto
tra
le
manifestazioni
del
‘68
e
l’esplosione
delle
Brigate
Rosse,
per
altri
furono
due
momenti
totalmente
slegati,
due
processi
che
non
ebbero
nulla
in
comune
tra
loro.
Entrambe
le
posizioni
sono
probabilmente
inesatte
o
incomplete:
la
parola
chiave
è
“radicalizzazione”,
ma
per
capire
meglio
occorre
fare
un
passo
indietro.
Nella
seconda
metà
degli
anni
Sessanta
era
iniziata
in
Italia,
parallelamente
ad
altri
movimenti
di
protesta
nel
mondo
occidentale,
una
grande
fase
di
mobilitazione
collettiva.
La
protesta
nasceva
all’interno
delle
università
con
diverse
richieste
che
andavano
da
un
modello
d’università
“d’élite”
a
una
di
massa,
alla
trasformazione
dei
contenuti
dei
programmi
di
insegnamento,
ai
diritti
di
espressione
politica
all’interno
dei
luoghi
di
studio.
La
caratteristica
che
però
distinse
le
mobilitazioni
italiane
fu
il
coinvolgimento
successivo
di
tutta
la
popolazione,
in
primo
luogo
della
classe
operaia.
Le
prime
fasi
della
protesta
furono
prevalentemente
non
violente:
la
violenza
stessa
fu
episodica,
dettata
soprattutto
da
interventi
sconnessi
e
mal
condotti
da
parte
della
polizia
durante
le
manifestazioni
di
massa.
All’inizio
si
parlava
di
occupazioni
non
violente,
assemblee,
proteste
pacifiche.
In
pochissimi
mesi
però
la
contestazione
uscì
dalle
università,
e
questi
gruppi
di
protesta
iniziarono
a
radicalizzarsi,
fino
all’emersione
di
forme
di
violenza
spontanea
e
organizzata.
Questa
si
radicalizzò
ulteriormente
fino
alla
nascita
dei
primi
gruppi
terroristici,
tra
cui
le
Brigate
Rosse
(BR).
Le
stesse
BR,
in
modo
simile
a
quasi
tutte
le
organizzazioni
sovversive
del
tempo,
conobbero
a
loro
volta
un
processo
di
radicalizzazione
interna,
e
iniziarono
a
destare
una
certa
preoccupazione
solo
nella
metà
del
decennio:
all’inizio
attaccarono
proprietà,
beni
o
minacciarono
dirigenti
di
fabbrica,
ma
solo
in
un
secondo
momento
ricorsero
alla
violenza
su
persone.
Fino
al
1974,
infatti,
le
Brigate
Rosse
non
avevano
mai
ucciso.
Il
numero
delle
azioni
era
piuttosto
limitato,
e
solo
4 di
esse
erano
state
rivolte
contro
persone.
Il
biennio
di
svolta
fu
considerato
il
1976-1977,
quando
si
iniziò
a
scendere
in
piazza
armati
e
nelle
stesse
manifestazioni
ci
fu
un
forte
innalzamento
del
livello
di
violenza.
Lo
stesso
numero
di
gruppi
clandestini,
molto
limitato
fino
al
1976,
era
invece
cresciuto
rapidamente
nel
1977:
Brigate
Rosse
(BR),
Prima
Linea
(PI),
Azione
Rivoluzionaria
(Ar),
Formazioni
armate
combattenti
(Fac)
e
moltissime
altre.
Il
punto
di
partenza
per
comprendere
il
fenomeno,
come
già
accennato,
è il
fenomeno
della
radicalizzazione.
Con
quest’ultima
si
intende
“spostamento
verso
le
punte
estreme,
verso
posizioni
o
soluzioni
radicali,
di
là
da
ogni
compromesso”,
ed è
comprensibile
solo
se
si
prende
in
considerazione
l’idea
che
alcune
predisposizioni
culturali
erano
già
presenti
all’interno
del
sistema.
Il
primo
aspetto
da
considerare
è
l’atteggiamento
di
possibili
alleati
del
movimento.
Dal
punto
di
vista
ideologico
questi
gruppi,
in
particolare
le
BR,
si
dichiaravano
marxisti-leninisti,
perciò
uno
degli
alleati
più
vicini
nell’appoggio
della
guerriglia
sarebbe
dovuto
essere,
teoricamente,
Enrico
Berlinguer,
a
guida
del
Pci.
Il
Pci,
dopo
il
‘68,
e
specialmente
dopo
la
seconda
metà
degli
anni
‘70,
si
schierò
apertamente
nel
“fronte
del
rifiuto”.
Operò
dunque
una
netta
chiusura
non
solo
nei
confronti
dei
terroristi,
ma
anche
degli
stessi
gruppi
di
protesta
emergenti.
Nonostante
ciò
seguirono
anni
di
ambiguità
non
solo
nel
partito,
che
appunto
condannava
fermamente
le
violenze,
ma
negli
stessi
ambienti
culturali
intorno
ad
esso
la
maggior
parte
degli
intellettuali
era,
o
almeno
si
dichiarava
filocomunista,
per
cui
spesso
ci
si
rifiutò
di
conoscere
la
reale
portata
delle
BR,
tanto
da
affermare
che
“i
terroristi
sono
compagni
che
sbagliano”.
Lo
stesso
Stato
Italiano
non
fece
molto
per
reagire
al
ciclo
di
protesta
del
‘68
e
alla
sua
successiva
radicalizzazione
nei
gruppi
terroristici.
Reagì
poco,
infatti,
o
non
reagì
per
niente.
La
stessa
protesta
fu
radicalizzata
anche
da
un’inadeguata
gestione
dell’ordine
pubblico
dello
Stato,
democratica
ma
totalmente
repressiva.
Il
picco
della
repressione
si
ebbe
nel
1977,
quando
venne
inviato
un
carro
armato
a
Bologna
in
piazza
durante
duri
scontri
tra
studenti
della
sinistra
extraparlamentare
e
forze
dell’ordine,
si
decise
di
vietare
tutte
le
manifestazioni
pubbliche
nella
città
di
Roma,
e
venne
fatto
fuoco
in
piazza
Giuseppe
Gioacchino
Belli
il
12
maggio
1977,
dove
morì
Giorgiana
Masi,
21
anni.
L’intero
paese
era
nel
caos.
Ma
chi
erano
questi
terroristi
“rivoluzionari”?
Perché
scelsero
la
lotta
armata
e la
clandestinità?
Dagli
anni
‘70
la
letteratura
sulla
figura
del
terrorista
il
più
delle
volte
realizzava
il
quadro
di
una
persona
incapace
di
raggiungere
l’età
adulta,
terrorizzata
dal
mondo
esterno,
demoralizzata
dalle
sconfitte
subite.
Al
contrario,
però,
i
dati
ci
dimostrano
come
“la
caratteristica
più
rilevante
dei
terroristi
è la
loro
normalità”.
Le
motivazioni
individuali
sono
da
ricercare
ancora
una
volta
nel
background
culturale
e
storico
del
tempo:
molti
giovani
si
trovarono
catapultati
nel
mondo
del
lavoro
senza
una
qualsiasi
cultura
sindacale
e
politica,
e
dunque
la
maggior
parte
dei
sociologi
afferma
che
ci
fu
un
vero
e
proprio
“trauma
collettivo”
(J.
Semelin),
concordando
sulla
difficoltà
di
moltissimi
ad
adattarsi
al
cambiamento.
Nell’Italia
del
tempo
erano
inoltre
presenti
tutti
i
problemi
legati
alla
modernizzazione:
in
particolare
l’affermazione
dell’individualismo
e la
fine
dei
legami
tradizionali.
Nacque
dunque
la
figura
del
“militante
rivoluzionario”:
una
generazione
di
studenti
che
decise
di
proseguire
il
conflitto
al
di
fuori
del
contesto
studentesco
e
che
si
inserì
nel
più
ampio
“autunno
caldo”
delle
lotte
operaie
nel
1969.
Un
esame
delle
informazioni
ufficiali
che
sono
state
rese
disponibili
ha
permesso
di
concludere
che
“sia
il
terrorismo
nero
che
quello
rosso
nascono
per
ragioni
politiche
che
sono
italiane,
non
frutto
di
complotti
diabolici
ma
di
aggregazioni
successive,
di
garanzie
di
impunità
assicurate
nei
fatti,
di
squilibri
nel
nostro
sistema
politico
e
istituzionale”
(Donatella
della
Porta,
Il
terrorismo
di
sinistra,
Il
Mulino,
1990)
.
La
fase
finale
della
radicalizzazione,
successiva
alla
creazione
dell’organizzazione
e
gli
obiettivi
comuni,
fu
quella
della
clandestinità,
che
segnò
l’avvio
ad
una
nuova
identità.
Il
fattore
simbolico
consisteva
nell’avere
una
carta
d’identità
falsa,
necessaria
per
scappare
dai
controlli,
e
fu,
in
ogni
caso,
il
punto
di
non
ritorno.
In
teoria
le
BR
praticavano
già
nei
primi
due
anni
della
loro
esistenza
la
“doppia
militanza”:
clandestinità
dell’organizzazione
e
pubblica
attività
dei
suoi
membri.
In
realtà,
molte
regole
di
condotta
non
venivano
applicate:
i
dirigenti
vivevano
in
domicili
conosciuti
e i
volantini
firmati
dalle
stesse
BR
venivano
distribuiti
fuori
dalle
fabbriche
senza
nessuna
cautela.
Questa
semi-legalità
entro
in
crisi
nel
1972,
dopo
una
serie
di
arresti,
infiltrazioni
e
perquisizioni.
Era
necessario
dunque
applicare
le
regole
della
clandestinità.
Questa
decisione
portò
a
una
grande
scissione
all’interno
del
gruppo:
non
tutti
i
membri
accettarono
questa
decisione,
e
molti
uscirono
dall’organizzazione.
Chi
restava,
però,
costretto
alla
latitanza,
poneva
maggiore
impegno
nelle
azioni
delle
BR,
trasferendosi
in
altre
città
per
dare
una
dimensione
nazionale
alla
prima
organizzazione
armata.
Il
rapimento
e
l’omicidio
Moro,
ma
anche
l’omicidio
di
Guido
Rossa,
operaio
sindacalista
molto
amato,
crearono
una
frattura
ormai
insanabile
tra
le
BR e
quella
parte
di
popolazione
che
poteva
averli
anche
minimamente
appoggiati.
L’organizzazione
entrò
poi
in
crisi
nei
primi
anni
Ottanta,
conseguentemente
al
suo
isolamento
all’interno
della
società
italiana,
e
venne
progressivamente
distrutta
sia
grazie
alla
crescente
capacità
di
contrasto
da
parte
delle
forze
dell’ordine,
ma
anche
grazie
alla
promulgazione
di
una
legge
che
concedeva
generosi
sconti
di
pena
ai
membri
che
avessero
rivelato
informazioni
o
identità
di
altri
terroristi.
Gli
stessi
Renato
Curcio
e
Mario
Moretti
nel
1987
firmarono
ufficialmente
un
documento
in
cui
dichiaravano
conclusa
l’esperienza
delle
Brigate
Rosse.
Ancora
oggi,
a
distanza
di
trent’anni,
è
difficile
ricostruire
con
esattezza
quegli
anni
oscuri
e i
tanti
omicidi.
Gli
“anni
di
piombo”
furono
anni
intrisi
di
violenza
proveniente
da
gruppi
di
estrema
destra
come
di
estrema
sinistra.
Entrambi
non
solo
colpirono
nel
cuore
dello
Stato,
ma
scossero
un’intera
generazione
e un
intero
paese
che
per
anni
visse
nel
terrore
e
nella
confusione.
Una
cosa
è
certa:
la
verità
su
quegli
anni
è
ancora
lontana,
i
segreti,
i
dubbi,
i
retroscena
sono
tutti
da
scoprire.