N. 51 - Marzo 2012
(LXXXII)
la strage dei valdo occitani
conflitto religioso o pulizia etnica?
di Benedetta Rinaldi
Nella
storia
della
nostra
Penisola
sono
numerosi
i
fatti
di
sangue
legati
alla
religione,
sia
legati
al
potere
temporale
della
Chiesa
cattolica
che,
in
misura
minore
ma
non
certo
meno
terribili,
legati
al
braccio
della
Controriforma.
Tra
questi
ultimi
rientrerebbe
la
strage
compiuta
contro
i
Valdesi
di
Calabria
nel
1561.
La
breve
e
tormentata
storia
di
questa
comunità
comincia
dopo
il
1208,
quando
la
Santa
Inquisizione
decide
di
annientare
gli
eretici
di
tutta
la
regione
occitana,
a
sud
della
Francia.
Per
20
anni
il
territorio,
il
cui
centro
principale
era
Albi,
fu
messo
a
ferro
e
fuoco
la
crociata
detta
appunto
“degli
Albigesi”.
Parte
della
popolazione
cercò
dunque
rifugio
all’estero,
spesso
oltremonte,
e
alcuni
di
loro
si
stanziarono
in
Calabria,
specie
a
Guardia
Piemontese
e
San
Sisto,
dove
gli
abitanti
autoctoni
presero
a
chiamarli
anche
“ultramontani”.
I
protestanti
vissero
piuttosto
serenamente
per
circa
200
anni,
fino
alla
metà
del
‘500
circa,
quando
la
Controriforma
si
spinse
anche
nel
Sud
Italia,
sia
sull’onda
dello
zelo
dei
Gesuiti
e
dei
Domenicani,
già
assurti
a
braccio
armato
della
chiesa
di
Roma
contro
le
eresie,
sia
perché
richiamata
dalla
predicazione
di
un
giovane
protestante,
Giovan
Luigi
Pascale,
il
cui
entusiasmo
e
proselitismo
erano
fonte
di
preoccupazione
tra
i
vertici
cattolici.
A
ciò
si
aggiunge
la
denuncia
che
Salvatore
Spinelli,
feudatario
del
territorio
su
cui
si
erano
insediati
i
valdesi,
denunciò
la
presenza
di
eretici
nel
suo
feudo,
a
seguito
della
bolla
papale
del
1559
che
aveva
decretato
che
i
confessori
non
potessero
assolvere
chi
fosse
a
conoscenza
di
attività
ereticali
e
non
le
avesse
denunciate.
Primo
passo
nella
repressione
degli
“eretici”
fu
proprio
l’esemplare
messa
al
rogo
del
giovane
predicatore
Pascale
nel
1559.
In
seguito
per
circa
2
anni
il
potere
della
controriforma
si
manifestò
principalmente
attraverso
la
predicazione,
che
sembrava
però
cadere
nel
vuoto
di
fronte
a
una
comunità
unita
e
radicata
come
quella
dei
valdo
occitani,
la
cui
forza,
non
va
dimenticato,
risiedeva
anche
nella
propria
lingua,
la
lingua
d’oc,
ancora
fieramente
parlata
e
utilizzata
per
la
pratica
della
propria
religione.
Appurato
che
il
mero
catechismo
non
conduceva
ai
risultati
sperati,
nel
1561
il
frate
domenicano
Malvicino
ordinava
ai
valdesi
l’abiura,
minacciando
tortura
e
morte
per
chi
avesse
resistito.
Successivamente
la
comunità
fu
interessata
da
ordinanze
speciali
:
gli
occitani
non
potevano
riunirsi
in
gruppi
di
più
di 6
persone,
non
potevano
parlare
la
loro
lingua,
dovevano
seguir
la
messa
ogni
giorno,
indossare
uno
specifico
abbigliamento
che
li
rendesse
riconoscibili,
mandare
i
figli
a
scuola
a
partire
dai
5
anni
di
età
e
sottoporsi
ai
sacramenti
di
confessione
e
comunione.
A
ciò
si
aggiungeva
il
divieto
assoluto,
per
25
anni,
di
matrimoni
tra
componenti
della
comunità:
in
tal
modo,
come
nel
precedente
editto
spagnolo
del
1526
contro
i
moreschi,
si
sperava
in
una
graduale
scomparsa
e
integrazione
della
comunità
occitana.
Ovviamente
questo
tipo
di
restrizione
nelle
libertà
personali
degli
occitani
finì
per
sfociare
in
rivolte
e
stragi.
E
infatti
alla
fine
del
marzo
1561
la
situazione
era
radicalmente
peggiorata:
pur
essendo
formalmente
vietato
lasciare
i
casali,
intere
famiglie
sparivano
rifugiandosi
nei
boschi.
E
proprio
questa
fuga
lenta
e
inesorabile
fornì
l’espediente
per
intraprendere
una
vera
e
propria
crociata
contro
i
valdesi,
camuffata
in
un
problema
di
“ordine
pubblico”
basata
sul
sospetto
che
i
fuggitivi
stessero
preparando
azioni
di
brigantaggio.
Vi
furono
taglie
sui
fuggiaschi:
100
ducati
per
ogni
predicatore
catturato
vivo,
10
per
ogni
valdese
ucciso,
ad
ogni
eretico
catturato
si
doveva
proporre
di
confessarsi
e in
caso
di
rifiuto
si
era
autorizzati
a
impiccarlo
sul
posto,
anche
le
donne
dovevano
subire
il
medesimo
trattamento,
mentre
erano
risparmiati
i
fanciulli
di
età
inferiore
ai
17
anni.
Per
chi
li
ospitasse
era
prevista
la
stessa
pena.
Il
territorio
fu
setacciato
con
le
bandiere
di
guerra
e il
rullo
dei
tamburi,
decine
di
cani
mastini
addestrati
dagli
spagnoli
contro
gli
Indios
in
America
alla
caccia
all’uomo
accompagnavano
i
soldati.
Impossibile
stabilire
il
numero
dei
morti,
ma
si
sa
per
certo
che
vi
furono
1600
prigionieri,
e
fra
questi
vi
erano
700
abitanti
di
La
Guardia,
che
avendo
già
abiurato
nelle
mani
del
vicario
di
Cosenza
erano
senz’altro
da
considerare
“relassi”
e
quindi
soggetti
alla
pena
di
morte,
86
dei
quali
ebbero
“sorte
esemplare”:
scannati,
poi
segati
a
metà
e
impalati
sulla
strada
da
Murano
a
Cosenza.
Ma
non
ebbero
sorte
migliore
gli
abitanti
di
San
Sisto
che
non
avendo
in
precedenza
abiurato
furono
giustiziati
per
il
mero
crimine
di
ribellione.
Fu
tale
l’orrore
dell’eccidio
che,
venutone
a
conoscenza
il
Papa,
mandò
il
vescovo
di
Reggio
per
farla
cessare,
ma
questo
giunse
a
strage
finita.
È
argomento
di
discussione
del
dibattito
storiografico
la
natura
di
questa
repressione,
ovvero
fino
a
che
punto
la
strage
sia
stata
compiuta
per
motivi
di
intransigenza
religiosa
e
quanto
invece
abbia
avuto
peso
la
natura
per
così
dire
“autarchica”
di
questa
comunità,
che
parlava
una
lingua
diversa
oltre
a
professare
un
diverso
credo,
e la
cui
mancata
integrazione
con
gli
abitanti
autoctoni
era
motivo
di
preoccupazione.
Per
certi
aspetti
quello
contro
i
valdesi
occitani
ha
le
sembianze
di
un
vero
e
proprio
tentativo
di
pulizia
etnica,
soprattutto
se
si
analizzano
gli
episodi
di
revival
della
repressione
nei
loro
confronti.
Alla
fine
del
1592
infatti,
trent’anni
dopo
la
strage,
il
problema
della
comunità
occitana
era
tutt’altro
che
risolto
dal
momento
che
presso
i
vertici
cattolici
era
ferma
la
convinzione
che
la
“peste
Luterana”
fosse
ancora
professata
segretamente.
A
questo
punto
però
l’accusa
più
frequente
non
era
di
eresia,
ma
di
simulazione
religiosa,
così
che
a
partire
da
quegli
anni
iniziò
una
serie
di
carcerazioni
per
chi
contravveniva
ai
divieti
religiosi,
o
anche
solo
“per
aver
mangiato
carne
il
venerdì”.
La
repressione
dell’eresia
valdese,
attraverso
la
cattura
e la
detenzione
di
singoli
individui,
si
intensificò
dal
1592
al
1627,
mossa
da
un
bisogno
di
uniformare
usi,
costumi,
linguaggio.
Le
pene
comminate
erano
la
berlina
e la
gogna,
le
accuse
riguardavano
i
peccati
privati
e
quelli
legati
al
sesso,
venne
attaccato
il
modo
di
vestire
delle
donne,
considerato
indecente:
la
stessa
accusa
– fa
notare
lo
storico
Scaramella
nel
suo
saggio
L’Inquisizione
romana
e i
Valdesi
di
Calabria
(1554-1703)
-
rivolta
in
Spagna
alle
etnie
moresche,
perché
attraverso
l’attacco
alle
donne
si
esprimeva
soprattutto
una
lotta
all’identità
del
gruppo.
L’accanimento
e la
violenza
scatenata
contro
gli
Occitani
di
Calabria,
seppur
non
nuova
e
isolata
nelle
pratiche
di
repressione
delle
“eresie”
da
parte
della
Controriforma,
può
probabilmente
essere
spiegata
anche
alla
convivenza
di
più
elementi
ritenuti
minacciosi
entro
la
comunità,
impermeabile
agli
usi
e ai
costumi
della
regione
in
cui
si
insediarono.
Oggi
coloro
che
si
ritengono
i
superstiti
di
questa
comunità
hanno
dato
luogo
ad
una
sopravvivenza
fisica
che
si
ripropone
nel
numero
di
qualche
migliaio,
ma
anche
la
lingua
e le
tradizioni
sono
state
recuperate
ed
oggi
si
pongono
come
patrimonio
antropologico
di
grande
valenza
nel
contesto
della
storia
calabra.
Secondo
alcuni
studi
gli
unici
due
paesi
in
cui
l’alloglossia
permane
(inchiesta
del
1981)
sono
Guardia
Piemontese
e S.
Sisto
dei
Valdesi,
col
48%
di
presenze
di
lingua
d’Oc
per
un
totale
di
1500
anime.
Recentemente
si
sta
cercando
di
rivitalizzare
il
patrimonio
etnico-culturale
di
questa
comunità
che
rischia
di
estinguersi
con
gli
anziani.
La
loro
lingua
attuale
è il
risultato
della
mescolanza
di
più
varietà
originarie
di
Occitano
con
contaminazioni
calabresi.