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N. 67 - Luglio 2013 (XCVIII)

A CIACULLI, TRA GLI ARANCETI
’U MORTU JACI E’U VIVU SI DA’PACI

di Giuseppe Tramontana

 

Se 50 anni vi sembrano pochi… Tanto è passato dalla cosiddetta strage di Ciaculli, per chi ancora ama ricordare.

 

Dunque, siamo nel 1963. Già da alcuni anni è in atto una guerra di mafia senza quartiere per il controllo degli appalti e del traffico di sigarette di contrabbando e di droga, eroina soprattutto. Di questa droga particolare e della sua commercializzazione clandestina aveva già parlato il giornalista Cosimo Cristina. Era di Termini Imerese.

 

E lì fu ucciso. Già da cinque anni faceva il corrispondente per il giornale L’Ora di Palermo, per il Giorno di Milano, per l’agenzia Ansa, per il Messaggero di Roma e persino per il Gazzettino di Venezia. Era bravo, ambizioso, capace, integerrimo come solo i giovani e i grandi idealisti sanno essere.

 

Se poi sono allo stesso tempo giovani e idealisti, si fa presto a chiamarli rivoluzionari. Lui, a modo suo, lo era. Aveva fondato, a ventidue-ventitré anni, un suo giornale: Prospettive Siciliane, si chiamava. Andava in giro sempre con un farfallino, un papillon, e una stilografica pronta all’uso nel taschino, infilata nel block-notes.

 

Con le sue inchieste aveva seminato lo scompiglio tra le file mafiose di Termini, Cefalù e delle Madonie. Era un cavallo di razza, Cosimo. Aveva un fiuto eccezionale.

 

Basta passare in rassegna i titoli apparsi su Prospettive Siciliane. Sono tutti frutto di indagini sul campo. La mattina del 3 maggio 1960 uscì di casa. Tutto profumato e rasato come al solito. Con il solito cravattino e i solito pizzetto nero corvino ben curato. Per due giorni non tornò a casa.

 

Il pomeriggio del 5 maggio trovarono il suo cadavere, con la testa fracassata, sui binari della Termini-Palermo, sotto la galleria Fossola. Fu il padre, il signor Luigi, impiegato delle ferrovie, che, avendo sentito alla radio, del ritrovamento di un cadavere sui binari, accorse sul posto e riconobbe il figlio.

 

Suicidio, venne sentenziato. E perché si sarebbe suicidato? Femmine, no? Delusioni d’amore. Sempre lì batteva il chiodo!

 

Il vicequestore di Palermo Angelo Mangano tentò dimettere insieme un dossier in cui si avanzava l’ipotesi dell’omicidio mafioso. Sei anni dopo, nel’66, il corpo di Cosimo venne riesumato e su di esso vennero fatti nuovi rilievi autoptici.

 

Risultato? Sempre suicidio. Peccato che ormai i rilievi erano stati eseguiti su uno scheletro. E, ciò nonostante, nessuno spiegò mai come avesse fatto a suicidarsi dandosi un bel colpo di spranga alla nuca. Lungo i binari di una ferrovia.  

 

Siamo all’inizio degli anni ’60, dei meravigliosi anni ’60, e quello che stiamo per raccontare è il film di una strage di cui si è persa la memoria. Di una strage, ma anche di una svolta, di una metamorfosi feroce e devastante: quella di Cosa nostra, che, proprio in quel torno di anni, sta abbandonando il classico malaffare agrario per dedicarsi quello, più remunerativo, della moderna società urbana: appalti, sigarette e droga.

 

A proposito della droga, pare che tutto fosse iniziato con un carico di eroina, procurato dal boss Calcedonio Di Pisa, ma che poi era stato sabotato all’arrivo a New York.

 

Di Pisa venne fatto fuori il giorno di S. Stefano del 1962. Uno di quelli che scelse di stare coi Greco fu Cesare Manzella, un lontano zio di Peppino Impastato. Erano tutti di Cinisi, Palermo.

 

Se qualcuno di voi ha visto I Cento passi, il film di Marco Tullio Giordana, lì si vede Manzella che, proprio all’inizio del film, apprezza il piccolo Peppino che declama a memoria l’Infinito di Leopardi. E si vede anche la scena di come lo ammazzano, Manzella: sbarrandogli una trazzèra di campagna con un’auto imbottita di tritolo che poi gli viene fatta scoppiare sotto il naso.

 

Questo accadde il 26 aprile 1963. Ma questo attentato, così come quello di Ciaculli, fu, pare, la reazione all’uccisione, nel gennaio dello stesso ’63, di Salvatore La Barbera, fratello dell’altro boss, Angelo, e capo della famiglia omonima.

 

Ma che successe a Ciaculli il 30 giugno 1963?

 

La strage di Ciaculli iniziò in realtà a Palermo centro. E iniziò quando alcuni uomini del boss Pietro Torretta, della famiglia La Barbera appunto, latitante per vari omicidi, rubarono una Giulietta e la imbottirono ben bene di tritolo, con un congegno a orologeria che la facesse esplodere al momento giusto.

 

Con un filo d’acciaio collegarono poi lo sportello del bagagliaio alla carica, in modo che tutto facesse boom appena qualcuno avesse tentato di aprirlo.

 

Molti anni dopo, un’ipotesi suggestiva avrebbe chiamato in causa, per la sistemazione dell’esplosivo nella macchina, niente di meno che l’OAS, l’organizzazione terroristica francese che in Algeria ne ha combinato di cotte e di crude. Compreso il confezionamento di autobombe. Dei professionisti, insomma.

 

Ma non sappiamo fino a che punto questa versione sia vera. A ogni modo, l’auto partì. Diretta alla villa dei fratelli Greco. Solo che, per strada, accadde una cosa abbastanza normale, ma, in quel momento, assolutamente imprevista: si bucò una gomma. Capita, no?

 

A questo punto, il commando non aveva scelta: o ritornava indietro, a Palermo, ma il timer era stato già azionato e quindi il rischio che non facessero in tempo era molto concreto, oppure cambiavano la gomma, ma non potevano aprire il bagagliaio sennò, anche qui, saltava in aria tutto.

 

Così decisero di mollarla lì dove si trovava. Semplicemente. Subito dopo, qualcuno entrò in una cabina telefonica e chiamò i carabinieri, avvisando che c’era questa Giulietta sospetta, con gli sportelli aperti. Che venissero a darci un’occhiata.

 

Dimenticarono, però, un piccolo particolare: di dire che l’auto era imbottita di tritolo. Qualcuno, addirittura, dopo il fatto, ha ipotizzato che no, l’auto non fosse diretta ai Greco, ma che volesse colpire proprio la parte migliore delle forze investigative palermitane.

 

Insomma, far fuori d’un colpo solo e senza alcun rischio i migliori investigatori, carabinieri, poliziotti, che lo Stato poteva schierare in quel momento contro la mafia. Tesi, a dire il vero, non del tutto infondata, poiché per poco questo non accadde davvero. Ma continuiamo.

 

Sul posto dove c’era la Giulietta arrivarono il maggiore Favalli, comandante della quadra omicidi dei carabinieri, e il commissario Madia, comandante la squadra mobile. Osservarono la macchina, guardarono sotto, videro la gomma a terra, videro il filo che collegava alcune bombole con la batteria, ma non toccarono nulla.

 

Chiamarono invece i tecnici del comando di artiglieria di Palermo. Poi, arrivò una chiamata: da un’altra parte di Palermo c’era stata una sparatoria e loro servivano là. Così dovettero andare via. Sul posto rimasero sette persone: il tenente dei carabinieri Mario Malausa, il maresciallo dei carabinieri Calogero Vaccaro, il maresciallo di polizia Silvio Corrao, i carabinieri Marino Farbelli ed Eugenio Altomare, un soldato di artiglieria, Giorgio Ciacci, e il maresciallo artificiere dell’esercito Pasquale Nuccio, chiamato perché provvedesse a disinnescare l’ordigno.

 

Il maresciallo Nuccio lavorò per un’ora abbondante con grande precauzione, facendo attenzione a ogni cosa, e finalmente riuscì a smontare il meccanismo che collegava l’esplosivo alla batteria. “Tutto a posto, maresciallo?” gli chiese Malausa.

 

“Sì e no, – rispose Nuccio – qui ho finito, ma bisognerebbe aprire il cofano. Ma io non mi fido. Come facciamo a sapere cosa c’è dentro?”

 

Malausa gli fece un piccolo sorriso di sufficienza: “Maresciallo, stiamo invecchiando, eh? Che ci vuole. Basta un po’di coraggio e il cofano si apre…”

 

Così si avvicinò, col pollice premette il bottone dell’apertura e contemporaneamente spinse all’insù lo sportellone.

 

Aveva ventiquattro anni, Mario Malausa. Era torinese. Di un’altra parte d’Italia, di un altro mondo. Dove gli uomini sono forse più ingenui o corretti. Sicuramente meno abituati a pensare al male che si aggira tra noi mortali. O forse non lo soccorse la fantasia, in quel momento. Che ne sappiamo?

 

Il portabagagli si alzò leggermente. Il giusto per farne venir fuori l’apocalisse. Un lampo. Alto almeno venti metri. Una deflagrazione che si udì a chilometri di distanza.

 

L’auto scomparve. Al suo posto un cratere profondo quattro metri. L’auto venne ingoiata dal nulla, sì, e con essa i sette uomini. Di loro non rimase nulla.

 

Del maresciallo Corrao, uno degli investigatori più bravi di Palermo, ritrovarono solo una scarpa, la cinghia dei pantaloni, la fede nuziale e la fondina della pistola. Il tutto lo consegnarono alla moglie.

 

Era quasi famoso in città, Corrao. Era un uomo schivo e malinconico. Diceva spesso di aver sbagliato mestiere e che avrebbe voluto fare lo scrittore. Amava Tomasi di Lampedusa, Moravia, Pavese, Shakespeare, Pasolini. E su questi autori meditava, leggeva e litigava, spesso alla Libreria Flaccovio, il cenacolo degli intellettuali palermitani.

 

Del tenente Malausa, quello che aveva aperto il bagagliaio, trovarono una stelletta di acciaio del bavero e la spallina con i gradi di tenente. Era un ex ufficiale dei carristi, alto, temerario, spavaldo, un atleta che correva i cento metri in qualcosa come undici secondi.

 

Tutto quello che recuperarono di lui lo consegnarono alla madre in una busta d’ufficio gialla. Del carabiniere Eugenio Altomare fu rinvenuto solo il berretto e l’anello nuziale.

 

Dentro l’anello c’era scritto: ’Per tutta la vita con te’. Si era sposato sei giorni prima.

 

Ancora oggi girano le foto scattate il giorno dei funerali, a Palermo. Le bare adagiate su dei camion. Le corone di fiori alle fiancate. Ma si stenta a credere che dentro quelle bare, in realtà, non ci fosse praticamente nulla.



 

 

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