N. 25 - Giugno 2007
Viaggio nelle
strade della Roma imperiale
Un denso
gomitolo di strade strette e sudice
di
Tiziana Bagnato
Circa sessanta mila passi, ovvero, circa 85
chilometri: è questa la distanza che le strade di
Roma, secondo il censimento del 73 a.C., avrebbero
ricoperto se il loro groviglio fosse stato dipanato e
le vie fossero state allineate.
Infatti, fino alla fine
dell’Impero, le strade rimasero più che un
sistema organico ed efficiente, una massa mal
organizzata ma caratterizzata, sin dalle suo
origini, da precise distinzioni. Queste
erano, infatti, distinte in itinera, le
vie accessibili solo ai pedoni, actus,
quelle in cui poteva transitare un carro alla
volta e, infine, le viae propriamente
dette, ovvero, quelle in cui due carri
potevano incrociarsi o superarsi.
Nel corposo gomitolo di strade
dell’antica muraglia repubblicana, solo 2
avevano in realtà diritto al nome di via:
la via Sacra e la via Nova, che
attraversavano e costeggiavano il Foro.
Invece, tra le porte della cinta di mura e la
periferia delle quattordici regioni, le
viae erano una ventina, tra cui, ad
esempio, la via Appia, la via Latina, la via
D’Ostia e la via Labicana.
Le vie avevano una larghezza
compresa tra i 4,80 e i 6,50 metri, mentre i
vici, che corrispondevano a quelle che
noi oggi chiamiamo vie, raramente
raggiungevano questa ampiezza. Più
frequentemente ne restavano al di sotto, come
nel caso degli angiportus, semplici
passaggi, o dei sentieri, semitae, di
cui era prescritta la larghezza di dieci
piedi, pari circa a due metri e novanta,
affinché le case che li fiancheggiavano
potessero avere il permesso di costruire dei
balconi ai piani superiori.
La particolare ridotta
estensione delle strade romane, diventava
ancora più ingombrante nel caso dei clivi,
ovvero le rampe che consentivano di salire o
discendere i pendii sulle sette colline.
Un altro degli elementi di
demerito delle strade era la scarsa pulizia in
cui erano mantenute. I rifiuti delle case,
infatti, non contribuivano a dar loro un bel
aspetto, nonostante Cesare, in una sua legge
postuma, ne avesse prescritto il mantenimento
del decoro. Nel testo della legge Cesare
intimava, infatti, ai proprietari degli
edifici che costeggiavano le vie pubbliche di
pulire davanti alle porte e ai muri e,
rivolgendosi agli edili a cui era affidato il
quartiere, di provvedere con contravvenzioni
ad eventuali mancanze.
Ma la legge non trovò quasi mai
applicazione, perché, in sostanza, declinava
ai privati, piuttosto che allo Stato, la
responsabilità di intervenire e provvedere
affinché fosse mantenuta la pulizia e
rispettata la legge e non risulta, tra
l’altro, che esistessero squadre di spazzini.
Uno degli elementi che più
allontana la realtà urbana di allora da quella
capitolina odierna, è il fatto che durante la
notte le strade rimanevano immerse nel buio.
Non esisteva la consuetudine di appendere ai
muri fanali ad olio o candele, e nemmeno di
utilizzare lanterne lasciate oscillare agli
architravi delle porte. Le eccezioni erano
poche ed erano legate per lo più alle feste
improvvise, organizzate per celebrare un
particolare accadimento.
La notte, immersa nel buio più
totale a parte la luce lunare, era simbolo di
pericolo e di mistero. I romani di barricavano
dentro le loro case, serrando battenti e
portoni e ritirando nella case i vasi di fiori
e di piante. I ricchi, qualora avessero avuto
la necessità di uscire dopo il calar del sole,
si facevano accompagnare dagli schiavi, i
quali facevano strada con delle fiaccole.
Esistevano ronde notturne, le
sebaciaria, ovvero pattugliamenti di
vigili del settore delle due regioni, il cui
servizio di polizia era affidato ad ognuna
delle sette coorti, ma queste non suscitavano
molta tranquillità nel incamminarsi per la
città durante la notte. Basti pensare che
Giovenale diceva che recarsi ad una cena senza
aver fatto testamento, costituiva una
negligenza.
Riferimenti bibliografici:
Jerome
Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Laterza,
1982, Bari |