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N. 23 - Aprile 2007

LA STORIOGRAFIA LATINA E LO STATO ROMANO

Consenso e critica - Parte II

di Bianca Misitano

 

Anche per parlare di Sallustio, come per il suo “predecessore”, bisogna innanzitutto prendere in considerazione il periodo storico in cui vive.

 

Sallustio nasce infatti nel periodo della “rivoluzione romana”, in cui la crisi delle istituzioni repubblicane è all’apice e la loro antica forza ed efficienza è ormai solo un ricordo. Questo è uno dei periodi più difficili nella storia di Roma ed uno storiografo come lui non può non avvertirne tutto il peso. Sallustio rappresenta una pietra miliare della storiografia romana, con lui giungono a maturazione tutti quei caratteri tipici della tradizione romana, quali il forte moralismo che si richiama agli antichi valori e il pessimismo nei confronti della situazione attuale.

 

Sallustio dipinge un quadro della sua città a tinte decisamente fosche, famosa, ad esempio, la sua frase che afferma che “a Roma tutto si poteva comprare”. La corruzione non è più, infatti, appartenente ad una fetta specifica della classe dirigente romana, ma dilaga nella città senza più alcun freno. Ne deriva, quindi, un atteggiamento di forte critica e denuncia, che arriva a comprendere l’intera società romana. Nell’opera De Coniuratione Catilinae, ad esempio, non vi è più praticamente alcuna differenza morale fra chi trama complotti come Catilina e chi govenrna, ossia il Senato romano. La marmaglia di sbandati che attua il complotto non trova il consenso dell’autore come dall’altra parte non lo trovano nemmeno i patres di Roma.

 

Da entrambe le parti vigono comportamenti che Sallustio giudica immorali e disonesti, tanto che la situazione sembra andare verso un vicolo cieco, Roma sembra destinata a collassare su sé stessa. Da qui si origina la visione forse più pessimistica in assoluto nell’ambito della storiografia romana, poiché in Sallustio manca qualsiasi tipo di idealizzazione. Sia prima che dopo di lui gli storiografi, pur magari criticando il momento a loro contemporaneo, avevano nutrito e continueranno a nutrire una più o meno marcata ammirazione per determinati momenti del passato, che in genere appartengono alla Roma delle origini. Sallustio invece, se dapprima accoglie il limite proposto da Catone del 146 a.C., distruzione di Cartagine, prima del quale la repubblica si era mantenuta sana, in seguito nemmeno la Roma dei tempi arcaici diviene immune dalla sua critica, non essendo per lui molto dissimile da quella contemporanea. Sallustio infatti sostiene che non furono le antiche virtù a mantenere salda Roma, ma solo il metus hostilis, la paura dei nemici e che una volta svanito, le feroci lotte politiche non tardarono ad accendersi nemmeno all’epoca.

 

L’ambiguità di Sallustio, ma anche quella di tutti gli altri storici romani, è che egli non esita a condannare una situazione che ai suoi occhi risulta essere senza speranza, ma non propone soluzioni né alternative realmente concrete, ma vagheggia solo  un’ alquanto  utopica restaurazione degli antichi mores. La sua, dunque, è una feroce critica alla società romana che però non presuppone il rifiuto della tradizione più eminentemente latina. Sia per Sallustio che per gli altri storici la soluzione alla crisi di Roma non viene dall’esterno o da un totale rinnovamento della sua cultura e civiltà, ma ha in sé la soluzione ai suoi mali nella forma dei suoi propri antichi usi. E’ una sorta di “ritorno al passato” la cura che viene vista come l’unica efficace, sebbene l’impossibilità della sua attuazione risulterà sempre più evidente man mano che il pensiero storico romano progredirà.

 

In Sallustio, quindi, emerge completamente la peculiarità della storiografia latina: la critica caustica non nega un certo patriottismo, le accuse di inefficienza rivolte ai politici romani non demolisce il profondo rispetto per le istituzioni repubblicane in quanto tali. Tanto che, per Sallustio, la sedizione violenta del popolo è vista in ogni caso come un male, poiché attenta proprio a queste istituzioni, anche quando prende le mosse da istanze sociali fondamentalmente giuste e legittime.

   

Per quel che riguarda la questione dell’imperialismo, anche questa con Sallustio acquisisce quegli aspetti che la caratterizzeranno anche in futuro.

 

La denuncia dell’avidità e della brama di conquista romane vengono espresse senza mezzi termini in brani divenuti famosi, come ad esempio quello della lettera di Mitridate re del Ponto a re Arsace contenuto nel Bellum Iugurtinum, dove, fra le altre cose, viene detto: “I romani sono pronti a prendere le armi contro tutti, in maniera acerrima contro coloro che, vinti, forniranno ricchissime spoglie: osando e ingannando e intrecciando guerra da guerra sono diventati grandi. Con questo modo d’agire estingueranno o abbatteranno tutto.”

 

D’ora in poi il mettere in bocca ai nemici la denuncia dell’imperialismo romano diverrà consuetudine, rispettata in praticamente tutte le successive opere storiografiche. Anche gli argomenti, in questo senso, diverranno quelli sempre ripresi, come la sete di ricchezze e la smisurata ambizione, tanto che tutti questi brani sembrano quasi seguire un unico schema. Quest’ ultima caratteristica, comunque, probabilmente indica che più che le vere opinioni dell’autore essi erano più semplicemente un modello retorico e letterario. E’ comunque un fatto, che anche gli storici più scopertamente patriottici non rinunceranno più a dar voce, a modo loro, alle ragioni degli avversari.

 

Colui che abbraccerà in toto questa versione di Sallustio critica e pessimistica nei confronti di Roma, sarà l’autore di età Flavia Tacito. Ma il filo conduttore che idealmente li lega strettamente è interrotto dall’autore tradizionalmente considerato il maggiore storico latino (ma forse è più corretto definirlo lo storico maggiormente romano, nel senso più tradizionale del termine), ossia Tito Livio. La sua idea di Roma è apparentemente così diversa da quella dei suoi grandi predecessori e successori, che molti critici di oggi ritengono che egli debba essere collocato addirittura fuori dalla tradizione storiografica latina. In realtà, la sua distanza dalla tradizione è minore di quanto si pensi.

 

Un accenno all’età in cui vive è di dovere per comprendere la sua posizione: Livio si inserisce nell’ambiente di età augustea, caratterizzato politicamente dalla creazione del principato da parte di Ottaviano Augusto, che porterà al termine del periodo della “rivoluzione romana” e delle guerre civili ed al ristabilirsi delle condizioni politiche e della tranquillità, e, socialmente, dal ritorno in auge dei valori e della morale tradizionale, fortemente promossi dalla propaganda del nuovo princeps che troverà larga approvazione presso il popolo romano. Si tratta, dunque, di un periodo estremamente più sereno per Roma di quello in cui Sallustio aveva vissuto. Ciò ovviamente si riflette anche nell’opera di Livio che, oltretutto, apparteneva a quella cerchia di intellettuali che Augusto aveva legato in maniera particolare a sé, grazie all’attività del suo “ministro” Mecenate, che fondò il famoso “circolo” di letterati.

 

Da ciò deriva l’atteggiamento maggiormente fiducioso e meno polemico che caratterizza Livio, nella cui opera domina piuttosto che un’aspra critica della società, l’esaltazione dei valori tradizionali latini e di Roma stessa. Proprio per questo suo “entusiasmo”, egli viene considerato come colui che “interrompe” quel filone pessimistico che si era affermato nel periodo precedente e che continuerà dopo di lui.

Tradizionalmente, Livio è considerato uno storico di “corte”, sia perché si fa latore di quella propaganda augustea che mirava a rivalutare tutte le istituzioni più antiche di Roma, sia perché la sua opera è palesemente di parte, ossia volta ad esaltare l’azione dei romani senza badare particolarmente ad eventuali deformazioni storiche. In realtà non è esatto dire, comunque, che in lui vi sia una completa assenza di senso critico o di consapevolezza della decadenza della repubblica romana. In lui, la critica è semplicemente più temperata e smorzata dalla ritrovata fiducia nell’ordinamento romano, dettata sicuramente dal momento storico favorevole. E’ evidente che all’età di Augusto uno storico dai toni quasi apocalittici come quelli sallustiani apparirebbe fuori posto, per il semplice fatto che le condizioni sono cambiate in meglio, ed è ragionevole, quindi, che gli intellettuali di questa età siano meno inclini al pessimismo.

 

Su Livio, inoltre, è comune pensiero che il suo atteggiamento di approvazione e consenso sia dettato semplicemente dal fatto che egli appartenga all’ ambiente di Augusto e che quindi sia stato praticamente indotto a interpretare la storia in una certa maniera, ma nemmeno questo è del tutto vero. La convergenza di ideali fra lo storico ed il grande uomo politico è più che altro “naturale”, i sentimenti di Livio sono sinceramente filo-repubblicani ed anche Augusto segue una linea politica secondo la quale si propone ai romani come il restauratore della repubblica (anche se, nei fatti, sarà l’uomo che ne decreterà la morte definitiva). Quindi anche l’aspetto di Livio come storico “di regime” deve essere ridimensionato e visto sotto una luce diversa. Oltretutto non sappiamo nemmeno cosa Livio ne pensasse di Augusto nello specifico, perché la parte della sua opera relativa a quest’epoca non ci è pervenuta. Quindi ci è impossibile dire se Livio approvasse davvero in tutto e per tutto, senza alcuna ombra di dubbio, l’attività di Ottaviano o se nei suoi confronti potesse nutrire comunque qualche remora.

 

In ogni caso Livio si ricollega alla tradizione storiografica più antica, ossia l’annalistica. Ciò implica, quindi, una ulteriore intensificazione del suo rispetto verso gli elementi tradizionali, soprattutto le leggende, la religione, la celebrazione delle grandi personalità del passato. Nella sua opera, infatti, vengono inseriti tutte i miti più “classici” romani, come, ad esempio, quello di Romolo e Remo, come se non differissero quasi per nulla dai fatti più propriamente storici. I grandi condottieri vincono anche perché hanno onorato correttamente gli dei, così come largo spazio viene dato agli auspici celesti che indicano eventi futuri. Quella di Livio è, quindi, una storiografia che recupera ogni aspetto della tradizione romana e che non poteva non riavvicinarsi, quindi, a quell’atteggiamento di consenso e patriottismo che aveva caratterizzato le origini di questo genere. Ad esempio, la questione imperialistica viene da lui impostata in maniera differente rispetto al passato, il conflitto fra l’aumentare della potenza romana all’infuori dei propri confini e il diritto all’indipendenza degli altri popoli, viene mitigato dalla fede in una sorta di “missione provvidenziale” che Roma deve compiere. Per Livio, infatti, il predominio di Roma sugli altri stati è un bene, al fine di realizzare il grande progetto della Pax Romana, ossia dello stabilirsi della pace fra tutte le popolazioni, pace garantita dalla protezione e dall’influenza della romanità. In Livio, quindi, l’Urbe si assume una missione pacificatrice, nell’ottica della quale le sue conquiste divengono più che giustificabili.

 

Da inserire nell’ambito del suo “tradizionalismo” è anche la sua visione del passato come il tempo in cui sono vissute le personalità che hanno fatto grande la civiltà romana ed in cui si sono affermate quelle virtù così celebrate nel suo scritto. Sono tempi, quindi, di eroismi, atti gloriosi e comportamenti esemplari, che illustrano quali siano il coraggio e la dignità a cui ispirarsi. Più che l’interesse prettamente storico, in Livio, infatti, c’è proprio questo intento moralistico a cui tutto il resto viene subordinato e che funziona da “lente” attraverso la quale l’autore espone tutta la storia di Roma. Anche qui, quindi, il distacco da Sallustio è evidente, le loro due concezioni sui tempi remoti sono diametralmente opposte, laddove quella di Livio è molto più aderente a quella “classica”, mentre quella sallustiana maggiormente disincantata.

 

La generale approvazione dello storico augusteo verso le imprese di Roma, non è però, immune da critiche. Come già ricordato, Livio avverte comunque la problematicità dei suoi tempi, in cui la nuova forma di governo della città stava prendendo vita non senza molte ambiguità. La coscienza della decadenza morale della città è in lui viva, così come è viva anche una certa perplessità di fronte ai “rimedi” che si stava cercando di porvi. Non gli sfugge nemmeno la complessità della vita politica dei suoi tempi che nella sua opera risulta comunque completamente diversa da quella dell’antica res publica.

 

Tito Livio è quindi lo storiografo della tradizione, che riprende a cantare le glorie di Roma, che ne raccoglie i valori e la mentalità e ne fa il centro della sua opera. Il suo “distaccarsi” dal filone storiografico recente non è un rifiuto di quella tradizione letteraria, bensì un riallacciarsi a qualcosa di più ancestrale e originariamente romano, anche e soprattutto come atteggiamento verso lo Stato. La sua fiducia in Roma è piena e convinta e, sebbene non rinneghi i problemi che la affliggono, per Livio la civiltà romana resta comunque la migliore del mondo.

 

Dopo di lui, il filone moralistico e pessimistico riprende il sopravvento, soprattutto con il terzo ed ultimo fra i grandi storiografi latini: Publio Cornelio Tacito. Egli vive in un periodo in cui il sistema imperiale è ormai affermato, in cui non c’è più bisogno che il princeps si nasconda, come fece Augusto per gran parte della sua carriera, sotto l’immagine di protettore della repubblica e del Senato romani. Il governo dell’imperator è ormai un dato di fatto.

 

Nonostante Augusto avesse dato origine ad un periodo di pace e tranquillità, non altrettanto si potrà dire di alcuni dei suoi successori che non esitarono ad instaurare governi più o meno oppressivi, come Tiberio, Caligola, Nerone, dopo il quale la dinastia giulio-claudia (quella di Augusto) si estinguerà e verrà un intero anno di guerre civili, che passerà alla storia come il longus annus. A seguito di queste lotte prenderà il potere la dinastia dei Flavi, sotto i quali Tacito vive, che daranno a loro volta all’impero un altro tiranno, Domiziano. E sarà proprio durante il suo regno che lo storico farà carriera arrivando a posizioni abbastanza di riguardo, anche grazie al suocero, il generale Giulio Agricola, su cui poi egli scriverà una monografia.

 

Come ben si vede, con l’instaurazione dell’impero, le lotte per il potere non terminarono, ma, semmai, si inasprirono ancora di più. Oltretutto, pochi furono i regnanti che seguirono la linea di Ottaviano, riuscendo a stabilire un equilibrio fra la libertà dei cittadini ed il controllo imperiale, senza farsi prendere dalla smania di dominare completamente Roma e le sue conquiste. Anche se la situazione non è più critica come ai tempi della fine della repubblica, le violenze e le prevaricazioni non cessano, ma anzi, adesso che il potere dell’imperatore nei fatti non può essere limitato da nessuna delle altre istituzioni politiche, lo stesso impero tende a diventare sempre di più un vero e proprio dominato, anche se nell’età di Tacito questa tendenza si manifesta ancora solo con sporadici episodi di tirannia.

 

Nonostante questo storico “cresca” sotto uno di questi imperatori tiranni, Domiziano, nelle sue opere il suo atteggiamento verso di lui in particolare sarà sempre di contrasto, così come, in seguito, lo sarà verso l’impero in generale. Dopo la morte di Domiziano, sotto l’impero di Nerva e poi di Traiano, Tacito sviluppa le sue opere letterarie in cui si può assistere all’evoluzione delle sue idee riguardo lo stato romano. Dapprima, anche per la sua particolare posizione derivatagli dal fatto che aveva fatto carriera sotto un imperatore odiato e malvisto, Tacito cerca in un certo qual modo di adattare le sue opinioni alla necessità di giustificarsi dalle accuse di “collaborazionismo”.

 

Se, infatti, condanna il regime di Domiziano, la sua non è un’opposizione verso l’idea di impero tout court, tant’è che non perde occasione di lodare il modo di governo più ragionevole e saggio di Nerva e sostiene che in ogni caso, dovere di un buon cittadino romano non è quello di ribellarsi allo Stato. Tacito, infatti, taccia di stoltezza chi, seppur sotto una tirannide, oppone una resistenza ad oltranza, sostenendo che essa non porta da nessuna parte e che invece si dovrebbe cercare di perseguire assieme con il governo il bene della res publica. Il cives Romanus in sostanza deve mantenere un corretto equilibrio, senza cadere né in un vile servilismo, ma nemmeno in una sterile opposizione. L’ideale è quindi quello di non negare il proprio appoggio anche ad un principe “dominus”, nella misura in cui ciò possa essere utile al bene di Roma. E’ evidente come qui Tacito tenti più che altro di giustificare il proprio comportamento e quello del suocero Agricola.

 

Ma, la sua idea cambia gradualmente fino ad arrivare alle più dure critiche contenute nelle sue due opere di impostazione annalistica: gli Annales, riguardanti il periodo giulio-claudio e le Historiae, che invece si rifanno al più recente periodo dei Flavi. Qui gli strali contro il governo imperiale si fanno più polemici, tanto che Tacito arriva a vedere il sistema imperiale come nient’altro che un rimedio doloroso ma necessario ad una situazione, quella della fine della repubblica, che altrimenti avrebbe portato Roma al tracollo. Qui, quindi, non c’è l’ottimismo di Livio, che era stato comune anche ad alcuni altri storici di età augustea e post-augustea, nei riguardi della nuova soluzione di governo romana, che veniva vista come l’elemento che aveva posto fine a lunghi anni di decadenza e guerre civili. In Tacito l’impero è una necessità, che, semmai, manifesta solo l’incapacità dei romani a governarsi da soli, senza un principe che ne regoli le mosse.

 

D’altra parte, nemmeno la figura dell’imperatore scappa alla sua analisi duramente critica. Celeberrime sono le sezioni degli Annales dedicate a uomini come Tiberio e Nerone, visti nel loro declino verso un’idea di impero sempre più folle. La decadenza della società romana corrisponde alla decadenza di questi governanti dipinti come tirannici ed incapaci.

 

Persino sulla potenza militare romana, su cui mai prima d’ora erano stati espressi dubbi, nemmeno dagli storici più pessimisti, Tacito nutre qualche perplessità. Nella sua particolare monografia, intitolata Germania e dedicata, per l’appunto, alla descrizione delle popolazioni di quella regione, egli auspica per il bene di Roma che, per dirla con le sue parole: “Duri, oh duri a lungo tra questi popoli se non l’amore per noi almeno il reciproco odio, giacchè, incombendo ormai sull’impero il suo destino fatale, niente di meglio può offrirci la fortuna che la discordia fra i nostri nemici”.

 

Ecco che addirittura, se per Sallustio il metus hostilis era fattore di coesione fra i romani, per Tacito la potenza e l’aggressività dei nemici diventa una cosa da temere fortemente, come se ormai nemmeno l’arte militare romana valesse più qualcosa.

Con Tacito, quindi, la sfiducia diviene praticamente totale, anche perché emerge la consapevolezza dell’impossibilità di tornare indietro e la convinzione che ormai Roma si avvii ad un inesorabile declino.

 

Così si conclude questo veloce excursus sul panorama della storiografia latina, all’interno della quale, nonostante le diverse posizioni, si possono comunque ritrovare dei caratteri generali che derivano dalla stessa essenza fortemente romana di questa letteratura. Esso è innanzitutto il genere più impegnato politicamente e che più rispecchia, quindi, l’evoluzione di mentalità, tradizioni, valori, situazioni sociali di Roma. Questa focalizzazione sulla città, con poco spazio anche per la descrizione delle conquiste estere, rafforza quei caratteri che gli provenivano dalla più antica tradizione e che lo differenzia dai restanti generi letterari latini. Questo attaccamento ai costumi romani determina un atteggiamento generale molto particolare e che apparentemente può sembrare addirittura contraddittorio: come già accennato nel discorso su Sallustio, gli storici romani pur manifestando il loro sdegno verso la situazione a loro contemporanea, non arrivano mai a sperare in cambiamenti radicali o ad indicare altri tipi di società che siano meglio della loro. Loro unica cura è quella di predicare un ritorno all’antico, alle origini, quando le virtù romane erano praticate e rispettate, solo gli antichi mores, infatti, possono garantire il miglioramento della situazione.

 

C’è quindi, verso Roma e lo stato romano, un comportamento ambivalente, la critica, spesso espressamente dura e spietata, non si traduce, come si potrebbe pensare, in aspirazioni “rivoluzionarie”, ma questi storici rimangono sempre attaccati alla romanità, senza mai metterla in dubbio. Concludendo, la disapprovazione nei confronti della civiltà latina si ferma spesso all’attualità, senza essere ulteriormente estesa e senza comunque mai colpirne le basi fondamentali, così come il consenso, favorito dall’atteggiamento patriottico che era tipicamente romano, non è mai passivo e privo di razionalità, ma le problematiche sociali e le loro sfaccettature vengono se non analizzate, sicuramente avvertite chiaramente. Cadono così i luoghi comuni che vedono nella storiografia un genere di “regime”, atto solo a difendere e dare valore alle ragioni dei romani, anzi, come abbiamo visto, molte volte ciò che muove gli storici è proprio la coscienza che Roma sia tutt’altro che perfetta. Piuttosto, ironia della sorte, colui che affermerà senza alcun dubbio che il governo dell’Urbe sia privo di difetti, non sarà un romano, ma un greco di nascita e di cultura: Polibio. Come si è visto i suoi “colleghi” romani sono molto meno sicuri di questo e non esitano a mettere in luce gli aspetti più negativi delle lotte intestine per il potere che si svolgono in città.

 

La storiografia latina si rivela in questa maniera estremamente interessante, poiché rivela più di ogni altro ambito letterario, l’evoluzione di quel legame che più di ogni altro è importante per un romano: ossia quello fra di lui e la propria patria. Un legame spesso complicato e che sovente deve affrontare i problemi di un impero che si espande in maniera quasi incontrollata, con tutte le conseguenze, positive ma soprattutto negative, che ne derivano. Risultato ne è una mentalità in  cui approvazione e rifiuto convivono, compensandosi e interagendo, dando vita ad un genere letterario  molto meno superficiale di quel che si vuol far credere ed unico per le sue caratteristiche.



 

 

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