N. 88 - Aprile 2015
(CXIX)
Polibio e le storie
vita
e
opera
del
grande
storico
greco
di
Alessandro
Magni
Polibio nacque a Megalopoli, in Arcadia, tra il 205-200 a.C. Figlio di Licorta, comandante dell’esercito della Lega Achea, lo storico greco ricoprì sicuramente incarichi militari di grande prestigio, arrivando addirittura a occupare la carica di ipparco, cioè capitano della cavalleria, nel 170 a.C.
La
sua
vita
fu
bruscamente
stravolta
nel
168
a.C.,
quando
il
console
romano
Lucio
Emilio
Paolo
ottenne
a
Pidna
una
schiacciante
vittoria
contro
l’esercito
del
re
di
Macedonia
Perseo,
al
cui
fianco
si
erano
schierati
anche
gli
Achei.
Di
fatto,
la
sconfitta
della
Lega
pose
le
basi
per
l’esilio
di
Polibio
a
Roma
insieme
ad
altri
prigionieri
richiesti
dal
Senato
romano
ed
indicati
da
Callicrate,
capo
della
fazione
filo-romana.
La
sua
condizione
di
ostaggio,
durata
presumibilmente
un
quindicennio,
fu
comunque
alleviata
dall’amicizia
con
la
famiglia
degli
Scipioni
e in
particolare
da
quella
con
Scipione
Emiliano,
figlio
biologico
del
vincitore
di
Pidna
ma
adottato
in
seguito
alla
sua
morte.
L’ingresso
in
questa
famiglia,
permise
a
Polibio
di
acquisire
le
prime
conoscenze
sugli
affari
riguardanti
Roma,
sul
carattere
delle
istituzioni
cittadine
e
sulla
classe
di
governo.
Vissuto
a
Roma
per
circa
due
decenni,
egli
fece
poi
ritorno
in
Grecia
da
uomo
libero.
Come
si
ricava
dalla
sua
opera
(Polib.
III,
59),
durante
questo
periodo
ebbe
occasione
di
visitare,
come
accompagnatore
dell’Emiliano,
gran
parte
dei
territori
posti
sotto
il
comando
o la
protezione
della
res
publica
come
l’Iberia,
la
catena
alpina,
la
Gallia
meridionale
e il
nord-Africa.
Quest’ultima
parte
dell’ecumene
romana
fu
percorsa
da
Polibio
una
seconda
volta
tra
il
147
e
146
a.C.
nell’ambito
delle
operazioni
poliorcetiche
guidate
dal
neo-eletto
console
Scipione
Emiliano
contro
la
città
di
Cartagine.
Successivamente,
in
seguito
alla
soppressione
romana
dei
moti
Achei
e
alla
distruzione
di
una
delle
più
antiche
e
ricche
città
della
Grecia,
Corinto,
lo
storico
fu
inviato
nel
Peloponneso
con
importanti
mansioni
giuridico-amministrative
affidategli
dal
Senato.
In
particolare,
secondo
quanto
affermato
nelle
Storie
(Polib.,
XXXIX,
3),
ebbe
un
ruolo
attivo
nella
costituzione
del
nuovo
stato
greco
come
arbitro
nominato
per
le
controversie
tra
le
città
peloponnesiache
e
per
vegliare
sull’attuazione
dei
provvedimenti
stabiliti
da
Roma,
riuscendo
a
raggiungere
risultati
tanto
positivi
da
meritare
l’erezione
di
statue
in
proprio
onore,
come
confermato
da
un
altro
storico
greco,
Pausania
(Paus.,
VIII,
37,
2).
Conosciamo
poco
circa
gli
ultimi
anni
della
sua
vita.
Sicuramente
visitò
le
città
di
Alessandria
d’Egitto
e
Sardi,
in
Anatolia,
ma
le
date
sono
incerte.
Partecipò
inoltre
alla
spedizione
contro
la
città
iberica
di
Numantia
nel
133
a.C.,
collaborando
come
esperto
di
ingegneria
militare
con
la
cerchia
di
Scipione
Emiliano.
Sulla
scomparsa
dello
storico
greco
l’unica
fonte
è lo
pseudo-Luciano
(Ps.Luc.,
Macr.
22),
secondo
cui
sarebbe
morto
all’età
di
ottantadue
anni
dopo
una
caduta
da
cavallo.
Nella
sua
vita,
oltre
alle
Storie,
Polibio
avrebbe
scritto
una
biografia
di
Filopemene,
un
trattato
di
scienza
bellica,
uno
di
carattere
geografico
e
forse
anche
una
cronaca
dei
fatti
di
Numantia,
nessuna
delle
quali
è
arrivata
sino
a
noi.
La
sua
opera
principale,
le
Storie,
nasce
direttamente
dalla
sua
esperienza
personale
e
dalla
voglia
di
donare
al
pubblico
una
storia
universale,
vale
a
dire
un
resoconto
che
non
osservasse
le
vicende
di
Roma
in
maniera
disgiunta
ma
che
le
analizzasse
in
un
quadro
complessivo.
Costituita
originariamente
da
quaranta
libri,
essa
ha
come
obiettivo
dichiarato
quello
di
illustrare
l’ascesa
della
res
publica
da
potenza
locale
della
penisola
italica
a
dominatrice
assoluta
e
incontrastata
della
realtà
mediterranea.
Attraverso
la
riproposizione
e
l’analisi
delle
vicende
politiche
e
militari
avvenute
negli
anni
tra
il
264
a.C.
e
146
a.C.
durante
i
quali
Roma
combattè
contro
Cartagine,
il
regno
Seleucide,
la
Macedonia
e le
leghe
greche,
Polibio
propone
infatti
di
svelare
i
segreti
del
mondo
romano
e di
spiegarne
i
motivi
della
superiorità.
Delle
Storie
sono
giunti
sino
a
noi
in
maniera
integrale
solamente
i
libri
I-V
e
gran
parte
del
VI,
che
trattano
le
vicende
cronologicamente
avvenute
dal
264
al
216
a.C.,
cioè
dallo
scoppio
della
prima
guerra
punica
alla
vittoria
di
Annibale
a
Canne.
I
volumi
dal
VII
al
XVIII,
conservati
frammentariamente
negli
excerpta
antiqua,
raccolta
di
brani
estratti
dai
manoscritti
polibiani
superstiti,
riguardano
invece
gli
eventi
fino
al
196
a.C.,
cioè
la
vittoria
a
Cinocefale
di
Flaminino
e
narrano
perciò
della
conclusione
delle
guerre
annibaliche
e
dei
primi
due
conflitti
tra
Roma
e
Filippo
V di
Macedonia.
I
rimanenti
ventuno
libri
(XIX-XL)
sono
invece
preservati,
sempre
in
frammenti,
nella
raccolta
di
excerpta
promossa
dal
sovrano
bizantino
Costantino
VII
Porfirogenito
nel
decimo
secolo
d.C.
ed
espongono
i
fatti
accaduti
dall’inizio
del
secondo
secolo
alla
distruzione
delle
città
di
Cartagine
e
Corinto
avvenuta
nel
146
a.C.
All’interno
dell’opera
polibiana,
una
sorta
di
cesura
cronologica
pare
essere
rappresentata
dal
libro
XXX,
nel
quale
lo
storico
megalopolitano,
narrando
dello
smembramento
del
regno
di
Macedonia
a
seguito
della
debacle
di
Pidna,
sembra
voler
separare
il
racconto
dedicato
alle
conquiste
territoriali
di
Roma
in
oriente
e
occidente
da
quello
successivo,
riservato
invece
alle
conseguenza
geopolitiche,
sociali
e
culturali
di
tale
espansione.
Convinto
che
la
vittoria
di
Roma
sul
mondo
greco
costituisse
qualcosa
di
ineluttabile,
derivante
principalmente
dalla
superiorità
politica
e
militare
dei
Latini,
Polibio
dedica
inoltre
particolare
attenzione
alla
discussione
sul
funzionamento
e
sulla
struttura
della
res
publica
e
alla
natura
della
sua
costituzione,
definita
dallo
storico
come
“mista”
(Polib.,
VI,
3-7;
11-18).
Partendo
dalla
classificazione
delle
forme
di
governo
enunciata
dai
Greci
(monarchia,
aristocrazia,
democrazia),
sostiene
che
tutti
e
tre
i
regimi
sono
da
considerare
parte
integrante
della
costituzione
romana
ed
afferma
che
essi
sono
rappresentati
perfettamente
dal
Consolato,
come
elemento
monarchico,
dal
Senato,
come
componente
aristocratica
e
dai
Comizi,
che
invece
assicurano
la
rappresentanza
popolare.
Tale
struttura,
identificata
come
simile
a
quella
di
Sparta,
è
indicata
da
Polibio
come
il
vero
segreto
della
forza
e
della
prosperità
romana
poiché
ogni
organo
di
governo
controlla
l’attività
dell’altro,
creando
in
questo
modo
un
equilibrio
di
potere
in
grado
di
rendere
solido
il
governo.
Dal
punto
di
vista
polibiano,
questa
stabilità,
impedisce
a
Roma
di
subire
il
fenomeno
dell’anaciclosi
(Polib.,
VI,
4-9),
vale
a
dire
quel
processo
di
nascita
e
degenerazione
dei
tre
regimi
politici
che
continuamente
si
sussegue
e
che
sta
alla
base
di
un
congenita
debolezza
di
qualsiasi
governo.
La
componente
politico
istituzionale
non
costituisce
tuttavia
per
lo
storico
greco
l’unico
elemento
in
grado
di
giustificare
la
grandezza
di
Roma,
infatti,
occupandosi
dei
motivi
del
successo
romano
egli
non
trascura
anche
il
ruolo
giocato
dalla
fortuna
nelle
vicende
umane.
Nelle
Storie,
la
Fortuna
assume
un
doppio
significato:
se
da
un
lato
viene
vista
come
una
forza
variabile
e
aleatoria
che
condiziona
le
vicende
terrene
a
prescindere
dal
comportamento
degli
uomini,
d’altra
parte
essa
assume
anche
i
caratteri
di
potenza
divina
che
agisce
razionalmente
spesso
per
punire
le
malefatte
o
l’ingenuità
di
comandanti
o
leaders
politici.
Al
di
là
del
suo
carattere
duplice,
essa
conserva
comunque
un
ruolo
di
primo
piano
nella
cronaca
polibiana
dato
che
la
sua
azione
è
spesso
considerata
come
un
fondamentale
contributo
alle
vittorie
di
Roma.
Per
ciò
che
concerne
le
fonti
utilizzate
dallo
storico
per
la
composizione
della
sua
opera,
nelle
Storie
non
se
ne
fa
menzione
diretta.
La
manifesta
predilezione
per
il
metodo
autoptico
spinge
ragionevolmente
a
sostenere
che
Polibio
abbia
attinto
in
gran
parte
da
risorse
d’archivio
e
biblioteche
private,
agevolato
probabilmente
dalle
conoscenze
acquisite
all’interno
dell’ambiente
culturale
e
politico
romano.
Tuttavia,
le
numerose
critiche
al
metodo
e
alle
tematiche
utilizzate
da
alcuni
storici,
ellenici
e
non,
come
Fabio
Pittore,
Teopompo,
Callistene,
Eforo,
certificano
l’ampia
conoscenza
storiografica
del
Megalopolitano.
D’altra
parte,
un
ulteriore
elemento
si
ricava
dai
severi
giudizi
contro
la
degenerazione
della
storiografia
greca,
espressi
dall’autore
nel
libro
XII
(Polib.,
XII,
25)
dove
si
condanna
la
drammatizzazione
marcatamente
accentuata
e il
gusto
per
il
romanzesco
maturato
tra
gli
storiografi
ellenistici
considerati
colpevoli
di
aver
progressivamente
svilito
i
loro
lavori
facendo
perdere
ad
essi
aderenza
alla
realtà
e
alle
fonti
storiche.
Rivendicando
il
rigore
del
proprio
metodo
e la
scrupolosa
attenzione
posta
nel
comporre
la
propria
opera,
Polibio
sembra
voler
riportare
in
auge
il
celebre
modello
storiografico
tucidideo
basato
sull’assoluta
fedeltà
al
vero.
Nel
libro
XII,
le
critiche
vengono
indirizzate
in
particolare
a
Timeo
di
Tauromenio,
vissuto
probabilmente
tra
il
terzo
e il
secondo
secolo
a.C.
e
autore
di
una
storia
dei
Greci
d’occidente
che
terminava
con
i
fatti
del
264
a.C.
Per
quanto
riguarda
la
riscoperta
dell’opera
in
epoca
moderna,
le
Storie
riappaiono
in
Italia
intorno
al
1415
rimanendo
tuttavia
quasi
completamente
ignorate
fino
al
1450,
quando
Papa
Niccolò
V,
particolarmente
attento
alla
rivalutazione
della
cultura
greco-latina,
ne
commissionò
la
traduzione
a
Niccolò
Perotti.
Tuttavia,
il
lavoro
del
filologo
marchigiano,
inedito
prima
del
1522,
tratta
soltanto
i
libri
I-V.
La
prima
pubblicazione
in
latino
del
frammento
del
libro
VI
arriva
solo
sette
anni
più
tardi,
nel
1529,
ad
opera
dell’erudito
bizantino
Giano
Lascaris
che
a
Venezia
pubblica
l’Opusculum
de
castrametatione
Romanorum: De
militia
Romanorum
et
castrorum
metatione,
liber
ex
Polybii
Historiis
excerptus,
riedito
poi
con
modifiche
a
Basilea
nel
1537.